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2025-05-09
Bollano Afd, ma da Londra a Berlino il mantra è «respingere i migranti»
Alice Weidel (Ansa)
Si sono versati fiumi di inchiostro sui tedeschi di Afd, i nuovi mostri della politica europea che vengono giudicati alla stregua di pericolosi fanatici, spargitori di odio e fautori delle peggiori discriminazioni, motivo per cui numerose anime belle ne gradirebbero la messa al bando. Se però si scava appena sotto la friabile superficie delle dichiarazioni a mezzo stampa, si scopre che - dopo tutto - le politiche dei presunti buoni e giusti d’Europa riguardo l’immigrazione non sono poi tanto diverse, anzi. Più o meno ovunque si invocano controlli stringenti, norme severe e chiusura dei confini.
Cominciamo dalla Germania guidata dal traballante cancelliere Friedrich Merz, il quale dovrebbe appunto rappresentare l’alternativa democratica e presentabile ai cattivoni di Afd. Il nuovo ministro degli Interni, Alexander Dobrindt, ha appena dichiarato che saranno aumentati i controlli alle frontiere e saranno respinti anche numerosi richiedenti asilo. Verranno fatte eccezioni solo per i «gruppi vulnerabili», tra cui donne incinte e bambini. «Non chiuderemo le frontiere, ma le controlleremo più severamente e questo controllo più rigoroso delle frontiere porterà anche a un numero maggiore di respingimenti», ha detto il ministro. «Aumenteremo gradualmente il numero di respingimenti e i controlli più rigorosi alle frontiere. Faremo in modo che, gradualmente, più forze di polizia siano schierate alle frontiere e possano anche effettuare questi respingimenti».
Il suo capo Merz non è stato da meno. Recandosi in visita in Polonia dal turboeuropeista Donald Tusk, il cancelliere fresco di nomina ha sostenuto la necessità di una stretta sugli ingressi. «Se noi, tutti insieme nell’Unione europea, diamo il segnale a coloro che si dirigono verso l’Europa senza valide opportunità di ingresso, se diamo questo segnale soprattutto ai trafficanti, che queste rotte diventeranno molto più difficili e che le chiuderemo, allora è un segnale comune e positivo», ha detto Merz.
Niente male per uno che dovrebbe marcare una abissale distanza rispetto a Afd. Il bello è che queste uscite hanno indispettito non poco il simpatico Tusk, il quale - aperto, democratico ed europeista qual è - a sua volta non gradisce per niente farsi carico degli stranieri. Immaginando che le restrizioni tedesche ai confini possano impattare pesantemente sulla Polonia, Tusk è stato chiaro: «Non si può dare l’impressione che qualcuno, Germania compresa, voglia inviare gruppi di migranti in Polonia», ha detto nella conferenza stampa congiunta con l’omologo germanico. «La Polonia non lo accetterà. Se qualcuno introduce un controllo alla frontiera polacca, la Polonia farà altrettanto: non ha senso. Dobbiamo aiutarci a vicenda per proteggere il territorio dell’Ue dall’immigrazione illegale. Mi aspetto che il nuovo governo tedesco collabori pienamente con noi per proteggere le frontiere esterne dell’Ue. La cosa peggiore sarebbe se tutti i Paesi dell’Ue iniziassero a introdurre controlli alle loro frontiere».
Tutto fantastico: accusano i pericolosi identitari di Afd di essere razzisti e intolleranti, ma sono i primi a non volere gli immigrati. E sono in buona compagnia. I due compagni di giochi di Merz, gli amichetti con cui egli progetta il riarmo europeo, ovvero Emmanuel Macron e Keir Starmer, non sono certo dei fan dell’invasione straniera, anzi. Nonostante le belle parole spese anche in tempi recenti e la spocchia con cui da sempre guardano alle destre, questi due leader zoppicanti non da oggi si impegnano non poco per blindare le frontiere. Che Macron abbia chiuso a doppia mandata quelle con l’Italia e approvi i piani Ue per fermare i flussi è noto.
Ancora freschissimo, invece, è il piano del britannico Starmer per restare padrone a casa sua. La settimana prossima il primo ministro inglese presenterà il Libro Bianco sull’immigrazione il quale, tra le altre cose, fissa gli standard per l’accoglienza. Che non sono esattamente semplicissimi da soddisfare. Ad esempio è richiesta agli stranieri una ottima conoscenza della lingua. Come anticipa il Telegraph, «l’attuale standard richiesto per i richiedenti un visto di lavoro è equivalente al livello Gcse e richiede ai nuovi arrivati solo una conoscenza base dell’inglese nelle situazioni quotidiane. I ministri lo ritengono insufficiente per un’integrazione efficace dei migranti e verrà elevato all’equivalente dell’inglese come lingua straniera di livello A. Questo richiede alle persone di esprimersi fluentemente e spontaneamente, senza troppa ricerca di parole e di parlare inglese in modo flessibile ed efficace per scopi sociali, accademici e professionali». Se dovessimo applicare lo stesso metodo in Italia, con tutta probabilità la grandissima parte degli stranieri sarebbe esclusa. E non è tutto.
Sempre il Telegraph spiega che «i migranti potrebbero anche dover attendere un decennio per ottenere un permesso di soggiorno a tempo indeterminato nel Regno Unito, a meno che non superino i più severi test di inglese. Sarà inoltre più difficile per i migranti ottenere un permesso di soggiorno a tempo indeterminato se ci sono dubbi sulla loro situazione finanziaria o se hanno trascorso troppo tempo fuori dal Regno Unito dal momento del loro arrivo». Anche qui, quanto a severità, siamo a un livello piuttosto alto. Le nostre forze di sinistra chiedono la riduzione drastica dei tempi di attesa per la cittadinanza e puntano ad allargare il più possibile le maglie dell’accoglienza, i laburisti invece fissano paletti economici, culturali, linguistici e di permanenza sul territorio, e puntano esplicitamente (è nel loro programma) a ridurre le presenze nette di stranieri, che attualmente si attestano intorno alle 728.000 unità.
Ecco dunque la ipocrisia palese: i partiti di destra vengono accusato di disumanità e crudeltà, anche se chiedono cose non molto diverse da quelle previste dalle politiche di liberali e progressisti europei. In pratica si tratta del modello Biden: anche l’ex presidente americano espelleva in manette gli stranieri, e con cifre record, ma lo faceva in silenzio, quasi di nascosto. Dunque, a differenza del suo successore Donald Trump, non veniva attaccato. Il giochino di Merz, Starmer e soci è analogo: disprezzano e censurano le destre. Ma vorrebbero agire allo stesso modo se non peggio, però senza dirlo, senza intaccare lo smalto di bontà che si sono dati da soli.
Ancora giudici contro le espulsioni
Il sindaco dem di Bologna Matteo Lepore, uno che finora sembrava preoccuparsi più degli aperitivi in centro che della sicurezza delle periferie, dev’essersi svegliato all’improvviso con un incubo: la sicurezza. L’altro giorno ha ribaltato la frittata e ha chiesto persino a Lega e Fratelli d’Italia di «farsi un serio esame di coscienza» sulle espulsioni. Il sindaco sostiene che Bologna affronta problemi degni di una metropoli, tra criminalità, spaccio e violenza. Vuole rinforzi negli organici, chiede più agenti, invoca sicurezza.
Ma il punto non è questo. Il punto è l’eterno cortocircuito delle espulsioni mancate, ricorsi giudiziari e decisioni ribaltate in extremis. Basta prendere gli ultimi casi. Rachid Karroua, operaio marocchino residente nel Bresciano. Arrestato a metà marzo per terrorismo: «Si autoaddestra», sostenevano i pm di Perugia che l’avevano arrestato (e che poi hanno trasmesso gli atti per competenza territoriale ai colleghi di Brescia). Chat Whatsapp che inneggiavano alla jihad, navigazioni web sospette, tracce digitali di estremismo islamico. Sembrava un caso blindato. E invece no. Il Tribunale del Riesame di Brescia smonta tutto: «Nessuna radicalizzazione ideologica». E «nessun percorso di autoaddestramento dimostrabile». Solo qualche chat e qualche navigazione, roba archiviata in fretta, poco più di una curiosità malsana. E via, libero.
Ma non finisce qui. Spostandosi a Macerata c’è un altro caso emblematico. Stavolta tocca a Ibii Ngwang, camerunense, ex calciatore della Cluentina. Finisce al centro di una polemica incendiaria per un video davanti alla Questura. Occhiali scuri, cappellino tirato giù, insulti gratuiti alla premier Giorgia Meloni, con tanto di allusioni sgradevoli sulla figlia, e al vicepremier Matteo Salvini. Salvini diffonde il video sui social, l’indignazione pubblica è immediata. La reazione dello Stato anche: la Digos lo rintraccia, la denuncia parte, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi firma l’espulsione immediata. Sembrava fatta. E invece no, ancora una volta. Il giudice Alessandra Filoni della Corte d’Appello di Ancona blocca tutto. «Non c’è pericolosità sociale», dice, accogliendo il ricorso degli avvocati di Ngwang. Quell’espulsione lampo diventa così un dietrofront. Ngwang si scusa, si giustifica dicendo di aver citato «un brano rap per rovesciare stereotipi». Una bravata, una serata finita male con gli amici. Sbagliato, sì, offensivo, certamente. Ma pericoloso no, almeno secondo i giudici.
E non è finita. Mercoledì un senegalese di 38 anni senza fissa dimora ha dato di matto a Lodi. Era destinatario di un provvedimento di espulsione emesso a gennaio, ma per un ricorso è rimasto a circolare in Italia. Ha scatenato il panico tra medici e pazienti del Pronto soccorso dell’ospedale Maggiore della città lombarda, distruggendo un monitor, insultando i carabinieri e minacciandoli di morte. I carabinieri lo avevano appena avvicinato fuori dall’ospedale mentre urlava contro un cittadino italiano, accusandolo di avergli rubato il portafogli. Poi il delirio in corsia, l’arresto, il portafogli ritrovato, gli insulti al giudice e infine il malore in aula. In attesa di perizia psichiatrica, è finito in carcere.
Eccolo il cortocircuito delle espulsioni che manda in tilt i piani del governo. Ecco perché Lepore, che forse preferiva occuparsi di eventi e piste ciclabili, ora è costretto a puntare il dito verso Roma. Lui chiede rinforzi, ma il caos giuridico e burocratico gli risponde con sentenze che cancellano in pochi istanti ogni certezza di sicurezza, trasformando decreti ministeriali in fogli inutili. A prevalere, insomma, sono ancora una volta sempre e soltanto i giudici.
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Le solite anime belle accusano il partito tedesco di odio e discriminazione nei confronti dei «poveri» stranieri. Peccato che lo stesso Friederich Merz e i suoi amici europei siano i primi a promuovere linee assai dure sull’accoglienza.intanto, in Italia, nonostante l’ordine di Matteo Piantedosi, l’uomo che insultò Giorgia Meloni e Matteo Salvini può rimanere qui: «Non è pericoloso». Così le toghe trasformano decreti ministeriali in fogli inutili.Lo speciale contiene due articoli Si sono versati fiumi di inchiostro sui tedeschi di Afd, i nuovi mostri della politica europea che vengono giudicati alla stregua di pericolosi fanatici, spargitori di odio e fautori delle peggiori discriminazioni, motivo per cui numerose anime belle ne gradirebbero la messa al bando. Se però si scava appena sotto la friabile superficie delle dichiarazioni a mezzo stampa, si scopre che - dopo tutto - le politiche dei presunti buoni e giusti d’Europa riguardo l’immigrazione non sono poi tanto diverse, anzi. Più o meno ovunque si invocano controlli stringenti, norme severe e chiusura dei confini. Cominciamo dalla Germania guidata dal traballante cancelliere Friedrich Merz, il quale dovrebbe appunto rappresentare l’alternativa democratica e presentabile ai cattivoni di Afd. Il nuovo ministro degli Interni, Alexander Dobrindt, ha appena dichiarato che saranno aumentati i controlli alle frontiere e saranno respinti anche numerosi richiedenti asilo. Verranno fatte eccezioni solo per i «gruppi vulnerabili», tra cui donne incinte e bambini. «Non chiuderemo le frontiere, ma le controlleremo più severamente e questo controllo più rigoroso delle frontiere porterà anche a un numero maggiore di respingimenti», ha detto il ministro. «Aumenteremo gradualmente il numero di respingimenti e i controlli più rigorosi alle frontiere. Faremo in modo che, gradualmente, più forze di polizia siano schierate alle frontiere e possano anche effettuare questi respingimenti». Il suo capo Merz non è stato da meno. Recandosi in visita in Polonia dal turboeuropeista Donald Tusk, il cancelliere fresco di nomina ha sostenuto la necessità di una stretta sugli ingressi. «Se noi, tutti insieme nell’Unione europea, diamo il segnale a coloro che si dirigono verso l’Europa senza valide opportunità di ingresso, se diamo questo segnale soprattutto ai trafficanti, che queste rotte diventeranno molto più difficili e che le chiuderemo, allora è un segnale comune e positivo», ha detto Merz.Niente male per uno che dovrebbe marcare una abissale distanza rispetto a Afd. Il bello è che queste uscite hanno indispettito non poco il simpatico Tusk, il quale - aperto, democratico ed europeista qual è - a sua volta non gradisce per niente farsi carico degli stranieri. Immaginando che le restrizioni tedesche ai confini possano impattare pesantemente sulla Polonia, Tusk è stato chiaro: «Non si può dare l’impressione che qualcuno, Germania compresa, voglia inviare gruppi di migranti in Polonia», ha detto nella conferenza stampa congiunta con l’omologo germanico. «La Polonia non lo accetterà. Se qualcuno introduce un controllo alla frontiera polacca, la Polonia farà altrettanto: non ha senso. Dobbiamo aiutarci a vicenda per proteggere il territorio dell’Ue dall’immigrazione illegale. Mi aspetto che il nuovo governo tedesco collabori pienamente con noi per proteggere le frontiere esterne dell’Ue. La cosa peggiore sarebbe se tutti i Paesi dell’Ue iniziassero a introdurre controlli alle loro frontiere».Tutto fantastico: accusano i pericolosi identitari di Afd di essere razzisti e intolleranti, ma sono i primi a non volere gli immigrati. E sono in buona compagnia. I due compagni di giochi di Merz, gli amichetti con cui egli progetta il riarmo europeo, ovvero Emmanuel Macron e Keir Starmer, non sono certo dei fan dell’invasione straniera, anzi. Nonostante le belle parole spese anche in tempi recenti e la spocchia con cui da sempre guardano alle destre, questi due leader zoppicanti non da oggi si impegnano non poco per blindare le frontiere. Che Macron abbia chiuso a doppia mandata quelle con l’Italia e approvi i piani Ue per fermare i flussi è noto. Ancora freschissimo, invece, è il piano del britannico Starmer per restare padrone a casa sua. La settimana prossima il primo ministro inglese presenterà il Libro Bianco sull’immigrazione il quale, tra le altre cose, fissa gli standard per l’accoglienza. Che non sono esattamente semplicissimi da soddisfare. Ad esempio è richiesta agli stranieri una ottima conoscenza della lingua. Come anticipa il Telegraph, «l’attuale standard richiesto per i richiedenti un visto di lavoro è equivalente al livello Gcse e richiede ai nuovi arrivati solo una conoscenza base dell’inglese nelle situazioni quotidiane. I ministri lo ritengono insufficiente per un’integrazione efficace dei migranti e verrà elevato all’equivalente dell’inglese come lingua straniera di livello A. Questo richiede alle persone di esprimersi fluentemente e spontaneamente, senza troppa ricerca di parole e di parlare inglese in modo flessibile ed efficace per scopi sociali, accademici e professionali». Se dovessimo applicare lo stesso metodo in Italia, con tutta probabilità la grandissima parte degli stranieri sarebbe esclusa. E non è tutto. Sempre il Telegraph spiega che «i migranti potrebbero anche dover attendere un decennio per ottenere un permesso di soggiorno a tempo indeterminato nel Regno Unito, a meno che non superino i più severi test di inglese. Sarà inoltre più difficile per i migranti ottenere un permesso di soggiorno a tempo indeterminato se ci sono dubbi sulla loro situazione finanziaria o se hanno trascorso troppo tempo fuori dal Regno Unito dal momento del loro arrivo». Anche qui, quanto a severità, siamo a un livello piuttosto alto. Le nostre forze di sinistra chiedono la riduzione drastica dei tempi di attesa per la cittadinanza e puntano ad allargare il più possibile le maglie dell’accoglienza, i laburisti invece fissano paletti economici, culturali, linguistici e di permanenza sul territorio, e puntano esplicitamente (è nel loro programma) a ridurre le presenze nette di stranieri, che attualmente si attestano intorno alle 728.000 unità.Ecco dunque la ipocrisia palese: i partiti di destra vengono accusato di disumanità e crudeltà, anche se chiedono cose non molto diverse da quelle previste dalle politiche di liberali e progressisti europei. In pratica si tratta del modello Biden: anche l’ex presidente americano espelleva in manette gli stranieri, e con cifre record, ma lo faceva in silenzio, quasi di nascosto. Dunque, a differenza del suo successore Donald Trump, non veniva attaccato. Il giochino di Merz, Starmer e soci è analogo: disprezzano e censurano le destre. 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Vuole rinforzi negli organici, chiede più agenti, invoca sicurezza. Ma il punto non è questo. Il punto è l’eterno cortocircuito delle espulsioni mancate, ricorsi giudiziari e decisioni ribaltate in extremis. Basta prendere gli ultimi casi. Rachid Karroua, operaio marocchino residente nel Bresciano. Arrestato a metà marzo per terrorismo: «Si autoaddestra», sostenevano i pm di Perugia che l’avevano arrestato (e che poi hanno trasmesso gli atti per competenza territoriale ai colleghi di Brescia). Chat Whatsapp che inneggiavano alla jihad, navigazioni web sospette, tracce digitali di estremismo islamico. Sembrava un caso blindato. E invece no. Il Tribunale del Riesame di Brescia smonta tutto: «Nessuna radicalizzazione ideologica». E «nessun percorso di autoaddestramento dimostrabile». Solo qualche chat e qualche navigazione, roba archiviata in fretta, poco più di una curiosità malsana. E via, libero. Ma non finisce qui. Spostandosi a Macerata c’è un altro caso emblematico. Stavolta tocca a Ibii Ngwang, camerunense, ex calciatore della Cluentina. Finisce al centro di una polemica incendiaria per un video davanti alla Questura. Occhiali scuri, cappellino tirato giù, insulti gratuiti alla premier Giorgia Meloni, con tanto di allusioni sgradevoli sulla figlia, e al vicepremier Matteo Salvini. Salvini diffonde il video sui social, l’indignazione pubblica è immediata. La reazione dello Stato anche: la Digos lo rintraccia, la denuncia parte, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi firma l’espulsione immediata. Sembrava fatta. E invece no, ancora una volta. Il giudice Alessandra Filoni della Corte d’Appello di Ancona blocca tutto. «Non c’è pericolosità sociale», dice, accogliendo il ricorso degli avvocati di Ngwang. Quell’espulsione lampo diventa così un dietrofront. Ngwang si scusa, si giustifica dicendo di aver citato «un brano rap per rovesciare stereotipi». Una bravata, una serata finita male con gli amici. Sbagliato, sì, offensivo, certamente. Ma pericoloso no, almeno secondo i giudici. E non è finita. Mercoledì un senegalese di 38 anni senza fissa dimora ha dato di matto a Lodi. Era destinatario di un provvedimento di espulsione emesso a gennaio, ma per un ricorso è rimasto a circolare in Italia. Ha scatenato il panico tra medici e pazienti del Pronto soccorso dell’ospedale Maggiore della città lombarda, distruggendo un monitor, insultando i carabinieri e minacciandoli di morte. I carabinieri lo avevano appena avvicinato fuori dall’ospedale mentre urlava contro un cittadino italiano, accusandolo di avergli rubato il portafogli. Poi il delirio in corsia, l’arresto, il portafogli ritrovato, gli insulti al giudice e infine il malore in aula. In attesa di perizia psichiatrica, è finito in carcere. Eccolo il cortocircuito delle espulsioni che manda in tilt i piani del governo. Ecco perché Lepore, che forse preferiva occuparsi di eventi e piste ciclabili, ora è costretto a puntare il dito verso Roma. Lui chiede rinforzi, ma il caos giuridico e burocratico gli risponde con sentenze che cancellano in pochi istanti ogni certezza di sicurezza, trasformando decreti ministeriali in fogli inutili. A prevalere, insomma, sono ancora una volta sempre e soltanto i giudici.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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