2023-06-17
Adriano De Micheli: «Con lo streaming si è persa la magia del produrre i film»
Mario Monicelli. Nel riquadro, Adriano De Micheli (Getty Images)
Uno dei papà della Dean: «Oggi le piattaforme decidono tutto, una volta rischiavamo ma i successi erano nostri. Come per “Profumo di donna”».C’era una volta il produttore. Adriano De Micheli, 89 anni portati splendidamente, si reca tutte le mattine nel suo ufficio ai Parioli, diviso per anni con il suo storico socio Pio Angeletti, scomparso nel 2020. Due nomi racchiusi in un celebre marchio, la Dean Film, le cui locandine riempiono le pareti, a immortalare idealmente la storia del cinema italiano: Profumo di donna, C’eravamo tanto amati, Il commissario Pepe, Dramma della gelosia, Telefoni bianchi, I nuovi mostri, La terrazza, Sapore di mare, solo per fare qualche titolo. Attorno a un tavolo vuoto, nella sala riunioni della casa di produzione, De Micheli si racconta con lo sguardo rivolto al presente, ma il pensiero ritorna spesso al ricordo dei grandi maestri, Dino Risi, Ettore Scola, Mario Monicelli, che erano soliti sedersi attorno a quel tavolo. Le porte della Dean Film erano sempre aperte e all’ora di pranzo si riunivano tutti lì, semplicemente per il piacere di parlare e stare assieme. L’oasi felice del cinema italiano. «Continuo a produrre per noia! Tra andare ai giardinetti e venire tutte le mattine in ufficio, preferisco lavorare».Quali sono i suoi progetti?«Stiamo preparando un documentario su Marcello Mastroianni per il centenario del 2024. Lo stanno scrivendo Silvia Scola e Fabrizio Corallo, che ha già realizzato per la Dean Film il documentario su Virna Lisi. Marcello era l’antidivo e così vogliamo raccontarlo. Quando si è lasciato con Catherine Deneuve, gli dicevo: “Perché stai lì a piangere, che ti importa, sei il latin lover italiano?”. E lui: “Sarò anche il latin lover, ma a me le donne mi hanno fatto sempre piangere!”». Dalla metà degli anni Novanta per quasi vent’anni non ha più prodotto e ha ripreso con l’esordio alla regia di Riccardo Rossi La prima volta (di mia figlia). Come mai le è tornata la voglia di produrre?«Ci siamo associati con la società di Matteo Rovere, la Ascent Film. Era l’occasione per lavorare con un giovane produttore, in grande ascesa anche come regista. Mi piaceva come la pensava. Siamo sempre andati alla ricerca di giovani. Quando negli anni Ottanta abbia cominciato a fare un certo tipo di commedia, come Sapore di mare, volevamo lanciare una generazione di giovani registi e abbiamo chiamato Carlo Vanzina, Marco Risi e Enrico Oldoini. Poi quei giovani sono diventati anziani! Adesso spero di poter fare una serie televisiva e di produrla con mio nipote, Marco De Micheli, che ha una società, la Demba Group. Mi piace lavorare con i giovani».Durante la pandemia ha prodotto un altro debutto eccellente, Lockdown all’italiana di Enrico Vanzina.«Enrico mi ha chiamato: “Non si può uscire di casa, allora mi sono messo a scrivere una storia. Vogliamo farla?”. I nostri film sono spesso nati così, in un clima amichevole. Molte cose si discutevano a tavola al ristorante Celestina, come per Caro papà. Mi ricordo che Dino Risi commentò una notizia del telegiornale del giorno prima su un omicidio ad opera delle Brigate Rosse e nacque il progetto di un film su un padre e un figlio divisi dalla situazione politica».Quindi lei, come produttore, si è sempre sentito partecipe anche dal punto di vista creativo?«Si parlava assieme. L’idea non era solo di uno, era condivisa da tanti. E si sbagliava pure! Per Vogliamo i colonnelli ho letto un libriccino e ho detto ad Age e Scarpelli: “Leggete questa storia” A loro è piaciuta, ma non per le stesse ragioni che mi avevano colpito. Gli interessava il contesto politico del tentativo di golpe, io invece vedevo il lato comico della vicenda con questo gruppo di persone che si fermavano in casale a causa di un temporale e si mettevano a mangiare, un po’ come accadeva ne L’armata Brancaleone, sempre di Mario Monicelli».A lei di fare politica attraverso il cinema non è mai interessato?«No, sono due cose diverse».Interveniva anche su soggetti originali?«Io e Pio Angeletti facevamo osservazioni da spettatori: ”Ci piacerebbe così...”, non parlavamo da autori. Adesso è cambiato il modo di fare i film. Un attore appena ha successo diventa come minimo regista, poi sceneggiatore, produttore, montatore, musicista, praticamente si fa tutto da solo! Una volta ognuno aveva il suo ruolo: c’erano i produttori, i registi, gli sceneggiatori e ci si confrontava». Consiglierebbe a un giovane di fare il produttore in questo contesto?«Sì, tanto non è più un produttore, è un esecutivo, come un direttore della fotografia, uno scenografo, un regista o un sceneggiatore. Oggi con le piattaforme che finanziano i film e intervengono su ogni decisione qual è il ruolo del produttore? È un imprenditore? Incontrando un collega produttore alla Casa del Cinema due-tre mesi fa, gli ho chiesto: “Non fai più film?”. “Ma chi te lo ha detto che non faccio più film? Faccio un film a settimana... le partite di calcio sono film! E le vendo in tutto il mondo!”».Forse bisognerebbe trovare un altro nome per definire gli attuali produttori. L’ultima generazione di produttori è la vostra.«Il produttore oggi confeziona un film e poi stringe un accordo con una piattaforma, Amazon, Netflix, Paramount+, loro acquistano tutti i diritti e a lui non rimane nulla. Quando la piattaforma entra nel pacchetto, inizia a discutere non solo dei ruoli principali, ma anche dei secondari e persino dei nomi del cast tecnico. È cambiata la figura del produttore. Quanto meno bisogna togliere la parola cinematografico. Chi produce sono le piattaforme. Però così il produttore ha il vantaggio, rispetto al passato, di rischiare pochissimo».Nella sua carriera ha rischiato economicamente, facendo un passo più grande delle vostre possibilità, o non è mai capitato?«Siamo stati fortunati perché i primi film sono andati subito bene. Per Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) di Ettore Scola, uno dei nostri primi film, la Titanus ha preso i diritti per l’Italia, il resto del mondo è rimasto a noi perché era una commedia e non si sapeva che esito avrebbe avuto al botteghino. È andato al Festival di Cannes, ha vinto la Palma d’oro per la migliore interpretazione maschile di Marcello Mastroianni, la Warner Bros. si è innamorata del progetto e lo ha comprato per 900.000 dollari. Noi ci siamo trovati con tutti quei soldi e abbiamo capito che si potevano fare film che interessavano all’Italia, ma che avevano un valore anche all’estero. Da quel momento abbiamo fatto molti film in coproduzione, soprattutto con la Francia».Grazie a questa spinta iniziale, avete investito gli utili per produrre nuovi film?«Esatto. Allora i film italiani avevano mercato fuori dall’Italia e venivano frazionato come una torta. Noi solitamente tenevano i diritti per l’Italia, la Francia e la Spagna. Per Profumo di donna abbiamo ceduto il diritto di remake. In un primo tempo Scent of a Woman doveva interpretarlo Jack Nicholson e noi avevamo tenuto i diritti per l’Italia e la Francia, poi è subentrato Al Pacino e ci hanno lasciato solo l’Italia. Ma grazie anche all’Oscar vinto da Pacino è stato un grandissimo successo».La Dean Film è una delle poche case di produzione che ha mantenuto i diritti dei suoi film, la cosiddetta library.«Ora abbiamo concesso lo sfruttamento per tre anni a Leone Film Group solo per l’Italia, mentre abbiamo tenuto i diritti per il resto del mondo. I nostri classici continuano ad avere richieste».Da quali paesi?«Stati Uniti, Canada, Giappone, Francia, Germania. Dieci-dodici titoli vanno ancora benissimo, sia per il mercato televisivo che per l’home video. All’estero i dvd e soprattutto i blu-ray continuano ad essere venduti».Molti produttori negli anni Settanta e Ottanta cedettero i diritti a Berlusconi, mangiandosi poi le mani.«Al valore dei film non credeva nessuno. Berlusconi fu lungimirante».Venne anche da voi a chiedere di vendergli la library?«Come no, ci invitò anche ad Arcore. Lo ha fatto con tutti, non solo con noi».Voi però non avete ceduto...«Ma perché non abbiamo mai avuto bisogno, ci accontentavamo di poco e non ci siamo fatti allettare dalle cifre offerte. Negli ultimi venticinque anni la gestione della library è diventata l’attività principale della Dean Film. Abbiamo ceduto a Mediaset i diritti per i passaggi televisivi di molti film. Per esempio, Il commissario Lo Gatto di Dino Risi, con Lino Banfi, viene trasmesso in continuazione».Come avete vissuto l’avvento delle tv private?«All’inizio le consideravamo inferiori, invece poi le cose sono cambiate. La televisione è più importante del cinema adesso».Non l’avevate previsto?«No, almeno noi. Chi aveva capito il valore della televisione è stato Riccardo Tozzi, che dalla Sacis passò a Mediaset, prima di aprire la società di produzione Cattleya. Più che la concorrenza della televisione noi abbiamo pagato la mancanza di registi. Con la fine artistica di Risi e Scola, con i quali abbiamo fatto decine di film, ci siamo trovati spiazzati. Senza registi non si fa niente. Abbiamo proposto a Pupi Avati di dirigere un film dall’ultima sceneggiatura di Scola, ma lui mi ha risposto: “Preferisco scrivere storie mie”. Ora i registi non vogliono fare i film di altri. Non ho rimpianti per il passato, ma preferisco aver vissuto quella stagione del cinema italiano».