2025-02-09
L’agonia dell’economia tedesca provoca più danni dei dazi americani
Olaf Scholz, cancelliere della Germania (Imagoeconomica)
In due anni bruciati quasi 6 miliardi di export verso la Germania: le sanzioni Usa possono comportare problemi, ma la vera sfida è far ripartire l’industria europea. Senza un cambio di paradigma niente ripresa.Non tutti i dazi vengono per nuocere. L’idea di Donald Trump è certo un messaggio che imporrà uno choc all’economia europea. Ma affrontare il tema solo da un punto di vista politico sembra proprio il modo sbagliato. A dirlo non siamo (solo) noi ma il principale banchiere italiano che nella conferenza stampa di presentazione dei conti di Intesa Sanpaolo è intervenuto in modo netto sul braccio di ferro in arrivo e sul ruolo internazionale del governo. Carlo Messina ha citato espressamente il presidente del Consiglio: «Il nostro Paese ha prospettive di crescita nel 2025 importanti perché può raddoppiare i numeri del 2024. Sono testimone che il premier Giorgia Meloni ha un prestigio unico tra gli investitori internazionali». Poi ha sottolineato: «Dobbiamo fare tutti la nostra parte per salvaguardare i nostri interessi nel contesto europeo. Contesto che mostra grandi fragilità». Secondo il banchiere è indispensabile che i risparmi generati in Europa vengano reinvestiti in Europa, e che i risparmi generati in Italia vengano reinvestiti in Italia. In altre parole, il primo tema è far girare l’economia e creare ricchezza. Poi affrontare gli equilibri internazionali con furbizia. Messina, infine, ha dedicato una battuta non certo secondaria alle mosse di Donald Trump: «Mettere dei dazi importanti porta a una rivalutazione del dollaro e una svalutazione dell’euro, potrebbe portare ad avere molti meno danni di quanto si immagina, ma addirittura anche benefici. Prima di dire se portano un danno o un elemento positivo, aspetterei». Il che riporta il piano di contenimento e gestione dei rapporti commerciali tra Stati uniti e Unione europea al livello monetario. La Bce che negli ultimi anni si è concentrata più sulla spinta politica alla transizione green che al tema specifico dell’inflazione, avrà un risveglio? Capirà che la Banca centrale è un’arma quando si tratta di dazi oppure continuerà sulla scia della scarsa indipendenza rispetto alla Commissione? Sono due domande di fondo che la politica nazionale dovrebbe porre sul tavolo di Bruxelles. Al momento le risposte sono vaghe e le ricette pericolosamente discordanti. Ma c’è un ulteriore tema che si somma al suggerimento di Messina ed è la situazione di deserto industriale in cui l’Ue si è cacciata. Ieri pomeriggio il centro studi della Cgia di Mestre ha diffuso il consueto report del sabato. E ha messo in fila una serie di numeri che spiegano in modo semplice come la crisi tedesca ci stia costando più della sberla che forse potrebbe arrivare da Trump. Il forse lo spieghiamo dopo. I numeri sono lineari. Nel 2023, il valore delle esportazioni verso il mercato tedesco è diminuito di 2,7 miliardi, mentre nei primi dieci mesi del 2024 la contrazione ha raggiunto i 3,1 miliardi. Cifra che in totale fa quasi 6 miliardi di euro. Tolto il 2020, anno della pandemia e della tranche di dazi targati Casa Bianca, l’export italiano verso gli Stati Uniti si è dimostrato in crescita, a partire dal 2010. Se 15 anni fa esportavamo per 20,3 miliardi di euro (pari al 6% dell’export nazionale), nel 2023 abbiamo toccato i 67,2 miliardi di euro (10,7% del totale). Stando ai calcoli dell’Ocse, spiega sempre il centro studi, l’introduzione di dazi al 10% sull’intera gamma dei prodotti e dei servizi importati dall’Unione europea provocherebbe una riduzione in termini economici delle esportazioni italiane verso gli Usa di circa 3,5 miliardi. E questo nel caso in cui immaginiamo che Trump agisca come una livella. Quindi con un intervento lineare a subire le maggiori ripercussioni sarebbero i settori della farmaceutica, delle auto e delle navi. Ma se giriamo la medaglia dall’altro lato e lasciamo che la politica possa intervenire nelle trattative, allora i dazi potrebbero essere un vantaggio. Le auto sarebbero un problema, ma fino a un certo punto. Perché il surplus del comparto favorisce soprattutto Germania e Francia. Non certo l’Italia. Riuscire invece a evitare dazi sui farmaci o su una serie di prodotti alimentari o comparti come la gioielleria vorrebbe dire che Italia e Usa manterrebbero i rubinetti aperti. Ma qui si apre una faglia. Pattinare su un modello bilaterale oppure insistere su quello multilatere come Ursula von der Leyen o Sergio Mattarella continuano a spiegarci? Nel primo caso si apre un nuovo mondo. Nel secondo si insiste con il vecchio che a oggi non ha portato alcun vantaggio economico. Non solo all’Italia ma a tutto il continente. Non possiamo continuare ad affrontare il tema dei dazi o delle relazioni internazionali senza capire che il Vecchio continente deve tornare a produrre. A fare industria. Quindi servono due pilastri su cui fare leva. Il primo è capire quale dominio tecnologico si vuole cavalcare e il secondo è fornire l’energia giusta alla nostra industria e al prezzo giusto. Cioè quello che rende gli imprenditori competitivi. La Germania ha sbagliato tutto fino a oggi. Angela Merkel era intoccabile e non si poteva criticare. Ma ha lasciato una lista lunghissima di problemi. Ha accettato in cambio di voti di lasciare a Erdogan il potere nel Mediterraneo. Ha aperto i confini importando lavoratori a basso costo con tanto di dumping salariale che a sua volta ha ridotto la produttività delle aziende. Perché investire in nuove tecnologie se si possono abbassare le buste paghe e ricorrere alla cassa integrazione? Ha monopolizzato i flussi di energia e il governo tedesco non ha capito che stava per scoppiare una guerra in Ucraina. Insomma, la lista è lunga e ormai pure inutile se non per evitare di ricorrere nei medesimi errori. Ecco, infatti bisognerebbe partire dall’esempio negativo della Germania per fare tutti l’opposto. Vedremo che poi sarà più facile affrontare anche le guerre commerciali.
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)