2021-03-25
«Affidarsi ai vaccini non basta. I pazienti vanno curati a domicilio»
Il candidato al Nobel chiede un protocollo per l'assistenza nelle case: «Ho seguito 270 casi e i ricoveri sono stati meno del 5%. Con clorochina, antiretrovirali ed eparina, dopo tre giorni i malati migliorano».Il personale medico e infermieristico italiano è tra i candidati del premio Nobel per la Pace 2021. Una candidatura avanzata dalla Fondazione Gorbachev che ha sede a Piacenza e il cui presidente onorario è l'ex presidente Urss, che ha ricevuto il premio nel 1990. Questa la motivazione, sostenuta da una petizione popolare e accettata formalmente dal Comitato norvegese: «Il personale sanitario italiano è stato il primo nel mondo occidentale a dover affrontare una gravissima emergenza sanitaria, nella quale ha ricorso ai possibili rimedi di medicina di guerra combattendo in trincea per salvare vite e spesso perdendo la loro». Testimonial dell'iniziativa è Luigi Cavanna, 68 anni, primario di oncoematologia all'ospedale di Piacenza, sostenitore della medicina del territorio in cui si è impegnato personalmente curando a domicilio i malati di Covid. La rivista americana Time lo scorso anno gli dedicò la copertina nella sezione «Heroes of the front lines», gli eroi in prima linea. Figura simbolo dell'etica professionale, dell'impegno e della dedizione di medici e infermieri, Cavanna potrebbe ricevere a dicembre, assieme ai suoi colleghi, il Nobel che lo scorso anno fu assegnato al World food programme delle Nazioni Unite per la lotta alla fame e la promozione della pace in aree di conflitto.Dottor Cavanna, un riconoscimento del lavoro svolto in prima linea?«La candidatura mi ha fatto piacere perché non solo premia gli sforzi e l'abnegazione dell'intero corpo sanitario, dai barellieri agli amministrativi, ma anche le risposte che hanno saputo dare in un momento così drammatico, quando l'onda del virus poteva davvero travolgere tutto il Paese. Non eravamo proprio organizzati ad affrontare la pandemia».Con un piano antinfluenzale fermo al 2006, c'era poco da stare allegri.«Senza aggiornamenti a quel piano, ben poco è stato fatto per prevenire e controllare il virus che ha potuto circolare indisturbato per settimane. Complice buona parte della stampa e con il contributo di molti miei colleghi, si è pensato a ridimensionare il pericolo parlando di “semplice raffreddore". Invece era, è un dramma».«Meno cure in ospedale e più cure a casa», dichiarò lo scorso anno, quando definì il Pronto soccorso di Piacenza «l'anticamera dell'inferno». Che cosa decise di fare?«Non si può dare una risposta esclusivamente ospedaliera a una malattia estremamente contagiosa come il Covid. Il rischio è di essere sommersi dai malati: sta accadendo questo, da un anno, nella gran parte dei reparti. Una patologia che si manifesta con la febbre, procede con la tosse, poi a mancare un po' è il fiato, ha bisogno di cure precoci a domicilio. Fu quello che iniziai a fare a Piacenza, assieme ad altri medici, secondo le indicazioni della nostra Azienda sanitaria» Portando quali farmaci ai pazienti?«Idrossiclorochina, che adesso non si può nemmeno nominare, mentre a marzo dello scorso anno figurava nel Vademecum per la cura delle persone con malattia da Covid-19 della Simit, la Società italiana di malattie infettive e tropicali. Nella nostra terapia c'erano anche il Rezolsta, che è un antiretrovirale, antibiotici da somministrare alle persone più fragili, eparina sotto cute e ossigeno per chi aveva saturazione inferiore al 93% e faceva fatica a respirare. Se serviva, ma solo successivamente ai primi sintomi, anche cortisone».Funzionava questo schema di terapia domiciliare?«Ho seguito personalmente circa 270 casi e i ricoveri sono stati inferiori al 5%. Dopo tre, quattro giorni i pazienti stavano meglio, c'è un esercito di testimoniante in tutto il territorio. I malati di coronavirus in realtà non volevano andare in ospedale, avevano la percezione - era la verità - che il ricovero equivaleva a perdere i contatti fisici con i parenti. E che avrebbero rischiato di non tornare più a casa, se la prognosi era infausta. Purtroppo dal 27 maggio non posso più prescrivere idrossiclorochina, l'uso è consentito solo nell'ambito di studi».Perché l'Aifa continua a non raccomandarla?«Perché si basa su studi forse non fatti eccessivamente bene. Come metodo di lavoro, doveva promuovere uno studio randomizzato sul territorio e in parallelo uno studio retrospettivo, analizzando l'esito che ha avuto questo farmaco su migliaia di pazienti che sono stati curati durante la prima ondata con idrossiclorochina. Meglio utilizzarla entro i primi tre giorni, risulta molto più efficace. L'Aifa è ancora in tempo per muoversi in questa direzione».Come mai siamo ancora senza un protocollo delle cure domiciliari?«La gestione dell'emergenza Covid è stata fatta prevalentemente da colleghi che lavorano in ospedale. Il premier Draghi ha detto che la casa deve diventare il principale luogo di cura: può dirlo anche il Papa, ma se continuiamo a comportarci in modo diverso purtroppo nulla cambia. Non ci vuole molto a redigere un protocollo, anche partendo dalle esperienze fatte sul territorio».Che cosa pensa della gestione degli anticorpi monoclonali?«Potevano essere introdotti mesi fa. Credo che l'Aifa risenta anche dell'atteggiamento dell'Oms che ha non proprio aiutato lo sviluppo di cure del Covid. Sono più i farmaci che tende a mettere in forse e a togliere, rispetto a quelli che promuove». È giusto puntare tutto sui vaccini?«Sono necessari ma non sufficienti. Ci vorranno anni, prima di essere tutti immunizzati. Bisogna mettere in parallelo lo sviluppo delle cure, che più saranno precoci meglio funzioneranno».
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