
Con zucchero e mandorle, il fine pasto si trasforma in un’arte. E il rito del taglio è un sacrificio da celebrare intonando canti.Per il turista di passo che si siede alla tavola con vista sui nuraghi, il riflesso automatico, dopo aver gustato malloreddus e porceddu, è quello di un ammaraggio dolce su di un piatto di seadas, il classico raviolo farcito di formaggio servito con un velo di miele. Si potrebbe incuriosire il lettore a non negarsi i pabassinos (nelle loro svariate versioni), come gli amaretti o sa aranzada, in un declinarsi di oltre cento tentazioni golose. Tutte cose da mettere comodamente nella valigia del dolce ritorno. Ma c’è una enclave con solide radici che potete scoprire solo in loco, i dolci monumentali, quelli delle grandi occasioni: feste patronali, matrimoni, battesimi. Diversi i centri di gravità permanente, su tutti Quartu Sant’Elena e Selargius, entrambi nel Cagliaritano. Una premessa. La dolciaria isolana si basa su diversi ingredienti ma, su tutti, trova la mandorla regina. Una storia partita da lontano, più specificatamente dal continente asiatico, approdata poi sulle coste greche e da lì diffusasi lungo le rotte mediterranee dei Fenici e consolidatasi con la colonizzazione greca, tanto che le aree principali di produzione sono Puglia, Sicilia e Sardegna. Quest’ultima a forte vocazione d’export, tanto che già nel XVII secolo è oggetto di gabelle doganali, con flussi verso le coste italiane e francesi. Le coltivazioni sono intorno ai vigneti, nei pressi dei monasteri. Un forte radicamento sul territorio con talenti artigianali che, nella trasmissione orale di tecniche e tradizioni, fanno la differenza. Mandorle dal doppio ruolo. Di ingrediente classico, ma anche di valore simbolico. Su tutti il rimando alla fertilità femminile, ecco perché le si lanciano alle giovani spose con l’augurio di una prole generosa. In Sardegna sono il tocco in più, quale elemento decorativo di preparazioni che, in certi contesti, sono vere e proprie opere d’arte edibile, grazie anche all’uso di tecniche che si avvicinano a quelle dei vasai, come ad esempio la pasta in cortza (il mandorlato in camicia), modellato nelle forme più disparate. Un esempio è a Sinnai, dove poteva capitare di vedere alcune composizioni di tale bellezza da venire appese alle pareti, come un quadro o parte dell’arredamento, come un soprammobile. Il loro «sacrificio», cioè il taglio cui seguiva la distribuzione, era preceduto dal canto di apposte melodie a sottolinearne la bellezza. Nascono così i dolci monumentali presenti alla Festa de Santu Anni, San Giovanni Evangelista, a Quartu sant’Elena. Una tradizione che trova traccia sin dal 1600, anche se le dimensioni di questi croccanti di mandorle, opportunamente rivestiti da una glassa di acqua e zucchero, avevano pezzature decisamente minori. La sapienza della tradizione custodita dalle maistas drucceras. Autentiche professioniste che, spesso, erano talmente dedite alla loro missione da sacrificare anche la loro vita privata di mogli e di madri. A queste maestre artigiane venivano indirizzate le giovani che dovevano diventare le future donne di casa. C’era una trasmissione di saperi non verbalizzati, dove si apprendeva l’arte della pasticceria con l’osservazione e l’emulazione. L’apoteosi con la festa del santo, originariamente fissata il 24 giugno, anniversario della nascita, fatta slittare un mese dopo, visto il sempre maggiore richiamo turistico. Protettore dei pastori, con una storica società alla cui presidenza ogni anno si nomina un obriere, alternativamente proveniente dalla corporazione dei brebegaxus (pastori di pecore) o dei crabaxus (pastori di capre). Ogni anno vengono selezionate sette traccheras (giovani ragazze illibate) le quali devono portare all’obriere il gattò, ovvero il protagonista, laico, di tutta la liturgia. Un tempo i gattò erano composizioni facilmente trasportabili in grembo una volta schierate le ragazze sulla tracca, il carro da sfilata. Piccole architetture a base di mandorle e miele. Poi, a partire dall’ultimo dopoguerra, qualcosa è cambiato. Nasce il gattò monumentale che riproduce, con taglie generose, anche oltre il metro in ciascuna delle tre dimensioni, chiese, cattedrali, ostensori. Artefice di tutto questo Luigi Sitzia. Figlio e nipote d’arte, trovò la sua ispirazione dagli insegnamenti di Vitalia Piga, una maistra druccera di Maracalagonis. Non basta più essere abili pasticceri, ma bisogna avere anche talento architettonico. Entrano in gioco stampi di legno per assemblare le varie parti, come di rame per gestire cupole e campanili. Strutture dove non ci si nega nulla: ringhiere, croci, guglie. Ma non basta. Il tutto accompagnato da un corredo di alcune centinaia tra fiori e uccellini variamente decorati. È stato Sitzia a creare la caratteristica sa cappa, un rivestimento frutto di tre spennellature, più lucidatura finale, con uno sciroppo bollente di acqua e zucchero. Spennellatura opera di mani d’artista, operazione complessa da gestire con maestria, considerata la fragilità di tutto il «compendio architettonico». Le parti più delicate collegate tra loro da un rinforzo di zucchero fondente. Facilmente riconoscibili per il colore bianco di tutta l’architettura edibile che rende queste opere d’arte ben distinte da altre, dei paesi vicini, dal colore marrone scuro della struttura rivestita di solo zucchero caramellato. Opere di Luigi Stizia inviate come omaggio ai reali d’Inghilterra come in Vaticano. Una festa che dura tre giorni, con una liturgia che vede i passaggi fondamentali allietati da canti a rinforzare la simbologia del santo protettore «fai in modo che, in ogni gregge, non manchi l’agnellino» e altre invocazioni per una pastorizia prospera e felice. L’eredità di Sitzia, venuto a mancare nel 2007, è stata raccolta da Anna Maria Sarritzu, che esercita il suo talento anche in un altro evento fondamentale dell’arte monumentale applicata ai gattò, il matrimonio di Selargius, dove è presente come torta nuziale. All’inizio proposto come pura rievocazione storica, si è via via radicato anche come rito sacramentale, con tanto di coppie di futuri sposi che si propongono alla selezione finale per il loro desiderio di tenere viva la tradizione degli avi. Una manifestazione che presenta numerosissimi spunti di indubbio valore antropologico come, ad esempio, sa cadena de sa coja. Al termine della cerimonia, il legame della nuova coppia è certificato dallo sposo che inserisce il mignolo della mano destra entro l’ultimo dei sessanta anelli d’argento della catena che lo unisce alla sua sposa. Una variante del gattò lo troviamo con sa timballa, a Oliena, nel nuorese, legato al rito del battesimo. Omaggio che i genitori fanno ai padrini, dal forte valore simbolico oltre che sociale. Qui la regina incontrastata è Anna Gardu, una bellezza isolana che ricorda Maria Grazia Cucinotta. Invitata in Giappone alla Mostra dell’artigianato artistico di Toyama, l’unica, tra le eccellenze internazionali, a presentare un’opera dolciaria. La sua linea si chiama «Hòro», un curioso gioco di parole che rinvia al sardo cuore. Un’arte applicata alla elaborazione della mandorla, i cui decori si ispirano ai gioielli sardi e ai costumi del posto. È lei, l’ «orafa pasticcera» a difendere la mandorla di Oliena dalle intrusioni di altre varietali non isolane. Un’armonia che «coinvolge tutti e cinque i sensi. L’udito ricorda le mandorle tagliate, il tatto rimanda alla pelatura, l’olfatto all’abbinamento con i profumi degli agrumi. La vista alle decorazioni e poi il gusto per l’assaggio. Vi è poi il sesto senso, il percorso di emozioni che unisce tutto». Più chiara di così…
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