A un anno da Vaja, il tornado che si è abbattuto su Veneto, Trentino e Friuli, si scopre che non sappiamo sfruttare i nostri alberi. Rinunciando ogni anno ad almeno 800 milioni di euro. A beneficio di austriaci e cinesi.Come buttare via oltre due miliardi di euro per sentirsi politicamente corretti ed ecologicamente in pace anche se presi in giro. Non si fa che parlare di cambiamento climatico, di plastica, di emergenza foreste. E come al solito la sostanza è molto diversa dalla forma perché, se un'emergenza alberi c'è, è semmai in Brasile dove la coltivazione della soia (sì, quella che serve anche per soddisfare i vegani così ecologicamente ed eticamente corretti) si sta mangiando la foresta amazonica al ritmo di 1,5 milioni di ettari all'anno. E c'è un altro antagonista degli alberi nel mondo: l'olio di palma. In Indonesia in un quarto di secolo hanno fatto fuori 24 milioni di ettari di foresta pluviale. In questo caso l'olio di palma (o meglio quello di palmisto, cioè derivato dalla spremitura dei semi e non delle drupe) ha un mercato per la produzione di biodiesel. Ma noi in Italia abbiamo la legislazione forestale più rigida (e incasinata) del mondo agevolata anche dall'ennesima contraddizione europea.Volete saperne una? Da quando l'Europa ha cominciato a mettere al bando il gasolio l'importazione di olio di palma per autotrazione è passata da 825.000 tonnellate del 2008 a 3,9 milioni di tonnellate e l'Italia è il secondo produttore europeo di biodiesel da olio di palma: ne abbiamo raffinate 860.000 tonnellate, salvo poi lanciare campagne contro l'olio di palma alimentare. È un caso di evidente schizofrenia informativa. «Purtroppo è così», dice il professor Raffaele Cavalli, direttore del dipartimento di Scienze forestali dell'Università di Padova. «Siamo vittime di luoghi comuni che impediscono una corretta gestione della risorsa e un proficuo sfruttamento; si potrebbe, e a mio modo di vedere si dovrebbe, tagliare più alberi». In Europa le foreste in un secolo sono quasi raddoppiate, in Italia sono aumentate del 140 per cento. Il primo motivo è l'abbandono delle zone agricole di montagna: coltivare il bosco significherebbe ridare economia alla montagna e fare bene all'ambiente. Raffale Cavalli fa una notazione semplice semplice: l'Italia è il secondo esportatore mondiale di legno trasformato, ma è fortemente dipende dall'estero. Vale per tutta l'Europa che si è data da fare con un regolamento, l'Eutr, per cercare di regolare le importazioni di legname, ma per ora - a cinque anni dall'effettiva entrata in vigore - pochi risultati. Le cifre sono importanti: in Europa entra legname per circa 30 miliardi di euro, noi ne compriamo per qualcosa più di 3 miliardi, con un aumento di un terzo negli ultimi tre anni, ma il 30% di questo legname è illegale. «Servirebbe», rincara Cavalli, «una svolta epocale nella politica forestale del Paese, ma neppure eventi eccezionali come la Vaja hanno fatto cadere il luogocomunismo sulle foreste». Ne parliamo salendo da Asiago verso Vezzena: qui poco meno di un anno fa un tifone di forza e proporzioni mai registrati ha spazzato via tra Veneto, Trentino e Friuli oltre 10 milioni di alberi, per lo più abeti rossi, ma anche faggi, abeti cembri, abeti bianchi, larici. Il paesaggio pare uno sconfinato ossario: ora gli alberi ingrigiti hanno perduto gli aghi e sono scheletri ammassati gli uni sugli altri, sparpagliati come bastoncini di uno shanghai del Creato. «Dice il professor Cavalli che è anche commissario all'emergenza Vaja per la Regione Veneto: «Ora abbiamo un problema: smaltire tutto questo legname, parliamo di 700.000 metri cubi, e farlo in fretta perché gli alberi non possono stare a terra, rischiamo di far attaccare quelli sani da un parassita che distrugge gli abeti e che prolifera nelle “carcasse" degli alberi. Poi abbiamo il problema delle ceppaie - sono le radici degli alberi - che sono un vero pericolo: si tratta di masse di alcuni quintali che possono staccarsi e venire giù a valle. Noi qui in Veneto stiamo per sperimentare una tecnica mai usata prima: farle saltare con delle microcariche di esplosivo e a farlo sarà Daniele Coppo, colui il quale ha demolito il Ponte Morandi a Genova. Infine abbiamo il problema del che fare. Perché non è detto che si debba ripiantare tutto e ovunque: va coltivata una fascia di protezione per le valanghe e gli smottamenti. Al resto penserà il bosco. È una faccenda complessa che richiede un'attenta politica forestale lontana però dai luoghi comuni e dai veti. Il bosco è una risorsa economica inventata dall'uomo: un conto sono le foreste vergini, un conto sono i boschi. Qui sull'altopiano di Asiago i boschi erano coltivati dalla Repubblica di Venezia e qui vivevano i boscaioli e quei pastori che avevano 300.000 pecore da lana che hanno fatto nascere le industrie come la Lanerossi o la Marzotto. E anche il distretto degli occhiali di Agordo dipendeva da questa capacità di usare bene il legname. Ora di tutto questo non c'è più traccia, se lasciamo il bosco abbandonato a sé stesso s'inselvatichisce e perdiamo paesaggio, rendiamo più insicura la montagna, perdiamo reddito e aumentano i problemi».A sentire Cavalli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare! «La colpa è di noi forestali: noi siamo sempre imboscati e quasi mai presentiamo la realtà per quello che è. Ci voleva la Vaja per farla emergere anche se tutti si sono occupati della devastazione e pochissimi della soluzione. Che peraltro è complicata dalla politica: Trentino e Friuli Venezia Giulia sono Regioni autonome, il Veneto no e per questo motivo non riusciamo a fare interventi coordinati. Come del resto è responsabilità della politica non aver mai presentato il bosco come luogo di produzione e di allocazione di una civiltà profonda, di sapienze e competenze antiche». E allora proviamo a sfatarli questi luoghi comuni. Solo per il Veneto, Vaja ha rappresentato l'abbattimento di 3 milioni di alberi, circa l'8% del patrimonio forestale. «Per portarli a valle ci vorranno 35 mila camion e dobbiamo farlo tutto entro tre anni: qui lavorano ditte austriache, serbe, slovene, loro hanno le macchine e i soldi per gestire questa massa di legname». Che è diventata appetibile anche per la finanza. Un fondo d'investimento delle principali banche italiane l'F2i è venuto qui a fare il trading e ha svegliato il settore. «Sono venuti a comprare anche i cinesi che sono il primo trasformatore al mondo. Loro si riforniscono di solito in Nuova Zelanda, ma hanno capito che si potevano prendere questi tronchi e metterli nei container che di solito tornano in Cina vuoti». L'arrivo dei cinesi ha fatto alzare i prezzi. Di solito l'abete rosso si vende tra i 65 e i 95 euro al metro cubo, gli alberi abbattuti da Vaja si vendono attorno ai 35 ma a parere di Cavalli è un buon prezzo: «Quello che manca è la capacità italiana di fare filiera, perché un malinteso senso del bosco non ci consente di sviluppare questa economia che sarebbe importantissima soprattutto per la montagna». I più attrezzati sono gli austriaci: «Loro», spiega il professore, «hanno segherie capaci di lavorare fino a un milione e mezzo di metri cubi di legno, le nostre più grosse arrivano a malapena a 100.000, ne abbiamo solo una in Val di Fiemme da 400.000. Sull'altopiano ne sono rimaste due che hanno una capacità di 70.000 metri cubi e questo dà il senso della debolezza di sistema. Poi c'è il problema non secondario delle strade: Austria, Svizzera, Germania e Francia hanno all'incirca 40 metri di strada per ogni ettaro di bosco il che consente una movimentazione veloce ed economica del legname, noi non arriviamo a 20. In più l'Austria, che preleva circa il 75% dell'accrescimento annuale dei suoi boschi, e gli altri paesi del Nord hanno un sistema integrato di attività forestale, turismo e caccia -così risolvono anche il problema degli ungulati - che dà forte reddito agricolo e hanno meno problemi di spopolamento delle montagne».Vaja dunque, a parere degli esperti, da calamità poteva diventare un'opportunità. Con gli alberi caduti si può fare ceppato, si possono far tavole da edilizia, si può fare carta, imballaggi totalmente naturali, infine si può fare bioenergia, ma bisogna crederci. Invece finirà che la risorsa la sfrutteranno gli altri e a noi resterà il disastro. «Qui abbiamo dovuto chiamare operatori dall'estero perché loro hanno le macchine che consentono di lavorare i tronchi sul posto», nota Cavalli. «Sono macchine da 400.000 euro l'una che lavorano senza sosta, ma loro si portano a casa una ricchezza. È con questa tecnica che stanno per esempio penetrando in Carnia, dove gli austriaci stanno comprando interi boschi. Sfruttare bene la risorsa bosco significa restituire servizi alle comunità e aver i soldi per davvero preservare l'ambiente». Le cifre da questo punto di vista sono impietose. Anni fa la fondazione Garrone aveva stimato che l'Italia rinuncia ogni anno a circa 800 milioni di euro perché non ha una vera capacità di sfruttamento della risorsa forestale. «A mio modo di vedere», sostiene il professor Raffaele Cavalli, «il fenomeno vale di più. In Italia la superficie forestale è pari a 11,1 milioni di ettari; la superficie forestale produttiva è pari a 9,3 milioni di ettari. Vuol dire che qualcosa meno di un terzo di tutta l'Italia è coperta da boschi che contengono 1.285.998.000 di metri cubi di legno e si accrescono di 32.530.000 metri cubi di legno ogni anno. Di questi noi ne pigliamo appena 12,9 milioni di metri cubi e però importiamo ogni anno 3,4 milioni di metri cubi di legname. Questo materiale viene trasformato in prodotti lavorati - segati, pannelli, cippato - per un totale di 11,6 milioni di metri cubi; ogni anno si importano prodotti lavorati dello stesso tipo per un totale di 8,2 milioni di metri cubi, di cui la metà segati di conifera. Si può facilmente dedurre che aumentando la percentuale di prelievo dell'incremento di foreste e boschi spingendosi ai livelli medi europei, 60-70%, si potrebbe ampiamente far fronte alle importazioni di legname, con esclusione di quelle di legname tropicale, che vale circa 21.000 metri cubi». Siamo alle solite: potremmo essere un Paese autosufficiente per l'agroforestale, ma invece siamo il terzo importatore in Europa e ci vogliono far essere dipendenti. Magari è l'Europa che ce lo chiede. Chissà. (7. Continua)
Roberto Crepaldi
La toga progressista: «Voterò no, ma sono in disaccordo con il Comitato e i suoi slogan. Separare le carriere non mi scandalizza. Il rischio sono i pubblici ministeri fuori controllo. Serviva un Csm diviso in due sezioni».
È un giudice, lo anticipiamo ai lettori, contrario alla riforma della giustizia approvata definitivamente dal Parlamento e voluta dal governo, ma lo è per motivi diametralmente opposti rispetto ai numerosi pm che in questo periodo stanno gridando al golpe. Roberto Crepaldi ritiene, infatti, che l’unico rischio della legge sia quello di dare troppo potere ai pubblici ministeri.
Magistrato dal 2014 (è nato nel 1985), è giudice per le indagini preliminari a Milano dal 2019. Professore a contratto all’Università degli studi di Milano e docente in numerosi master, è stato componente della Giunta di Milano dell’Associazione nazionale magistrati dal 2023 al 2025, dove è stato eletto come indipendente nella lista delle toghe progressiste di Area.
Antonella Sberna (Totaleu)
Lo ha dichiarato la vicepresidente del Parlamento Ue Antonella Sberna, in un'intervista a margine dell'evento «Facing the Talent Gap, creating the conditions for every talent to shine», in occasione della Gender Equality Week svoltasi al Parlamento europeo di Bruxelles.
Ansa
Mirko Mussetti («Limes»): «Trump ha smosso le acque, ma lo status quo conviene a tutti».
Le parole del presidente statunitense su un possibile intervento militare in Nigeria in difesa dei cristiani perseguitati, convertiti a forza, rapiti e uccisi dai gruppi fondamentalisti islamici che agiscono nel Paese africano hanno riportato l’attenzione del mondo su un problema spesso dimenticato. Le persecuzioni dei cristiani In Nigeria e negli Stati del Sahel vanno avanti ormai da molti anni e, stando ai dati raccolti dall’Associazione Open Doors, tra ottobre 2023 e settembre 2024 sono stati uccisi 3.300 cristiani nelle province settentrionali e centrali nigeriane a causa della loro fede. Tra il 2011 e il 2021 ben 41.152 cristiani hanno perso la vita per motivi legati alla fede, in Africa centrale un cristiano ha una probabilità 6,5 volte maggiore di essere ucciso e 5,1 volte maggiore di essere rapito rispetto a un musulmano.






