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2025-05-09
Bollano Afd, ma da Londra a Berlino il mantra è «respingere i migranti»
Alice Weidel (Ansa)
Si sono versati fiumi di inchiostro sui tedeschi di Afd, i nuovi mostri della politica europea che vengono giudicati alla stregua di pericolosi fanatici, spargitori di odio e fautori delle peggiori discriminazioni, motivo per cui numerose anime belle ne gradirebbero la messa al bando. Se però si scava appena sotto la friabile superficie delle dichiarazioni a mezzo stampa, si scopre che - dopo tutto - le politiche dei presunti buoni e giusti d’Europa riguardo l’immigrazione non sono poi tanto diverse, anzi. Più o meno ovunque si invocano controlli stringenti, norme severe e chiusura dei confini.
Cominciamo dalla Germania guidata dal traballante cancelliere Friedrich Merz, il quale dovrebbe appunto rappresentare l’alternativa democratica e presentabile ai cattivoni di Afd. Il nuovo ministro degli Interni, Alexander Dobrindt, ha appena dichiarato che saranno aumentati i controlli alle frontiere e saranno respinti anche numerosi richiedenti asilo. Verranno fatte eccezioni solo per i «gruppi vulnerabili», tra cui donne incinte e bambini. «Non chiuderemo le frontiere, ma le controlleremo più severamente e questo controllo più rigoroso delle frontiere porterà anche a un numero maggiore di respingimenti», ha detto il ministro. «Aumenteremo gradualmente il numero di respingimenti e i controlli più rigorosi alle frontiere. Faremo in modo che, gradualmente, più forze di polizia siano schierate alle frontiere e possano anche effettuare questi respingimenti».
Il suo capo Merz non è stato da meno. Recandosi in visita in Polonia dal turboeuropeista Donald Tusk, il cancelliere fresco di nomina ha sostenuto la necessità di una stretta sugli ingressi. «Se noi, tutti insieme nell’Unione europea, diamo il segnale a coloro che si dirigono verso l’Europa senza valide opportunità di ingresso, se diamo questo segnale soprattutto ai trafficanti, che queste rotte diventeranno molto più difficili e che le chiuderemo, allora è un segnale comune e positivo», ha detto Merz.
Niente male per uno che dovrebbe marcare una abissale distanza rispetto a Afd. Il bello è che queste uscite hanno indispettito non poco il simpatico Tusk, il quale - aperto, democratico ed europeista qual è - a sua volta non gradisce per niente farsi carico degli stranieri. Immaginando che le restrizioni tedesche ai confini possano impattare pesantemente sulla Polonia, Tusk è stato chiaro: «Non si può dare l’impressione che qualcuno, Germania compresa, voglia inviare gruppi di migranti in Polonia», ha detto nella conferenza stampa congiunta con l’omologo germanico. «La Polonia non lo accetterà. Se qualcuno introduce un controllo alla frontiera polacca, la Polonia farà altrettanto: non ha senso. Dobbiamo aiutarci a vicenda per proteggere il territorio dell’Ue dall’immigrazione illegale. Mi aspetto che il nuovo governo tedesco collabori pienamente con noi per proteggere le frontiere esterne dell’Ue. La cosa peggiore sarebbe se tutti i Paesi dell’Ue iniziassero a introdurre controlli alle loro frontiere».
Tutto fantastico: accusano i pericolosi identitari di Afd di essere razzisti e intolleranti, ma sono i primi a non volere gli immigrati. E sono in buona compagnia. I due compagni di giochi di Merz, gli amichetti con cui egli progetta il riarmo europeo, ovvero Emmanuel Macron e Keir Starmer, non sono certo dei fan dell’invasione straniera, anzi. Nonostante le belle parole spese anche in tempi recenti e la spocchia con cui da sempre guardano alle destre, questi due leader zoppicanti non da oggi si impegnano non poco per blindare le frontiere. Che Macron abbia chiuso a doppia mandata quelle con l’Italia e approvi i piani Ue per fermare i flussi è noto.
Ancora freschissimo, invece, è il piano del britannico Starmer per restare padrone a casa sua. La settimana prossima il primo ministro inglese presenterà il Libro Bianco sull’immigrazione il quale, tra le altre cose, fissa gli standard per l’accoglienza. Che non sono esattamente semplicissimi da soddisfare. Ad esempio è richiesta agli stranieri una ottima conoscenza della lingua. Come anticipa il Telegraph, «l’attuale standard richiesto per i richiedenti un visto di lavoro è equivalente al livello Gcse e richiede ai nuovi arrivati solo una conoscenza base dell’inglese nelle situazioni quotidiane. I ministri lo ritengono insufficiente per un’integrazione efficace dei migranti e verrà elevato all’equivalente dell’inglese come lingua straniera di livello A. Questo richiede alle persone di esprimersi fluentemente e spontaneamente, senza troppa ricerca di parole e di parlare inglese in modo flessibile ed efficace per scopi sociali, accademici e professionali». Se dovessimo applicare lo stesso metodo in Italia, con tutta probabilità la grandissima parte degli stranieri sarebbe esclusa. E non è tutto.
Sempre il Telegraph spiega che «i migranti potrebbero anche dover attendere un decennio per ottenere un permesso di soggiorno a tempo indeterminato nel Regno Unito, a meno che non superino i più severi test di inglese. Sarà inoltre più difficile per i migranti ottenere un permesso di soggiorno a tempo indeterminato se ci sono dubbi sulla loro situazione finanziaria o se hanno trascorso troppo tempo fuori dal Regno Unito dal momento del loro arrivo». Anche qui, quanto a severità, siamo a un livello piuttosto alto. Le nostre forze di sinistra chiedono la riduzione drastica dei tempi di attesa per la cittadinanza e puntano ad allargare il più possibile le maglie dell’accoglienza, i laburisti invece fissano paletti economici, culturali, linguistici e di permanenza sul territorio, e puntano esplicitamente (è nel loro programma) a ridurre le presenze nette di stranieri, che attualmente si attestano intorno alle 728.000 unità.
Ecco dunque la ipocrisia palese: i partiti di destra vengono accusato di disumanità e crudeltà, anche se chiedono cose non molto diverse da quelle previste dalle politiche di liberali e progressisti europei. In pratica si tratta del modello Biden: anche l’ex presidente americano espelleva in manette gli stranieri, e con cifre record, ma lo faceva in silenzio, quasi di nascosto. Dunque, a differenza del suo successore Donald Trump, non veniva attaccato. Il giochino di Merz, Starmer e soci è analogo: disprezzano e censurano le destre. Ma vorrebbero agire allo stesso modo se non peggio, però senza dirlo, senza intaccare lo smalto di bontà che si sono dati da soli.
Ancora giudici contro le espulsioni
Il sindaco dem di Bologna Matteo Lepore, uno che finora sembrava preoccuparsi più degli aperitivi in centro che della sicurezza delle periferie, dev’essersi svegliato all’improvviso con un incubo: la sicurezza. L’altro giorno ha ribaltato la frittata e ha chiesto persino a Lega e Fratelli d’Italia di «farsi un serio esame di coscienza» sulle espulsioni. Il sindaco sostiene che Bologna affronta problemi degni di una metropoli, tra criminalità, spaccio e violenza. Vuole rinforzi negli organici, chiede più agenti, invoca sicurezza.
Ma il punto non è questo. Il punto è l’eterno cortocircuito delle espulsioni mancate, ricorsi giudiziari e decisioni ribaltate in extremis. Basta prendere gli ultimi casi. Rachid Karroua, operaio marocchino residente nel Bresciano. Arrestato a metà marzo per terrorismo: «Si autoaddestra», sostenevano i pm di Perugia che l’avevano arrestato (e che poi hanno trasmesso gli atti per competenza territoriale ai colleghi di Brescia). Chat Whatsapp che inneggiavano alla jihad, navigazioni web sospette, tracce digitali di estremismo islamico. Sembrava un caso blindato. E invece no. Il Tribunale del Riesame di Brescia smonta tutto: «Nessuna radicalizzazione ideologica». E «nessun percorso di autoaddestramento dimostrabile». Solo qualche chat e qualche navigazione, roba archiviata in fretta, poco più di una curiosità malsana. E via, libero.
Ma non finisce qui. Spostandosi a Macerata c’è un altro caso emblematico. Stavolta tocca a Ibii Ngwang, camerunense, ex calciatore della Cluentina. Finisce al centro di una polemica incendiaria per un video davanti alla Questura. Occhiali scuri, cappellino tirato giù, insulti gratuiti alla premier Giorgia Meloni, con tanto di allusioni sgradevoli sulla figlia, e al vicepremier Matteo Salvini. Salvini diffonde il video sui social, l’indignazione pubblica è immediata. La reazione dello Stato anche: la Digos lo rintraccia, la denuncia parte, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi firma l’espulsione immediata. Sembrava fatta. E invece no, ancora una volta. Il giudice Alessandra Filoni della Corte d’Appello di Ancona blocca tutto. «Non c’è pericolosità sociale», dice, accogliendo il ricorso degli avvocati di Ngwang. Quell’espulsione lampo diventa così un dietrofront. Ngwang si scusa, si giustifica dicendo di aver citato «un brano rap per rovesciare stereotipi». Una bravata, una serata finita male con gli amici. Sbagliato, sì, offensivo, certamente. Ma pericoloso no, almeno secondo i giudici.
E non è finita. Mercoledì un senegalese di 38 anni senza fissa dimora ha dato di matto a Lodi. Era destinatario di un provvedimento di espulsione emesso a gennaio, ma per un ricorso è rimasto a circolare in Italia. Ha scatenato il panico tra medici e pazienti del Pronto soccorso dell’ospedale Maggiore della città lombarda, distruggendo un monitor, insultando i carabinieri e minacciandoli di morte. I carabinieri lo avevano appena avvicinato fuori dall’ospedale mentre urlava contro un cittadino italiano, accusandolo di avergli rubato il portafogli. Poi il delirio in corsia, l’arresto, il portafogli ritrovato, gli insulti al giudice e infine il malore in aula. In attesa di perizia psichiatrica, è finito in carcere.
Eccolo il cortocircuito delle espulsioni che manda in tilt i piani del governo. Ecco perché Lepore, che forse preferiva occuparsi di eventi e piste ciclabili, ora è costretto a puntare il dito verso Roma. Lui chiede rinforzi, ma il caos giuridico e burocratico gli risponde con sentenze che cancellano in pochi istanti ogni certezza di sicurezza, trasformando decreti ministeriali in fogli inutili. A prevalere, insomma, sono ancora una volta sempre e soltanto i giudici.
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Le solite anime belle accusano il partito tedesco di odio e discriminazione nei confronti dei «poveri» stranieri. Peccato che lo stesso Friederich Merz e i suoi amici europei siano i primi a promuovere linee assai dure sull’accoglienza.intanto, in Italia, nonostante l’ordine di Matteo Piantedosi, l’uomo che insultò Giorgia Meloni e Matteo Salvini può rimanere qui: «Non è pericoloso». Così le toghe trasformano decreti ministeriali in fogli inutili.Lo speciale contiene due articoli Si sono versati fiumi di inchiostro sui tedeschi di Afd, i nuovi mostri della politica europea che vengono giudicati alla stregua di pericolosi fanatici, spargitori di odio e fautori delle peggiori discriminazioni, motivo per cui numerose anime belle ne gradirebbero la messa al bando. Se però si scava appena sotto la friabile superficie delle dichiarazioni a mezzo stampa, si scopre che - dopo tutto - le politiche dei presunti buoni e giusti d’Europa riguardo l’immigrazione non sono poi tanto diverse, anzi. Più o meno ovunque si invocano controlli stringenti, norme severe e chiusura dei confini. Cominciamo dalla Germania guidata dal traballante cancelliere Friedrich Merz, il quale dovrebbe appunto rappresentare l’alternativa democratica e presentabile ai cattivoni di Afd. Il nuovo ministro degli Interni, Alexander Dobrindt, ha appena dichiarato che saranno aumentati i controlli alle frontiere e saranno respinti anche numerosi richiedenti asilo. Verranno fatte eccezioni solo per i «gruppi vulnerabili», tra cui donne incinte e bambini. «Non chiuderemo le frontiere, ma le controlleremo più severamente e questo controllo più rigoroso delle frontiere porterà anche a un numero maggiore di respingimenti», ha detto il ministro. «Aumenteremo gradualmente il numero di respingimenti e i controlli più rigorosi alle frontiere. Faremo in modo che, gradualmente, più forze di polizia siano schierate alle frontiere e possano anche effettuare questi respingimenti». Il suo capo Merz non è stato da meno. Recandosi in visita in Polonia dal turboeuropeista Donald Tusk, il cancelliere fresco di nomina ha sostenuto la necessità di una stretta sugli ingressi. «Se noi, tutti insieme nell’Unione europea, diamo il segnale a coloro che si dirigono verso l’Europa senza valide opportunità di ingresso, se diamo questo segnale soprattutto ai trafficanti, che queste rotte diventeranno molto più difficili e che le chiuderemo, allora è un segnale comune e positivo», ha detto Merz.Niente male per uno che dovrebbe marcare una abissale distanza rispetto a Afd. Il bello è che queste uscite hanno indispettito non poco il simpatico Tusk, il quale - aperto, democratico ed europeista qual è - a sua volta non gradisce per niente farsi carico degli stranieri. Immaginando che le restrizioni tedesche ai confini possano impattare pesantemente sulla Polonia, Tusk è stato chiaro: «Non si può dare l’impressione che qualcuno, Germania compresa, voglia inviare gruppi di migranti in Polonia», ha detto nella conferenza stampa congiunta con l’omologo germanico. «La Polonia non lo accetterà. Se qualcuno introduce un controllo alla frontiera polacca, la Polonia farà altrettanto: non ha senso. Dobbiamo aiutarci a vicenda per proteggere il territorio dell’Ue dall’immigrazione illegale. Mi aspetto che il nuovo governo tedesco collabori pienamente con noi per proteggere le frontiere esterne dell’Ue. La cosa peggiore sarebbe se tutti i Paesi dell’Ue iniziassero a introdurre controlli alle loro frontiere».Tutto fantastico: accusano i pericolosi identitari di Afd di essere razzisti e intolleranti, ma sono i primi a non volere gli immigrati. E sono in buona compagnia. I due compagni di giochi di Merz, gli amichetti con cui egli progetta il riarmo europeo, ovvero Emmanuel Macron e Keir Starmer, non sono certo dei fan dell’invasione straniera, anzi. Nonostante le belle parole spese anche in tempi recenti e la spocchia con cui da sempre guardano alle destre, questi due leader zoppicanti non da oggi si impegnano non poco per blindare le frontiere. Che Macron abbia chiuso a doppia mandata quelle con l’Italia e approvi i piani Ue per fermare i flussi è noto. Ancora freschissimo, invece, è il piano del britannico Starmer per restare padrone a casa sua. La settimana prossima il primo ministro inglese presenterà il Libro Bianco sull’immigrazione il quale, tra le altre cose, fissa gli standard per l’accoglienza. Che non sono esattamente semplicissimi da soddisfare. Ad esempio è richiesta agli stranieri una ottima conoscenza della lingua. Come anticipa il Telegraph, «l’attuale standard richiesto per i richiedenti un visto di lavoro è equivalente al livello Gcse e richiede ai nuovi arrivati solo una conoscenza base dell’inglese nelle situazioni quotidiane. I ministri lo ritengono insufficiente per un’integrazione efficace dei migranti e verrà elevato all’equivalente dell’inglese come lingua straniera di livello A. Questo richiede alle persone di esprimersi fluentemente e spontaneamente, senza troppa ricerca di parole e di parlare inglese in modo flessibile ed efficace per scopi sociali, accademici e professionali». Se dovessimo applicare lo stesso metodo in Italia, con tutta probabilità la grandissima parte degli stranieri sarebbe esclusa. E non è tutto. Sempre il Telegraph spiega che «i migranti potrebbero anche dover attendere un decennio per ottenere un permesso di soggiorno a tempo indeterminato nel Regno Unito, a meno che non superino i più severi test di inglese. Sarà inoltre più difficile per i migranti ottenere un permesso di soggiorno a tempo indeterminato se ci sono dubbi sulla loro situazione finanziaria o se hanno trascorso troppo tempo fuori dal Regno Unito dal momento del loro arrivo». Anche qui, quanto a severità, siamo a un livello piuttosto alto. Le nostre forze di sinistra chiedono la riduzione drastica dei tempi di attesa per la cittadinanza e puntano ad allargare il più possibile le maglie dell’accoglienza, i laburisti invece fissano paletti economici, culturali, linguistici e di permanenza sul territorio, e puntano esplicitamente (è nel loro programma) a ridurre le presenze nette di stranieri, che attualmente si attestano intorno alle 728.000 unità.Ecco dunque la ipocrisia palese: i partiti di destra vengono accusato di disumanità e crudeltà, anche se chiedono cose non molto diverse da quelle previste dalle politiche di liberali e progressisti europei. In pratica si tratta del modello Biden: anche l’ex presidente americano espelleva in manette gli stranieri, e con cifre record, ma lo faceva in silenzio, quasi di nascosto. Dunque, a differenza del suo successore Donald Trump, non veniva attaccato. Il giochino di Merz, Starmer e soci è analogo: disprezzano e censurano le destre. Ma vorrebbero agire allo stesso modo se non peggio, però senza dirlo, senza intaccare lo smalto di bontà che si sono dati da soli.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/afd-germania-merz-respingere-migranti-2671920938.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ancora-giudici-contro-le-espulsioni" data-post-id="2671920938" data-published-at="1746744840" data-use-pagination="False"> Ancora giudici contro le espulsioni Il sindaco dem di Bologna Matteo Lepore, uno che finora sembrava preoccuparsi più degli aperitivi in centro che della sicurezza delle periferie, dev’essersi svegliato all’improvviso con un incubo: la sicurezza. L’altro giorno ha ribaltato la frittata e ha chiesto persino a Lega e Fratelli d’Italia di «farsi un serio esame di coscienza» sulle espulsioni. Il sindaco sostiene che Bologna affronta problemi degni di una metropoli, tra criminalità, spaccio e violenza. Vuole rinforzi negli organici, chiede più agenti, invoca sicurezza. Ma il punto non è questo. Il punto è l’eterno cortocircuito delle espulsioni mancate, ricorsi giudiziari e decisioni ribaltate in extremis. Basta prendere gli ultimi casi. Rachid Karroua, operaio marocchino residente nel Bresciano. Arrestato a metà marzo per terrorismo: «Si autoaddestra», sostenevano i pm di Perugia che l’avevano arrestato (e che poi hanno trasmesso gli atti per competenza territoriale ai colleghi di Brescia). Chat Whatsapp che inneggiavano alla jihad, navigazioni web sospette, tracce digitali di estremismo islamico. Sembrava un caso blindato. E invece no. Il Tribunale del Riesame di Brescia smonta tutto: «Nessuna radicalizzazione ideologica». E «nessun percorso di autoaddestramento dimostrabile». Solo qualche chat e qualche navigazione, roba archiviata in fretta, poco più di una curiosità malsana. E via, libero. Ma non finisce qui. Spostandosi a Macerata c’è un altro caso emblematico. Stavolta tocca a Ibii Ngwang, camerunense, ex calciatore della Cluentina. Finisce al centro di una polemica incendiaria per un video davanti alla Questura. Occhiali scuri, cappellino tirato giù, insulti gratuiti alla premier Giorgia Meloni, con tanto di allusioni sgradevoli sulla figlia, e al vicepremier Matteo Salvini. Salvini diffonde il video sui social, l’indignazione pubblica è immediata. La reazione dello Stato anche: la Digos lo rintraccia, la denuncia parte, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi firma l’espulsione immediata. Sembrava fatta. E invece no, ancora una volta. Il giudice Alessandra Filoni della Corte d’Appello di Ancona blocca tutto. «Non c’è pericolosità sociale», dice, accogliendo il ricorso degli avvocati di Ngwang. Quell’espulsione lampo diventa così un dietrofront. Ngwang si scusa, si giustifica dicendo di aver citato «un brano rap per rovesciare stereotipi». Una bravata, una serata finita male con gli amici. Sbagliato, sì, offensivo, certamente. Ma pericoloso no, almeno secondo i giudici. E non è finita. Mercoledì un senegalese di 38 anni senza fissa dimora ha dato di matto a Lodi. Era destinatario di un provvedimento di espulsione emesso a gennaio, ma per un ricorso è rimasto a circolare in Italia. Ha scatenato il panico tra medici e pazienti del Pronto soccorso dell’ospedale Maggiore della città lombarda, distruggendo un monitor, insultando i carabinieri e minacciandoli di morte. I carabinieri lo avevano appena avvicinato fuori dall’ospedale mentre urlava contro un cittadino italiano, accusandolo di avergli rubato il portafogli. Poi il delirio in corsia, l’arresto, il portafogli ritrovato, gli insulti al giudice e infine il malore in aula. In attesa di perizia psichiatrica, è finito in carcere. Eccolo il cortocircuito delle espulsioni che manda in tilt i piani del governo. Ecco perché Lepore, che forse preferiva occuparsi di eventi e piste ciclabili, ora è costretto a puntare il dito verso Roma. Lui chiede rinforzi, ma il caos giuridico e burocratico gli risponde con sentenze che cancellano in pochi istanti ogni certezza di sicurezza, trasformando decreti ministeriali in fogli inutili. A prevalere, insomma, sono ancora una volta sempre e soltanto i giudici.
Trump blocca il petrolio del Venezuela. Domanda elettrica, una questione di sicurezza nazionale. Le strategie della Cina per l’Artico. Auto 2035, l’Ue annacqua ma ormai il danno è fatto.
Dinanzi a tale insipienza strategica, i popoli non rimangono impassibili. Già alla vigilia del vertice dei 27, Politico aveva pubblicato i risultati di un sondaggio, secondo il quale sia in Francia sia in Germania sono aumentati quelli che vorrebbero «ridurre significativamente» il sostegno monetario all’Ucraina. I tedeschi che chiedono tagli drastici sono il 32%, percentuale cui va sommato il 14% di quanti si accontenterebbero di una qualsiasi stretta. Totale: 46%. I transalpini stufi di sborsare, invece, sono il 37% del totale. Per la Bild, l’opinione pubblica di Berlino è ancora più netta sull’opportunità di continuare a inviare armi al fronte: il 58% risponde di no. Infine, una rilevazione di Rtl e Ntv ha appurato che il 75% dei cittadini boccia l’operato del cancelliere Friedrich Merz, principale fautore della poi scongiurata «rapina» dei fondi di Mosca. Non è un caso che, stando almeno alle ricostruzioni del Consiglio Ue proposte da Repubblica, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni abbiano motivato le proprie riserve sul piano con la difficoltà di far digerire ai Parlamenti nazionali, quindi agli elettori, una mozza così azzardata. Lo scollamento permanente dalla realtà che caratterizza l’operato della Commissione, a quanto pare, risponde alla filosofia esposta da Sergio Mattarella a proposito del riarmo a tappe forzate: è impopolare, ma è necessario.
La disputa sulle sovvenzioni a Zelensky - e speriamo siano a Zelensky, ovvero al bilancio del Paese aggredito, anziché ai cessi d’oro dei suoi oligarchi corrotti - ha comunque generato pure un’altra forma di divaricazione: quella tra i fatti e le rappresentazioni mediatiche.
I fatti sono questi: Ursula von der Leyen, spalleggiata da Merz, ha subìto l’ennesimo smacco; l’Unione ha ripiegato all’unanimità sugli eurobond, sebbene Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca siano state esentate dagli obblighi contributivi, perché abbandonare i lavori senza alcun accordo, oppure con un accordo a maggioranza qualificata, sarebbe stato drammatico; alla fine, l’Europa si è condannata all’ennesimo salasso. E la rappresentazione?
La Stampa ieri è partita per Plutone: titolava sulla «svolta» del debito comune, descritta addirittura come un «compromesso storico». Il corrispondente da Bruxelles, Marco Bresolin, in verità ha usato toni più sobri, sottolineando la «grande delusione» di chi avrebbe voluto «punire la Russia» e riconoscendo il successo del premier belga, Bart De Wever, ostile all’impiego degli asset; mentre l’inviato, Francesco Malfetano, dava atto alla Meloni di aver pianificato «la sua mossa più efficace». Sul Corriere, il fiasco di Merz si è trasformato in una «vittoria a metà». Repubblica ha borbottato per la «trappola» tesa dal cancelliere e a Ursula. Ma Andrea Bonanni, in un editoriale, ha lodato l’esito «non scontato» del Consiglio. L’Europa, ha scritto, «era chiamata a sostituirsi a Washington per consentire a Kiev di continuare la resistenza contro l’attacco russo. Lo ha fatto. Doveva trovare i soldi. Li ha trovati ricorrendo ancora una volta a un prestito comune, come fece al tempo dell’emergenza Covid». Un trionfo. Le memorie del regimetto pandemico avranno giocato un ruolo, nel convincere le firme di largo Fochetti che, «stavolta», l’Ue abbia «battuto un colpo».
Un colpo dev’essere venuto ai leader continentali. Costoro, compiuto il giro di boa, forse si convinceranno a smetterla di sabotare le trattative. Prova ne sia la sveglia di Macron, che ha avvisato gli omologhi: se fallisce la mediazione Usa, tocca agli europei aprire un canale con Vladimir Putin. Tutto sommato, avere gli asset in ostaggio può servire a scongiurare l’incubo dell’Ue: sparire di scena.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
La soluzione del prestito dunque salva capra e cavoli, ovvero gli interessi di chi ritiene giusto dover alimentare con aiuti e armi la resistenza di Kiev e anche quelli di quanti temevano la reazione russa all’uso dei fondi. Una mediazione soddisfacente per tutti, dunque? Non esattamente, visto che la soluzione escogitata non è affatto gratis. Già: mentre i vertici della Ue si fanno i complimenti per aver raggiunto un’intesa, a non congratularsi dovrebbero essere i cittadini europei, perché l’accordo raggiunto non è gratis, ma graverà ancora una volta sulle tasche dei contribuenti. Lasciate perdere per un momento come e quando l’Ucraina sarà in grado di restituire il prestito che le verrà concesso. Se Kiev fosse un comune cittadino nessuna banca la finanzierebbe, perché agli occhi di qualsiasi istituto di credito non offrirebbe alcuna garanzia di restituzione del mutuo concesso. Per molti anni gli ucraini non saranno in grado di restituire ciò che ricevono. Dunque, i soldi che la Ue si prepara a erogare rischiano di essere a fondo perduto, cioè di non ritornare mai nelle tasche dei legittimi proprietari, cioè noi, perché il prestito non è garantito da Volodymyr Zelensky, in quanto il presidente ucraino non ha nulla da offrire in garanzia, ma dall’Europa, vale a dire da chi nel Vecchio continente paga le tasse.
Lasciate perdere che, con la corruzione che regna nel Paese, parte dei soldi che diamo a Kiev rischia di sparire nelle tasche di una serie di politici e burocrati avidi prima ancora di arrivare a destinazione. E cancelliamo pure dalla memoria le immagini dei cessi d’oro fatti installare dai collaboratori mano lesta del presidente ucraino: rubinetti, bidet, vasca e tutto il resto lo abbiamo pagato noi, con i nostri soldi. Il grande reset della realtà, per come si è fin qui palesata, tuttavia non può cancellare quello che ci aspetta.
Il prestito della Ue, come ogni finanziamento, non è gratis: quando voi fate il mutuo per la casa, oltre a rimborsare mese dopo mese parte del capitale, pagate gli interessi. Ma in questo caso il tasso non sarà a carico di chi riceve i soldi, come sempre capita, ma - udite, udite - di chi li garantisce, ovvero noi. Politico, sito indipendente, ha calcolato che ogni anno la Ue sarà costretta a sborsare circa 3 miliardi di interessi, non proprio noccioline. Chi pagherà? È ovvio: non sarà lo Spirito Santo, ma ancora noi. Dividendo la cifra per il numero di abitanti all’interno della Ue si capisce che ogni cittadino dovrà mettere mano al portafogli per 220 euro, neonati e minorenni inclusi. Se poi l’aliquota la si vuol applicare sopra una certa soglia di età, si arriva a 300.
Ecco, la pace sia con voi la pagheremo cara e probabilmente pagheremo cari anche i 90 miliardi concessi all’Ucraina, perché quasi certamente Kiev non li restituirà mai e toccherà a noi, intesi come Ue, farcene carico. Piccola noticina: com’è che, quando servivano soldi per rilanciare l’economia e i salari, Bruxelles era contraria e adesso, se c’è da far debito per sostenere l’Ucraina, invece è favorevole? Il mistero delle scelte Ue continua. Ma soprattutto, si capisce che alla base di ogni decisione, a differenza di ciò che ci hanno raccontato per anni, non ci sono motivazioni economiche, ma solo politiche.
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Kirill Budanov (Ansa)
Sicuramente nei potenziali colloqui è prevista la partecipazione americana, ma potrebbero aggiungersi anche gli europei, visto che si trovano sul suolo americano. Il presidente ucraino, nell’annunciare questa opportunità, ha dichiarato che Washington «ha proposto il seguente formato: Ucraina, America, Russia e, dato che ci sono rappresentanti dell’Europa, probabilmente anche l’Europa». E in tal caso a prendere parte sarebbero i consiglieri per la sicurezza nazionale. Pare però che la decisione finale spetti a Zelensky: sarà l’Ucraina a stabilire la configurazione della riunione in base all’esito dell’incontro di venerdì tra i negoziatori americani, la delegazione ucraina e quella europea. E per questo il presidente ucraino, che si mostra già scettico, ha comunicato che ne parlerà con Rustem Umerov. D’altronde, Zelensky ha spiegato che deve ancora essere aggiornato sui risultati raggiunti a Miami: «Il nostro team si metterà in contatto con me: mi comunicheranno l’esito del primo blocco di dialogo e poi capiremo cosa fare». Poco dopo ha riferito che la proposta americana potrebbe essere accettata qualora faciliti lo scambio di prigionieri e sia il preludio di un incontro «tra i leader». Ha poi avvertito che Washington deve chiarire «se c’è una via diplomatica», altrimenti, in caso contrario «ci sarà una pressione totale» su Mosca.
Ma prima dell’eventuale trilaterale o quadrilaterale, ieri l’inviato americano, Steve Witkoff, il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e il segretario di Stato americano, Marco Rubio, la cui presenza però, quando siamo andati in stampa, non era ancora confermata, si sono incontrati a Miami con la delegazione russa guidata da Kirill Dmitriev. L’inviato del presidente russo, Vladimir Putin, prima dei colloqui, ha condiviso su X un video girato durante la precedente missione in Florida, scrivendo: «In viaggio per Miami. Mentre i guerrafondai continuano a fare gli straordinari per indebolire il piano di pace degli Stati Uniti per l’Ucraina, mi sono ricordato di questo video della mia precedente visita. La luce che irrompe attraverso le nuvole temporalesche». Più tardi, mentre era in viaggio verso la Florida, ha aggiunto che la Russia è «pronta a collaborare con gli Stati Uniti nell’Artico».
Ma oltre agli interessi già noti in quell’area, Mosca avrebbe altri obiettivi. In una versione che stride con la visione della Casa Bianca, sei fonti vicine all’intelligence americana hanno infatti rivelato a Reuters che la Russia mira a conquistare tutta l’Ucraina e i Paesi dell’ex Unione sovietica. Il membro democratico della Commissione intelligence della Camera, Mike Quigley, interpellato dall’agenzia britannica, ha dichiarato: «Le informazioni di intelligence hanno sempre indicato che Putin vuole di più. Gli europei ne sono convinti. I polacchi ne sono assolutamente convinti. I baltici pensano di essere i primi». Che tra i target russi ci siano gli Stati baltici ne è certo anche il capo del servizio segreto militare ucraino, Kirill Budanov. In un’intervista rilasciata a LB.ua. ha annunciato che «il piano originale» di Mosca prevedeva «di iniziare le operazioni» di conquista «nel 2030», ma «ora i piani sono stati modificati e rivisti per anticipare la tempistica al 2027».
Guardando invece al presente, l’apertura dello zar russo a un cessate il fuoco in Ucraina qualora si tenessero le elezioni non è stata apprezzata dal leader di Kiev. Zelensky ha detto che «non spetta a Putin decidere quando e in quale forma si terranno le elezioni in Ucraina». Tuttavia, ha già comunicato che il ministero degli Esteri è al lavoro per organizzare il voto all’estero. Immediata è stata la risposta del Cremlino, con il suo portavoce Dmitry Peskov che ha bollato Zelensky come «confuso» e «contradditorio» dato che ha già chiesto il sostegno americano proprio per garantire che le eventuali elezioni si svolgano in sicurezza.
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