
Dalla cocciniglia seccata e polverizzata si ricava l’ingrediente di origine araba usato fin dal Medioevo e oggi nelle cucine stellate e in pasticceria come colorante e aromatizzante. A Prato veniva inizialmente utilizzato per colorare i panni. Poi passò in macelleria.Entro il 2023 sapremo se l’Unione europea ci permetterà di mangiare l’ape da miele e la mosca soldato nera (in polvere). Fino ad ora nella lista alimentare dei nuovi cibi autorizzati dall’Ue - l’argomento è virale sui social - ci sono solo tre insetti: il grillo domestico, la tarma della farina (la càmola) e la locusta. L’argomento è duro da affrontare. C’è chi storce il naso e chi strepita allo schifo. È bene prima di dribblare il discorso tener presenti due cose. La prima: cresce la percentuale di italiani - oggi si aggira intorno al 30 per cento, soprattutto giovani - che si dichiara pronta a mangiare insetti perché salutari grazie alle proteine nobili; per il bene che fanno al pianeta per l’impatto ambientale praticamente nullo; per il basso costo e per la… bontà. Molti di coloro che viaggiano nei Paesi dove cavallette, cicale e formiche sono cibo quotidiano, giurano sul proprio palato che gli insetti sono appetitosi.Seconda cosa, e qui veniamo all’argomento di questo articolo, è da secoli, parecchi secoli, che noi italiani mangiamo e beviamo un insettino rosso seccato e polverizzato con il quale si fa un liquore, l’alchermes, usato al bar, in gastronomia - anche nelle cucine stellate - e in pasticceria come colorante e aromatizzante. È una sorta di elisir dolce, sui 35 gradi, che viene usato per preparare aperitivi, cocktail, biscotti, dolci, piatti e salumi.L’alchermes è uno dei più antichi liquori italiani. Alcuni studiosi lo fanno risalire al Medioevo riscontrando somiglianze con l’«elisir di lunga vita», infuso alcolico che si produceva nel 13° secolo nel monastero fiorentino di Santa Maria dei Servi. Due secoli dopo troviamo l’alchermes tra i mortai e gli alambicchi dei frati domenicani di Santa Maria Novella. Il liquore rosso decolla grazie ai Medici, i signori della città, che lo apprezzano molto. Acquista fama a Roma dove sul trono di San Pietro s’insediano nella prima metà del ’500 due papi della famiglia dei palleschi: Leone X, figlio di Lorenzo de’ Medici, e Clemente VII, nipote del Magnifico. Entrambi non considerano finito il pasto senza un bicchierino dell’elisir che allunga la vita. Un’altra de’ Medici, Caterina, andando sposa nel 1533 a Enrico II re di Francia, portò con sé cuochi, pasticceri, cibi, dolci e usanze alle quali era abituata e che amava, compreso l’uso delle forchette sconosciute Oltralpe. Portò anche l’alchermes che in terra gallica prese il nome di «liquore dei Medici».Ma non fu Firenze la culla dello sciropposo liquore. Il nome rivela un’altra paternità. Deriva dall’arabo al-qirmiz che significa il verme cremisi. La rossa cocciniglia, appunto. Dagli Arabi alla Spagna conquistata agli inizi dell’8° secolo il passo è breve e dalla penisola Iberica all’Italia, col nome di alquermes, quasi altrettanto. Firenze rimane la patria di elezione del vero alchermes fatto con le cocciniglie che BuyFood Toscana, evento dedicato ogni anno ai prodotti d’eccellenza della regione, difende a spada tratta contro quello fatto con coloranti chimici. È nella città del giglio che viene finalmente redatta da fra’ Cosimo Bucelli, direttore dell’officina domenicana di Santa Maria Novella, nel 1743, la ricetta ufficiale del liquore. Duecentottant’anni dopo fra’ Bucelli, mezzo millennio dopo Lorenzo de’ Medici, l’alchermes viene ancora prodotto negli stessi antichi locali. L’Officina Profumo-Farmaceutica di Santa Maria Novella, così si chiama adesso la più antica farmacia d’Europa, fa ancora il liquore della cocciniglia come lo facevano un tempo i domenicani. Quali ingredienti ci sono nell’alchermes? Il Vocabolario dell’uso toscano compilato da Pietro Fanfani pubblicato nel 1863 recita: «Alchermes. T. farm. (Termine di farmacia). Liquore composto di alcool e giulebbe (equivale a sciroppo zuccherato); tinto con cocciniglia, e datogli odore aromatico per mezzo di droghe tenute in fusione nel detto alcool». Assai più preciso è Il libro della vera cucina fiorentina (1974) di Paolo Petroni, scrittore e storico, Indiana Jones di ricette antiche, presidente dell’Accademia italiana della cucina fondata 70 anni fa da Orio Vergani. Petroni puntualizza gli ingredienti e le quantità da usare per ognuno e insegna, prendendo per mano il lettore, come si prepara in casa il vero alchermes. Oltre all’indispensabile cocciniglia che dà il bel colore rosso, sono previsti alcol puro, zucchero, acqua di rose, cannella, coriandolo, macis (è il fiore della noce moscata), cardamomo, chiodi di garofano, scorza d’arancio dolce, fiori di anice stellato, vaniglia. Un vero giulebbe.Anche Fabio Goti, 63 anni, produce alchermes secondo i metodi secolari. È il titolare dell’Opificio Nunquam che si trova a Tavola nel Comune di Prato. L’impresa è famigliare. Oltre all’Alkermes di Firenze (nell’etichetta è scritto così, con la kappa), Goti ricrea altri liquori storici: il vino ippocratico con il dittamo di Creta e l’artemisia absinthium, il Vermut Bianco di Prato che risale a una ricetta del 1736 ed è quindi nato, proclama con orgoglio il liquorista pratese, 50 anni prima del Vermouth torinese di Carpano. «Per l’alchermes ci siamo rifatti alla ricetta tradizionale ritrovata da Paolo Petroni». La storia della cocciniglia a Prato inizia nel medioevo quando il rosso viene usato per colorare i panni. Continua Goti: «L’alchermes passa col tempo in macelleria dove si usa ancora nella preparazione della mortadella di Prato, un salume cotto. E passa in pasticceria dove colora le dolci pesche di Prato: pan di Spagna, strato di bagna con l’alchermes e crema pasticcera».Curiosamente anche a 200 chilometri a nord-est di Prato, a Villafranca di Verona, viene confezionata nelle pasticcerie locali una pesca con l’alchermes, ma molto più grossa di quella pratese: la «pescona di Santa Lucia», così chiamata perché ha la circonferenza di una boccia e viene fatta trovare in dono ai bambini il 13 dicembre, giorno della santa di Siracusa. Il rosso liquore sciropposo è ampiamente utilizzato dai pasticceri che preparano le bagne di pan di Spagna, ammollano i savoiardi, colorano creme, zuccheri e altri ingredienti per dolci. Come la zuppa inglese, che, nonostante il nome, è italianissima, nata proprio a Firenze grazie, così raccontano nella città di Dante, a una cuoca fiorentina a servizio di una famiglia inglese. La versione toscana è contestata da romagnoli ed emiliani che rivendicano, chi a Ferrara e chi a Parma, la nascita della zuppa. Nessuna contestazione per lo zuccotto, pure preparato con l’alchermes, la cui invenzione viene attribuita all’architetto fiorentino Bernardo Buontalenti che avrebbe preso come stampo l’elmo di un artigliere. Buontalenti, attivo presso la corte granducale dei Medici per la cui famiglia, secondo molti studiosi, avrebbe inventato anche il gelato. Altri dolci che s’imbevono di alchermes sono la rocciata che si fa in Umbria e nelle Marche con il riconoscimento di Prodotto agroalimentare tradizionale; i rossi zuccherini al paiolo del Mugello; la torta diplomatica, classico della pasticceria italiana; le raviole emiliane farcite di mostarda bolognese e spennellate d’alchermes.In passato, quando la medicina popolare era importante quanto e forse più di quella venduta dallo speziale, il liquore colorato con i gusci di cocciniglia veniva usato come farmaco. In Sicilia, dov’era chiamato archemisi, veniva utilizzato contro i «vermi da spavento» per sedare la forte agitazione dei bambini colti da incubi o da paure improvvise che, si temeva, potevano provocare la verminazione dell’intestino. Nato come elisir di lunga vita, l’alchermes ha mantenuto per secoli il crisma farmaceutico combattendo le nevralgie, le coliche renali, gli spasmi, la tosse.
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il governatore forzista della Calabria, in corsa per la rielezione: «I sondaggi mi sottostimano. Tridico sul reddito di dignità si è accorto di aver sbagliato i conti».
Marco Minniti (Ansa)
L’ex ministro: «Teniamo d’occhio la Cina su Taiwan. Roma deve rinsaldare i rapporti Usa-Europa e dialogare col Sud del mondo».
Attilio Fontana e Maurizio Belpietro
Nell’intervista con Maurizio Belpietro, il presidente della Lombardia avverte: «Non possiamo coprire 20 mila ettari di campi con pannelli solari. Dall’idroelettrico al geotermico fino ai piccoli reattori: la transizione va fatta con pragmatismo, non con imposizioni».
Nell’intervista con Maurizio Belpietro, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana affronta il tema dell’energia partendo dalle concessioni idroelettriche. «Abbiamo posto fin da subito una condizione: una quota di energia deve essere destinata ai territori. Chi ospita dighe e centrali subisce disturbi e vincoli, è giusto che in cambio riceva benefici. Per questo prevediamo che una parte della produzione venga consegnata agli enti pubblici, da utilizzare per case di riposo, scuole, edifici comunali. È un modo per restituire qualcosa alle comunità».
Investimenti e controlli sulle concessioni. Belpietro incalza: quali investimenti saranno richiesti ai gestori? Fontana risponde: «Non solo manutenzione ordinaria, ma anche efficientamento. Oggi è possibile aumentare la produzione del 10-15% con nuove tecnologie. Dobbiamo evitare che si ripeta quello che è successo con le autostrade: concessioni date senza controlli e manutenzioni non rispettate. Per l’idroelettrico serve invece una vigilanza serrata, con obblighi precisi e verifiche puntuali. La gestione è più territoriale e diretta, ed è più semplice accorgersi se qualcosa non funziona».
Microcentrali e ostacoli ambientali. Sulla possibilità di nuove centrali idroelettriche, anche di piccola scala, il governatore è scettico: «In Svizzera realizzano microcentrali grandi come un container, che garantiscono energia a interi paesi. In Italia, invece, ogni progetto incontra l’opposizione degli ambientalisti. Anche piccole opere, che non avrebbero impatto significativo, vengono bloccate con motivazioni paradossali. Mi è capitato di vedere un’azienda agricola che voleva sfruttare un torrente: le è stato negato il permesso perché avrebbe potuto alterare di pochi gradi la temperatura dell’acqua. Così diventa impossibile innovare».
Fotovoltaico: rischi per l’agricoltura. Il presidente spiega poi i limiti del fotovoltaico in Lombardia: «Noi dobbiamo produrre una quota di energia pulita, ma qui le ore di sole sono meno che al Sud. Per rispettare i target europei dovremmo coprire 20 mila ettari di territorio con pannelli solari: un rischio enorme per l’agricoltura. Già si diffonde la voce che convenga affittare i terreni per il fotovoltaico invece che coltivarli. Ma così perdiamo produzione agricola e mettiamo a rischio interi settori».
Fontana racconta anche un episodio recente: «In provincia di Varese è stata presentata una richiesta per coprire 150 ettari di terreno agricolo con pannelli. Eppure noi avevamo chiesto che fossero privilegiate aree marginali: a ridosso delle autostrade, terreni abbandonati, non le campagne. Un magistrato ha stabilito che tutte le aree sono idonee, e questo rischia di creare un problema ambientale e sociale enorme». Mix energetico e nuove soluzioni. Per Fontana, la chiave è il mix: «Abbiamo chiesto al Politecnico di Milano di studiare un modello che non si basi solo sul fotovoltaico. Bisogna integrare geotermico, biomasse, biocarburanti, cippato. Ci sono molte fonti alternative che possono contribuire alla produzione pulita. E dobbiamo avere il coraggio di investire anche in quello che in Italia è stato troppo a lungo trascurato: il geotermico».
Il governatore cita una testimonianza ricevuta da un docente universitario: «Negli Stati Uniti interi quartieri sono riscaldati col geotermico. In Italia, invece, non si sviluppa perché – mi è stato detto – ci sono altri interessi che lo frenano. Io credo che il geotermico sia una risorsa pulita e inesauribile. In Lombardia siamo pronti a promuoverne l’uso, se il governo nazionale ci darà spazio».
Il nodo nucleare. Fontana non nasconde la sua posizione favorevole: «Credo nel nuovo nucleare. Certo, servono anni e investimenti, ma la tecnologia è molto diversa da quella del passato. Le paure di Chernobyl e Fukushima non sono più attuali: i piccoli reattori modulari sono più sicuri e sostenibili. In Lombardia abbiamo già firmato con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica un accordo per sviluppare Dal confronto con Belpietro emerge un filo conduttore: Attilio Fontana chiede di mettere da parte l’ideologia e di affrontare la transizione energetica con pragmatismo. «Idroelettrico, fotovoltaico, geotermico, nucleare: non c’è una sola strada, serve un mix. Ma soprattutto servono regole chiare, benefici per i territori e scelte che non mettano a rischio la nostra agricoltura e la nostra economia. Solo così la transizione sarà sostenibile».
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Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Il panel dell’evento de La Verità, moderato dal vicedirettore Giuliano Zulin, ha affrontato il tema cruciale della finanza sostenibile con Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi.
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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