2021-04-20
Avrebbe dovuto aprirci la mente, invece la Rete ha eliminato la realtà
Oggi, specialmente sulle piattaforme digitali, si vanta una malintesa «libertà» di dibattito. Al contrario, siamo diventati incapaci di fare domande, accettando tutto come vero con la scusa che «lo dice la scienza».Per quanto siano distanti, le opinioni possono solo confrontarsi su un terreno comune e ancorarsi a un denominatore sia pure minimo che definisca il quadrante dello scontro. Nel pugilato i contendenti se le danno con foga, ma restano sempre tra le corde di un perimetro, di un'esperienza dove le regole della vittoria e del gioco valgono per tutti.Se manca l'esperienza comune, manca la parola che la descrive e la interpreta. E se manca la parola, mancano le discussioni. Se non ci si incardina su un innesto empirico comune, la vittoria può allora darsi solo per elisione dell'avversario: «snidarlo, denunciarlo e vaporizzarlo come una furia» (George Orwell, 1984) secondo i rapporti di forza del momento, ridurlo ad allontanarsi col volto basso e la parola che muore già in gola.Per quanto sgradevole, il conflitto è però il rischio minore. Entrando in dialettica con l'esperienza altra la si avvera, lo si fa propria calandosi pur con disgusto nel suo ventre, se ne assorbono il linguaggio e gli oggetti. È questo il segreto della malintesa «libertà» di dibattito che si vanta oggi, specialmente sulle piattaforme digitali: il credere che consista nel prendere posizione sui temi pubblicati in cartellone, di variare sul basso dettato dal capo orchestra, di piluccare da un menu prestampato. Che sia quella di muoversi sul «ring» senza vederne invece le corde e senza oltrepassarne perciò lo spazio, sì da fissarvi l'unico orizzonte dell'esperibile, e perciò del possibile. Il mondo estraneo vive di chi ne parla, non di come se ne parla.Oggi sembra a qualcuno che la moltitudine abbia perduto il senso delle proporzioni, la logica persino aritmetica e le virtù minime per una convivenza se non pacifica, almeno possibile. Che ripeta con cieca ossessione parole e gesti apotropaici fino a stordirsi, come incantata da un ritmo di tamburi tribali. Molti vedono in ciò una patologia di cui proiettano indiscriminatamente i sintomi, provando una sensazione di angoscia. Ma occorrerebbe invece circoscrivere quei sintomi e riconoscere che viviamo tra persone razionali e decenti, non meno di noi e comunque non meno che in passato, e che i nostri simili «funzionano» ancora in tutte le circostanze di pensiero e di prassi salvo che in quelle su cui si addensa l'attenzione degli organi di informazione e dei loro parrocchetti parlamentari. La concentrazione del fenomeno invita a concentrare l'analisi.La propaganda si indirizza alla massa e deve perciò curarsi che i suoi effetti si producano in modo uniforme nel massimo numero di soggetti. Per quanto effimera negli scopi, il suo veicolo retorico si fissa invece nel granito della consecutio fisica e temporale, negli istinti e nei tabù senza tempo. Tornando all'interrogativo iniziale, bisogna dunque escludere che la propaganda ambisca alla follia. Al contrario, deve preservare l'integrità logica e morale del suo target per assicurarne la programmabilità. L'argilla sociale in cui il propagandista vuole affondare le mani è disciplinata, coerente, coesa, partecipe, empatica, altruista. Trabocca senso civico e tensione morale. È sana, mortalmente sana.Come può allora riuscire il tentativo di coltivare il «buon funzionamento» dei soggetti e insieme far sì che non evolva in una critica dei messaggi propagandati, della loro plausibilità, opportunità, decenza? Precisamente intervenendo sull'esperienza sottostante, riplasmando cioè le rappresentazioni a cui quelle doti si applicano. Il concetto di «frame» assume così un'accezione più chirurgica dell'originale: non fabbrica messaggi, ma appunto rappresentazioni che catalizzano reazioni predisposte. Non tocca l'interpretazione, lavora invece più in basso, sul suo «combustibile» cognitivo. I pubblicitari allestiscono storie di successo e di gioventù ma non hanno bisogno di attribuirne il merito ai prodotti reclamizzati, perché quel nesso scaturisce da sé per giustapposizione degli stimoli. Ciò che è di norma vero nella realtà vera, che una compresenza di eventi implichi causalità, o almeno compatibilità, avvera il messaggio della realtà finta. Nello stesso modo si possono innescare gli esiti più folli e raccapriccianti facendo leva sulla sanità e la virtù dei soggetti. Chi volesse, diciamo, istigare un aviatore a bombardare i quartieri dei propri cari o le scuole dei propri figli potrebbe ad esempio riprogrammarne il carattere per trasformarlo in un pazzo sanguinario, o fargli piuttosto credere che tra quelle mura siano asserragliati i nemici. Nel primo caso, ammesso che mai riesca nell'impresa, otterrebbe un ingovernabile squilibrato, nel secondo infonderebbe tutto il patriottismo, la dedizione e la perizia del militare nel delitto. Così i migliori diventano i peggiori in quanto migliori, i più miti i più sciagurati e feroci, gli automi lanciati in un ultramondo che veste l'amaro in dolce, la rovina in trionfo e il prossimo in un ostacolo da abbattere sulla via di una qualche salvezza.Nel 1973 Pier Paolo Pasolini denunciava correttamente il centralismo con cui il mezzo televisivo elude le distanze fisiche e culturali per imporre in sincrono e in ogni casa i modelli del «nuovo potere». Se allora lo si poteva definire «autoritario e repressivo come mai nessun mezzo di informazione al mondo», oggi il suo paradigma si è evoluto nella forma ancora più estrema della rete internet, che non si limita a dispensare informazioni ma le raccoglie anche, immagazzina i pensieri e i comportamenti dei suoi utenti per studiarli, sorvegliarli e all'occorrenza spegnerli. Nel digitale la tirannide è liquida, istantanea, strutturale, sicché, più che imporla faticosamente nel reale, la si impone forzandovi il suo involucro impomatato: la digitalizzazione.Con la promessa di allargare lo sguardo su realtà altrimenti inaccessibili, le finestre telematiche le incorporano indistintamente nel bagaglio dell'esperienza e della memoria. La protesi si fa carne, diventa organo di percezione innato, reclama la stessa dignità dei sensi. I «messaggi» passano nell'eccipiente di una narrazione internamente vera e perciò compatibile con le aspettative del pubblico «ben funzionante», le notizie nello storytelling, i giudizi, le emergenze, i bersagli della simpatia o dell'odio nella testimonianza, nel «caso» e nelle trame di Hollywood. Non sbaglia chi identifica in questi strumenti le innovazioni più decisive degli ultimi decenni: perché rendono inutile ogni altra innovazione, potendola fabbricare in effigie. La sostituzione empirica manda in soffitta la maieutica e la tecnica. Non teme la realtà, la crea, e per non farla cozzare col «buon funzionamento» deve crearla lontana, in ogni dimensione.Oggi non basta più ricondurre gli sconvolgimenti del qui al battito d'ali di farfalle che volteggiano in qualche landa remota, né quelli dell'ora ai «retaggi» che ci trascineremmo da millenni. C'è anche l'inaccessibilità culturale e sperimentale delle scienze che «dicono» senza poter essere smentite, quella quantitativa dei sondaggi, dei big data, dei bollettini statistici e della macroeconomia. Chi ha mai visto un pitecantropo, un cambiamento climatico trisecolare, un deficit, un Pil, uno spread, un indice di fiducia delle imprese? L'ultramondo occupa e sfrutta tutto l'assortimento dell'inesperibile e fissa il suo regno negli estremi del troppo grande, del troppo piccolo, del troppo astratto, del troppo difficile, del troppo distante. L'ultima incursione, la più audace, si è spinta nell'impalpabilità di un microbo e dei suoi frammenti per annunciare un pericolo mortale nell'invisibile e, con inversione inaudita, una malattia nei sani.L'ultramondo non rappresenta sempre il falso, ma la facilità con cui lo può fare - e lo fa - dovrebbe renderne obbligatoria la quarantena perpetua, come raccomandavano gli uomini di scienza e di buon senso. Il supplemento di conoscenza che dispensa ai televedenti non estende, ma surroga e destituisce l'esperienza vissuta, la costringe a rattrappirsi come gli arti lasciati troppo a lungo a riposo. Ci caviamo gli occhi per indossare i visori di chi ci promette le stelle e così cozziamo contro i muri di casa, spaziamo negli oceani del web e annaspiamo nelle pozze di un viottolo, abitiamo il villaggio globale e non ci allontaniamo dal condominio. Rinchiusi, ora anche per legge, in una caverna platonica tappezzata di cristalli liquidi, avvizziamo nel buio specchiandoci nella sfera di un mago.Mai, mai l'umanità si è trovata come oggi avvolta da un'«affatturazione globale» (Antonin Artaud) che l'ha svuotata e schiacciata nel limbo dei non viventi, come non vive chi non percepisce sé stesso e le cose a sé prossime. Cessati i culti delle cose invisibili del Cielo, ha cercato l'invisibile frugando nei fanghi del mondo e lo ha trovato ovunque, lo ha adorato in ogni sua forma e lo ha creato anche dove non c'era. Tutto è diventato metafisico, ma in modo posticcio e volgare, sempre cangiante secondo i capricci del mago e senza spiegazioni né fondazioni, con la velocità dello zapping. Finché non si sarà ripartiti, come esorto a fare chi legge, dalla terra ferma e ottusa del notre jardin, e finché la realtà stanca di bussare alla porta e di urlare alle finestre non avrà fatto irruzione nel sarcofago telemondano, non sarà possibile né raccomandabile scontrarsi per dare risposte ai problemi degli uomini. Ci si scontrerebbe su un fondale cartonato, col rischio di crederlo vero.