
Un po’ tutti siamo andati lì con la mente, ad accoppiare la decisione del giudice che a La Spezia ha consentito a una bambina di 13 anni di cambiare sesso e diventare maschio, accogliendo il ricorso dei genitori, e la decisione di due tribunali che hanno invece sospeso la potestà genitoriale alla cosiddetta famiglia nel bosco respingendo l’istanza di mamma e papà.
È un parallelismo fin troppo naturale in questi giorni che ci avvicinano al Natale, la festa più cara ai bambini perché è un bambino al centro della Storia. Per questo la maggioranza delle persone vorrebbe che quei tre bambini fossero riportati nella dimensione dei due genitori, i quali hanno scelto un modello di vita, un modello che - in queste settimane - abbiamo scoperto non essere così insolito e nemmeno così deleterio come invece ci sta facendo credere la «burocrazia». Mi aveva sorpreso per esempio il racconto di Carlo Ratti, direttore della Biennale di architettura di Venezia, la «firma» della torcia olimpica, il quale in una lettera al Corriere della Sera ha raccontato la sua vita nel bosco. Lui, figlio di un professore che, dopo aver conseguito il PhD negli Stati Uniti ed essere diventato uno dei più giovani professori presso il Politecnico di Torino, «decise di abbandonare la carriera accademica per tornare alla terra».
Siccome in questi ultimi giorni la narrazione si sta piegando sulle verbalizzazioni di chi si «sta prendendo cura» dei tre bambini rurali facendo diventare - indirettamente e senza volerlo, sia chiaro - i due genitori alla stregua di due settari fanatici impegnati a dis-educare i figli, mi permetto di insistere sulla testimonianza del direttore della Biennale di Venezia di «figlio nel bosco». «Le condizioni di vita erano ugualmente pre-industriali o, forse, pre-belliche. Niente riscaldamento centralizzato. Cucina prevalentemente a legna. Una vecchia vasca da bagno con un minuscolo boiler. Letto scaldato dalle braci, soprattutto nelle notti d’inverno quando i vetri della camera da letto si ricoprivano di ricami di ghiaccio. E soprattutto, nessuna televisione, ma solo una vecchia radio Grundig che gracchiava in continuazione. […] Sono convinto che quegli anni siano stati formativi. Non perché esenti da difficoltà, anzi…».
La famiglia del bosco di Palmoli è diventata un simbolo e forse proprio per questo va rieducata, va riportata nei ranghi e chissà quando la rieducazione sarà terminata. Ad oggi infatti i giudici non hanno disposto la revoca del provvedimento nonostante le decisioni di mamma Catherine e papà Nathan di rivedere alcune delle scelte radicali in materia di salute (specie sulle vaccinazioni obbligatorie) e di scuola. I giudici, in poche parole, stanno scegliendo le nuove linee guida su come devono crescere i figli, mettendo in fuorigioco le scelte dei genitori. I quali - lo ripeto - sono raffigurati come fanatici cultori di pratiche strane.
È un mood per nulla nuovo perché mi porta alla mente un periodo che abbiamo archiviato con eccessiva fretta nonostante le orribili compressioni di libertà e diritti, compressioni avallate anche in quel caso dai giudici. Mi riferisco al periodo del Covid e alla stagione delle vaccinazioni, soprattutto a carico di minori. Ci sono stati casi di genitori a cui i giudici hanno imposto di vaccinare i figli minorenni. Nei casi invece dove i pareri tra mamma e papà circa le vaccinazioni ai figli minorenni erano discordanti, i giudici sono sempre andati a favore di chi li voleva vaccinare, elidendo così il diritto dell’altro genitore di poter scegliere. In questi casi, poteva accadere che il figlio o la figlia fossero d’accordo nel non volersi vaccinare ma il giudice respingeva il ricorso del genitore contrario al siero (addirittura gli toglieva la potestà genitoriale: conosco diversi casi), negando l’ipotesi che il minore fosse pienamente consapevole del rifiuto. Oggi sappiamo che i timori di quei ragazzi ad alterare il sistema immunitario erano fondate. Ma la loro idea però era considerata una «suggestione» (magari influenzata dal racconto di chi aveva avuto reazioni avverse dopo la punturina oppure aveva letto della morte di Camilla Canepa) e quindi non poteva essere presa seriamente in considerazione: insomma gli adolescenti si dovevano vaccinare per poter andare a scuola o a fare sport o a stare assieme. «Cosa volete che ne sappiamo i ragazzini del loro corpo?», pontificavano medici, esperti e giuristi vari.
Già, e oggi ci ritroviamo con la decisione storica di un giudice che permette a una tredicenne di cambiare sesso: perché lo vuole lei, perché lo vogliono i genitori. E, come ha scritto ieri Maurizio Belpietro, perché lo vogliono le nuove tendenze. I bambini del bosco devono essere rieducati. Gli adolescenti non potevano opporsi al vaccino. Ma la tredicenne che si sente maschio «ha maturato una piena consapevolezza circa l’incongruenza tra il suo corpo e il vissuto d’identità», tanto da poter portare a termine «un progetto volto a ristabilire irreversibilmente uno stato di armonia tra soma e psiche nella percezione della propria appartenenza sessuale».
Attenti, questa sentenza sarà presto un battistrada pericoloso.





