2020-11-17
Anche i dem denunciarono i rischi del voto elettronico «Quel sistema non è sicuro»
Donald Trump (Getty images)
Il software usato negli Usa ha mostrato falle nella segretezza e nell'accuratezza del conteggio elettorale. Donald Trump rivendica 2,7 milioni di preferenze «cancellate»L'addetto stampa passava notizie al Cairo in cambio della pensione per la mammaLo speciale contiene due articoliNon si placano le polemiche negli Stati Uniti su Dominion Voting Systems: società di Toronto, con sede americana a Denver, che produce tecnologia per il voto elettronico. Donald Trump è andato all'attacco su Twitter, tacciandola di aver indebitamente «eliminato» 2,7 milioni di voti in suo favore alle ultime elezioni presidenziali. Una tesi che l'azienda ha categoricamente respinto, mentre la Cisa ha parlato di «affermazioni infondate». Ora, è chiaro che il team del presidente americano dovrà incaricarsi di addurre prove per suffragare le proprie gravi accuse. Tuttavia un certo coro mediatico che si è levato oltreatlantico in difesa di Dominion è forse vagamente esagerato. Perché, al di là delle recenti accuse di irregolarità, alcuni problemi questa società effettivamente in passato li ha riscontrati: soprattutto in Georgia, uno degli Stati che Joe Biden si è aggiudicato con uno scarto dello 0,3%. Come riferito dall'Associated press, l'associazione di attivisti Coalition for Good Governance aveva intentato una causa nel cosiddetto Peach State contro il nuovo sistema di voto elettronico che il locale parlamento aveva acquistato da Dominion nel 2019 al prezzo di 107 milioni di dollari. Secondo la denuncia, gli impianti avrebbero presentato seri problemi di accuratezza nel conteggio e vulnerabilità in termini di sicurezza (soprattutto a fronte di eventuali tentativi di hackeraggio). Il contenzioso si è protratto fino allo scorso 11 ottobre, quando la giudice federale, Amy Totenberg, ha rifiutato di bloccare il sistema elettronico. Nelle 147 pagine di ordinanza, la togata, nominata nel 2010 da Barack Obama, ha comunque messo in evidenza degli elementi interessanti. La ragione da lei addotta per non cassare gli impianti è stata che «l'implementazione di un cambiamento sistemico così improvviso […] non può che causare confusione negli elettori». Tuttavia, la giudice ha anche specificato che i «rischi», messi in evidenza dai querelanti, «non sono né ipotetici né remoti nelle circostanze attuali». Del resto, forti problemi in Georgia si erano verificati già lo scorso giugno, in occasione delle locali elezioni primarie, quando – anche a causa del nuovo sistema elettronico di voto – avevano avuto luogo intoppi, lungaggini e code ai seggi. In particolare, un articolo del New York Times riportò che le nuove macchine richiedessero «troppa potenza extra» per le sedi obsolete in cui erano collocate. Nello stesso articolo, si faceva tra l'altro riferimento alle pesanti tattiche di lobbying messe in campo da Dominion in vari Stati. La società disporrebbe per esempio di otto lobbisti registrati in Georgia, tra cui si annoverano: Lewis A. Massey (ex locale segretario di Stato democratico) e Jared Thomas (ex capo dello staff dell'attuale governatore repubblicano, Brian Kemp). In tutto questo, non bisogna neppure trascurare che, nel giugno 2019, il vicesegretario di Stato del Texas, Jose Esparza, abbia negato la certificazione al sistema elettronico di Dominion, esprimendo nella fattispecie «preoccupazioni» in materia di «segretezza del voto», efficienza e accuratezza. D'altronde, non è solo Dominion ad essere finita negli scorsi anni sotto la lente di ingrandimento, ma anche le altre società del settore: soprattutto dopo le elezioni di metà mandato del 2018. In particolare, lo scorso gennaio sono stati auditi al Congresso – sotto la direzione della deputata democratica Zoe Lofgren – gli amministratori delegati delle principali aziende del comparto: ES&S, Hart InterCivic e la stessa Dominion (le tre producono da sole circa l'80% delle macchine per il voto in uso negli Stati Uniti). Come riportato all'epoca da Nbc News, durante l'audizione sono emersi vari problemi: il settore è scarsamente regolamentato; in certi casi le macchine vengono connesse ad Internet (esponendosi così al rischio di hackeraggio); inoltre alcune delle suddette aziende (specialmente ES&S) producono componentistica in Cina (con buona pace delle esigenze di sicurezza nazionale). Tra l'altro, lo scorso 6 novembre uno studio, redatto da un team di esperti di cybersecurity del Mit, ha analizzato le «vulnerabilità» del voto elettronico, parlando di «situazioni in cui i risultati delle elezioni sono stati modificati (sia con semplice errore o attacco ostile) e la modifica potrebbe non essere rilevabile o, anche se rilevata, essere irreparabile senza condurre una nuova elezione». Ma non è tutto: il 6 dicembre 2019, le senatrici Elizabeth Warren ed Amy Klobuchar (entrambe all'epoca candidate alla nomination democratica) inviarono una lettera in cui esprimevano preoccupazione per il voto elettronico, evidenziando problemi verificatisi nel 2018 in Missouri, Indiana e South Carolina. D'altronde, proprio in riferimento al South Carolina, le senatrici fecero riferimento alla questione dello «switch» (lo spostamento indebito di voti da un candidato a un altro): lo stesso fattore contro cui punta oggi il dito Trump in svariate contee del Michigan.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/anche-i-dem-denunciarono-i-rischi-del-voto-elettronico-quel-sistema-non-e-sicuro-2648945280.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="una-spia-egiziana-negli-uffici-di-angela-merkel" data-post-id="2648945280" data-published-at="1605570062" data-use-pagination="False"> Una spia egiziana negli uffici di Angela Merkel Una spia dell'intelligence egiziana era riuscita a infiltrarsi nell'ufficio stampa della cancelliera tedesca Angela Merkel. La notizia delle indagini era stata confermata a luglio, dopo le rivelazioni del quotidiano Bild, dal ministro dell'Interno Horst Seehofer. Ieri la procura ha incriminato formalmente l'uomo, Amin K., nato in Egitto, accusato di aver trasmesso informazioni al Servizio di intelligence egiziano (Gis, che si occupa prevalentemente di terrorismo) sfruttando la sua posizione nell'Ufficio stampa federale, diretto dal portavoce della cancelliera, Steffen Seibert. Se condannato per spionaggio per un servizio di intelligence straniero, potrebbe rischiare fino a cinque anni di reclusione. A luglio il governo tedesco aveva commentato la notizia sostenendo che l'uomo non aveva avuto accesso a informazioni sensibili. Il sospetto, contro cui la polizia tedesca aveva adottato «misure» restrittive non meglio specificate nel dicembre 2019, aveva iniziato a lavorare nell'Ufficio stampa federale nel 1999 e, secondo quanto rivelato dalla procura, «almeno dal 2010» aveva passato informazioni al Cairo. Aveva perfino tentato di reclutare (senza riuscirci) un'altra fonte tra il 2014 e il 2015. In cambio delle informazioni fornite, sperava di ricevere un trattamento preferenziale dalle autorità egiziane. In particolare, hanno spiegato gli inquirenti, sperava in una corsia preferenziale per far sì che la madre potesse ottenere la pensione in Egitto. La procura ha evidenziato anche che il sospetto veniva talvolta invitato a ricevimenti ufficiali: per esempio in occasione della cerimonia di addio dell'ambasciatore egiziano in Germania lo scorso anno. Presso il Bundespresseamt si occupava delle visite e dell'accoglienza dei visitatori: secondo i media tedeschi avrebbe cercato di sfruttare quella posizione per monitorare in particolare i giornalisti egiziani. «L'imputato voleva aiutare i servizi segreti egiziani inviandogli le sue osservazioni su come i media affrontavano le politiche interne ed estere relative all'Egitto, nonché la situazione generale delle notizie», ha spiegato l'ufficio del procuratore. Ma è possibile anche che i suoi obiettivi fossero gli oppositori (tra cui i giornalisti) del regime egiziano del presidente Abdel Fattah Al Sissi. In particolare, i sostenitori della Fratellanza musulmana, organizzazione bandita in Egitto dal 2013. Nell'ampio rapporto annuale sulle potenziali minacce alla democrazia redatto dall'intelligence nazionale tedesca e pubblicato a luglio si trovano riferimenti alle attività del Servizio di intelligence egiziano (Gis) ma anche dell'Agenzia per la sicurezza nazione egiziana (Nss), cioè i servizi segreti interni. «Ci sono segnali che i servizi egiziani stiano cercando di reclutare egiziani che vivono in Germania per scopi di intelligence attraverso le loro visite alle missioni diplomatiche egiziane in Germania e i loro viaggi in Egitto», afferma il rapporto. Gli egiziani che vivono in Germania «potrebbero diventare il focus» dei loro sforzi su suolo tedesco, si legge ancora. Questa spy story potrebbe inserirsi in un contesto geopolitico ben più ampio. Basti pensare che la Fratellanza musulmana, sostenuta dalla Turchia (per lo più militarmente) e dal Qatar (economicamente), è molto attiva in Libia al fianco del governo tripolino di Fayez Al Serraj. Cioè l'esecutivo di accordo nazionale contro cui nell'aprile 2019 lanciò un'offensiva il maresciallo Khalifa Haftar, alle cui spalle troviamo la Russia, gli Emirati Arabi Uniti ma soprattutto l'Egitto di Al Sissi. Non va poi dimenticato il potere di ricatto che Erdogan (che proprio oggi visiterà Tripoli) ha da sempre sull'Europa, in particolare sulla Germania: cioè quello di aprire e chiudere a piacere il «rubinetto dei migranti» sulla rotta balcanica. E se a questo si sommano le recenti tensioni tra la Francia di Emmanuel Macron e la Turchia di Recep Tayyip Erdogan sull'islam (con Parigi che spera di buttare Ankara fuori dalla Nato), ecco spiegato come mai la Germania, con la sua politica estera spesso da equilibrista, è crocevia delle spie. Anche egiziane.