2023-09-18
«I discriminati? Noi gente normale»
Arianna Porcelli Safonov (YouTube)
Arianna Porcelli Safonov, artista celebre per i suoi monologhi contro il politicamente corretto: «Il timore di offendere le minoranze ci rende incapaci di esprimere opinioni personali. Usano le fobie per governare le società e io li smaschero».Trecentottantamila persone la seguono su Facebook. La passione per l’arte dell’umorismo per Arianna Porcelli Safonov non si misura certo in «like», perché basta parlarci o seguirla, per capire quanto non si compiaccia dei numeri e che ha una grande capacità di autoironia su sé stessa. Ma una soddisfazione senza orpelli le riempie il sorriso quando racconta che i social rappresentano la sua agenzia di distribuzione. «Danno una bella possibilità a tutti», e aggiunge un «purtroppo» schietto: «Sono gratissima di aver scavallato i tanti intermediari che si arrogano il diritto di dire se il tuo lavoro funziona o meno. Farselo riconoscere direttamente dal pubblico ha tutto un altro sapore». È reduce da una ventina di tappe estive in giro per l’Italia, comprese quelle per il Festival della Bellezza, una al teatro romano di Verona e un’altra al Vittoriale, oltre al tempio di Selinunte. «Una possibilità per me di scrivere inediti e anche di parafrasare tematiche filosofiche ed estremamente complesse affrontate da grandi come Cacciari o Galimberti. A me il compito di introdurre nella complessità la comicità e viceversa».Con quale risultato?«Direi che la mia comicità sta diventando più esclusiva, sotto varie accezioni». Cioè di élite?«Un termine che non mi piace, no, non direi nemmeno intellettuale. Quel che cerco di fare è di ridare dignità a un’arte che ne è stata privata».Da quando?«Dall’arrivo di Berlusconi» (e le sfugge un sorriso, ndr).Colpa sua anche di questo?«No, ma fu il primo a buttare in tv un’arte rozza. Che invece può avere il prestigio dell’arguzia, piuttosto che della risata low-cost. Ci sto provando, a proporla così».Che cognome importante, Porcelli Safonov.«Furono i russi bianchi rientrati in Italia nel 1917. Arrivati con le navi che partivano da Odessa, fecero prima tappa a Istanbul e poi a Genova. Dove mio padre, nato in Italia, conobbe mia madre, ligure. È un popolo che ha conservato sempre la bellezza delle tradizioni. I vecchi sono tutti morti, ma suonavano quattro o cinque strumenti, imparavano l’italiano a scuola e come prima lingua avevano il tedesco. Una consuetudine tra i russi che avevano la possibilità di studiare: imparare la lingua del nemico, fico no?!».I nonni emigrarono dopo la rivoluzione russa?«Sì. Una rivoluzione che è giusto che accadesse dal punto di vista storico, ma che ha sterminato una categoria di persone che avrebbero avuto tanto da dire». Fa parte del suo dna anche d’artista? Si presenta dicendo che scrive per non indossare il passamontagna, e perché fabbricare bombe è proibito.«Occorre distruggere, per fare la rivoluzione. E se la distruzione passa attraverso il lavoro con le parole, può essere applicata alle idee predominanti. Il primo sintomo dell’ignoranza dei nostri tempi è l’assenza del pluralismo. Che è un principio di inaridimento, come accade per i campi in agricoltura». È esperta di coltivazioni?«No. Fino al 2010 facevo l’organizzatrice di eventi e sono partita da Roma alla volta di New York e Madrid».La più bella tra le due città?«In Spagna c’è grande curiosità per la scoperta di nuovi talenti, in tutti i campi. Mentre da noi c’è Favino che fa tutti i film, perché pare che il pubblico non possa scongelarsi rispetto a una risposta che non cambia mai. A me fa un po’ paura».Però è voluta tornare? «Un giorno ho preso l’auto e son ripartita come fossi una profuga. E ho abitato tra le vigne degli Appennini dell’Oltrepò pavese per sette anni e con il libro Fottuta campagna (Fazi editore, ndr) è iniziato un po’ tutto».L’agricoltura e il pluralismo, stavamo dicendo…«Sono una persona che ama il vino naturale, che ammette persino le erbacce nella vigna affinché possano nutrire il terreno. Salvaguardando le specie autoctone. Mi piace bere quello, piuttosto che quello che viene dalla vigna perfetta senza un’erbetta fuori posto. Persino i brutti pensieri vanno mantenuti. Bisogna incentivare le opinioni di tutti, sempre».Nel suo monologo La minoranza inizia dolendosi di essere bianca, etero, magra: «Non ho futuro», dice. «Devo proteggermi da sola, sì. Non c’è una onlus che in questo momento si batta per i miei diritti. Anzi, sono il nemico. La parola più inflazionata è discriminazione. Si parla tanto di discriminazione delle minoranze, ma spesso tante minoranze lo sono diventate perché quando erano maggioranze sono state discriminate. La più grande discriminazione oggi passa inosservata: è quella della gente normale. Che non ha particolari paturnie e non fa acrobazie». Discorsi alti, per un’«attricetta piacente». Così la descrive Google. La offende?«Per nulla, ne rido. Quando ci ho scherzato su sui miei social si è creata una corsa all’indignazione che francamente mi diverte». Hanno scritto di lei che ha un umorismo caustico ed elegante. Questo corrisponde di più?«Magari, sarebbe bellissimo se fosse così».Al di là di Berlusconi, davvero c’entra la politica con il cambiamento della comicità?«Perché, a lei non sembra evidente? Conviene a tutti, che le persone si facciano mille problemi nel dire cosa pensano per timore di offendere. Diventando incapaci di esprimere una propria opinione. Ce n’è una che va bene, che fa fare bella figura e che ti protegge dai problemi, perché arrischiarsi? Però penso che la cattiva politica sia conseguenza di questo, e non la causa». Qual è la causa?«Una profonda ignoranza. Abbiamo smesso di essere curiosi. Di studiare cose diverse dalla nostra cultura. Di considerare l’immigrazione come incentivo a comporre una società diversa, rendendola sinonimo di criminalità. Questo si è riflesso sulla politica. Non credo il contrario, ma sono solo una comica».Questa settimana sarà nei pressi di Pordenone e a Torino per il tour del suo monologo Fiabofobia. Uno spettacolo in cui mette al centro la paura.«Siamo passati dal “Non abbiate paura” di Giovanni Paolo II al “Restate a casa” in un batter d’occhio, da “Andrà tutto bene” alla vigile attesa. Sin dai tempi dell’Uomo Nero, ogni anno viene prodotto un nuovo soggetto che dovrà farcela fare sotto. Nello spettacolo ci scherzo su».Lei fobie ne ha?«Come tutti. C’è chi ha i ragni, chi i serpenti e chi l’aereo. Ma le paure di cui parlo sono quelle che vengono usate come timoni sociali».Responsabilità di qualcuno?«Non ci fu un Craxi a istituirle, no di certo. Ma è una tendenza che si è dimostrata efficace. Fu Chernobyl, poi la mucca pazza. Poi sono arrivati i musulmani e dopo il 2001 se vedevi un arabo che avesse fatto la sciagurata scelta di comprarsi una cartella Invicta, eri in grado di allontanarti con un record da far piangere Usain Bolt. Poi è arrivato il Covid».Di certe cose è comprensibile aver paura, no?«Certo, ma mi sono divertita - nello scrivere il testo - a descrivere come questo ci abbia profondamente cambiati. E abbia cambiato anche il rapporto con gli altri. Risulta ancora difficile a molti darti la mano in un incontro».Negli anni del Covid lei organizzava passeggiate nella natura. Una proposta per i non vaccinati?«No, non fu per chi non si vaccinava, ma proprio nell’ottica di fare una proposta a tutti. Mi hanno accusata di voler lavorare anche quando si chiedeva il green pass. Strano, voler lavorare, vero? Includere vuol dire includere tutti, non la categoria che stimiamo di più. Ho dato fastidio a molti. Ma andavo nei teatri per rivolgermi a chi si era vaccinato e nel frattempo parlavo a chi voleva fare trekking insieme a me. L’importante era ascoltarsi, e vale anche oggi».Altrimenti?«Altrimenti si diventa il beniamino di pochi. Non sono però un calciatore e non desidero una mia tifoseria. La risata è l’unico metodo in certe circostanze che permette alla denuncia di poter essere ascoltata». Non appartiene a nessuno?«No, se non al popolo dei vini naturali, di chi ama i cani, le biciclette, il dissenso».