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2019-06-28
Banda di politici e medici tortura i bimbi per levarli alle famiglie e darli alle Onlus
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Le assistenti sociali accusavano i genitori di essere pedofili e di aver abusato e violentato i propri figli e, con questa scusa, portavano via i bambini affidandoli alle cure di una Onlus che, su di loro, aveva costruito un enorme giro d'affari. I piccoli venivano sottoposti per anni a terapie psicologiche per traumi mai subiti, pagate con fondi pubblici, l'organizzazione intascava denaro per seguire da vicino i ragazzi, per formare operatori specializzati e addirittura per garantire ai piccoli strappati alle loro famiglie una finta assistenza a livello legale.
Diciotto persone, tra cui il sindaco pd di Bibbiano, Andrea Carletti, ma anche politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti, psicologi e psicoterapeuti sono stati stati arrestati dai carabinieri di Reggio Emilia nell'inchiesta denominata Angeli e demoni. Sei si trovano ai domiciliari, tra cui il sindaco, e per gli altri è scattata l'interdizione all'esercizio delle attività professionali. La banda, con un perfetto connubio pubblico privato, aveva costruito un sistema d'affari che utilizzava fondi pubblici. Un sistema nel quale mangiavano tutti, accusati ora a vario titolo di frode processuale, depistaggio, abuso d'ufficio, maltrattamenti su minori, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d'uso. E soprattutto di lesioni gravissime ai danni dei minori, ai quali hanno provocato danni irreversibili tanto che molti manifestano, a distanza di anni, profondi segni di disagio.
Siamo in provincia di Reggio Emilia, nell'Unione dei Comuni della Val d'Enza. Qui leader nel campo dell'assistenza all'infanzia è una nota Onlus di Torino, la Hansel e Gretel: da anni gestisce diversi aspetti dell'assistenza su mandato dei Servizi sociali che attingono a fondi pubblici. Alla fine dell'estate del 2018 i carabinieri del posto registrano un fenomeno particolare. Notano l'anomala escalation di denunce da parte dei Servizi sociali per «abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori». Le relazioni delle assistenti e degli psicologi dipingono mamma e papà come orchi, ma le accuse puntualmente non trovano riscontro nelle indagini.
Forse anche grazie alla eco ancora viva dell'inchiesta giornalistica Veleno, che ha trattato un caso simile nella bassa modenese, partono le indagini e quello che scoprono gli inquirenti è quasi surreale. Dichiarazioni manipolate disegni innocenti a cui venivano aggiunti dettagli a carattere sessuale per far pensare ad un abuso e descrizioni false di abitazioni fatiscenti, utilizzate come motivi per strappare i bambini alle famiglie più fragili. «Questi erano solo alcuni dei metodi adottati per allontanare i bambini, anche in tenera età, dai genitori, per poi mantenerli in affido e sottoporli ad un circuito di cure private a pagamento, tutte affidate alla stessa Onlus», spiegano i carabinieri nella nota ufficiale. «Un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano gli indagati, anche attraverso finanziamenti regionali, grazie ai quali venivano organizzati numerosi corsi di formazione e convegni gestiti dalla stessa Onlus».
Complici erano anche molte delle famiglie affidatarie. Tra le coppie scelte c'erano «amici e conoscenti dei responsabili della Onlus» ma anche «titolari di sexy shop, persone con problemi psichici e con figli suicidi», e secondo gli inquirenti, in almeno due casi i bambini sono stati abusati sessualmente nelle famiglie affidatarie o in comunità.
Il metodo era rodato: al bambino veniva diagnosticata una patologia post traumatica, in nome della quale il piccolo veniva preso in carico dalla Onlus, che si garantiva così diverse entrate. Per esempio per le terapie: gli affidatari dei piccoli venivano incaricati dai Servizi sociali di accompagnare i bambini alle sedute private di psicoterapia e di pagare a proprio nome. Mensilmente però «ricevevano rimborsi pubblici con una causale diversa falsando così i bilanci dei Comuni coinvolti». I dipendenti pubblici, a loro volta, erano legati a doppio filo ai responsabili della Hansel e Gretel: «La onlus diveniva affidataria dell'intero servizio di psicoterapia affidato dall'ente pubblico e dei relativi convegni e corsi di formazione e, in cambio, alcuni dipendenti ottenevano incarichi di docenza ben retribuiti».
Il sistema era così consolidato che ha portato all'apertura di un Centro specialistico regionale, per il trattamento del trauma infantile da abusi sessuali, all'interno del quale veniva garantita l'assistenza legale ai minori da parte di un avvocato, anch'egli indagato.
Elettroshock, torture e storiacce per far rivivere l’orrore ai bimbi
Gli psicologi e gli operatori si travestivano da personaggi cattivi delle fiabe per spaventare i bambini fingendo di essere mamma e papà intenzionati a far loro del male. Li riempivano di elettrodi e li attaccavano ad una macchina che sarebbe dovuta servire a leggere nel pensiero e, dopo la seduta, raccontavano, anche ai più piccoli, le cose orribili, viste nella loro mente. Falsificavano le relazioni e i disegni per simulare la presenza di abusi sessuali mai avvenuti e isolavano completamente i bimbi, parlando male dei genitori e nascondendo, sistematicamente, doni e lettere che questi inviavano cercando di comunicare con i loro piccini.
Bambole, pupazzetti e centinaia di lettere sono state trovate dai carabinieri abbandonate in un magazzino utilizzato dalla Onlus Hansel e Gretel. È stato un piano crudele, preciso e dettagliato quello messo in atto dalla banda di politici, professionisti ed educatori arrestati ieri in provincia di Reggio Emilia, ai danni di tanti minori strappati, negli anni, alle famiglie fragili e affidati ad una organizzazione senza fini di lucro che, invece, aveva come solo obiettivo quello di fare soldi. La condizione necessaria per avviare il business era convincere tutti che i bambini soffrissero di una patologia post traumatica da abuso. In questo modo non solo sarebbero stati dati in affido, ma su di loro sarebbe stato avviato quel percorso di cure tanto remunerativo a cui miravano i protagonisti.
Per farli risultare sofferenti psicologi e operatori creavano falsi ricordi nella mente dei piccoli, con trattamenti ai limiti della tortura, millantando poteri paranormali e impressionando con la paura quelle menti delicate, rese ancora più fragili dalla lontananza di mamma e papà. Dalle indagini dei carabinieri «sono emerse ore ed ore di sedute di terapia sui bambini, con l'utilizzo di apparecchiature elettriche spacciate come strumenti in grado di garantire la gestione della mente e il recupero dei ricordi». Ai bimbi veniva riferito che era «assolutamente necessario far riemergere le brutte cose commesse dai genitori» e le forzature avvenivano soprattutto nelle ore precedenti agli appuntamenti con i giudici necessari per convalidare o meno l'allontanamento dalla famiglia.
«La terapeuta non risparmiava ai minori i dettagli dei propri fantasiosi racconti spacciandoli come il contenuto da lei letto nella mente dei piccoli», hanno spiegato i carabinieri «e durante le sedute le terapeute spiegavano ai bambini che ogni loro comportamento era legato alle traumatiche esperienze vissute in passato». Le vittime individuate dall'inchiesta sono decine e porrebbero essere molte di più visto che, da anni i Servizi sociali del reggiano, erano gestiti dalle medesime figure e con le medesime modalità. Oggi la gran parte di quei bambini sono adolescenti segnati in modo irreversibile dal loro vissuto: molti soffrono di gravi disagi psicologici che li hanno portati, in più casi, a fare uso di droghe e a compiere gesti di grave autolesionismo. I metodi utilizzati per plagiare la mente dei piccoli in questa terribile vicenda, sono del tutto simili a quelle utilizzate nel caso dei «Davoli della bassa modenese», una operazione nata da un'inchiesta per presunta pedofilia che, tra il 1997 e il 1998, portò all'allontanamento da parte dei servizi sociali di 16 bambini dalle loro famiglie.
Grazie all'inchiesta giornalistica Veleno è emerso che anche il quel caso si trattava di un sistema per molti aspetti affaristico. Molti dei genitori, coinvolti da innocenti, non hanno più rivisto i loro figli e alcuni si sono suicidati.
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Reggio Emilia, tra i 18 arrestati anche il sindaco pd di Bibbiano. Il traffico coinvolgeva politici, medici, giudici e assistenti sociali.Per avviare il business bisognava convincere tutti che esisteva una patologia da abuso.Lo speciale contiene due articoliLe assistenti sociali accusavano i genitori di essere pedofili e di aver abusato e violentato i propri figli e, con questa scusa, portavano via i bambini affidandoli alle cure di una Onlus che, su di loro, aveva costruito un enorme giro d'affari. I piccoli venivano sottoposti per anni a terapie psicologiche per traumi mai subiti, pagate con fondi pubblici, l'organizzazione intascava denaro per seguire da vicino i ragazzi, per formare operatori specializzati e addirittura per garantire ai piccoli strappati alle loro famiglie una finta assistenza a livello legale. Diciotto persone, tra cui il sindaco pd di Bibbiano, Andrea Carletti, ma anche politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti, psicologi e psicoterapeuti sono stati stati arrestati dai carabinieri di Reggio Emilia nell'inchiesta denominata Angeli e demoni. Sei si trovano ai domiciliari, tra cui il sindaco, e per gli altri è scattata l'interdizione all'esercizio delle attività professionali. La banda, con un perfetto connubio pubblico privato, aveva costruito un sistema d'affari che utilizzava fondi pubblici. Un sistema nel quale mangiavano tutti, accusati ora a vario titolo di frode processuale, depistaggio, abuso d'ufficio, maltrattamenti su minori, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d'uso. E soprattutto di lesioni gravissime ai danni dei minori, ai quali hanno provocato danni irreversibili tanto che molti manifestano, a distanza di anni, profondi segni di disagio. Siamo in provincia di Reggio Emilia, nell'Unione dei Comuni della Val d'Enza. Qui leader nel campo dell'assistenza all'infanzia è una nota Onlus di Torino, la Hansel e Gretel: da anni gestisce diversi aspetti dell'assistenza su mandato dei Servizi sociali che attingono a fondi pubblici. Alla fine dell'estate del 2018 i carabinieri del posto registrano un fenomeno particolare. Notano l'anomala escalation di denunce da parte dei Servizi sociali per «abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori». Le relazioni delle assistenti e degli psicologi dipingono mamma e papà come orchi, ma le accuse puntualmente non trovano riscontro nelle indagini. Forse anche grazie alla eco ancora viva dell'inchiesta giornalistica Veleno, che ha trattato un caso simile nella bassa modenese, partono le indagini e quello che scoprono gli inquirenti è quasi surreale. Dichiarazioni manipolate disegni innocenti a cui venivano aggiunti dettagli a carattere sessuale per far pensare ad un abuso e descrizioni false di abitazioni fatiscenti, utilizzate come motivi per strappare i bambini alle famiglie più fragili. «Questi erano solo alcuni dei metodi adottati per allontanare i bambini, anche in tenera età, dai genitori, per poi mantenerli in affido e sottoporli ad un circuito di cure private a pagamento, tutte affidate alla stessa Onlus», spiegano i carabinieri nella nota ufficiale. «Un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano gli indagati, anche attraverso finanziamenti regionali, grazie ai quali venivano organizzati numerosi corsi di formazione e convegni gestiti dalla stessa Onlus». Complici erano anche molte delle famiglie affidatarie. Tra le coppie scelte c'erano «amici e conoscenti dei responsabili della Onlus» ma anche «titolari di sexy shop, persone con problemi psichici e con figli suicidi», e secondo gli inquirenti, in almeno due casi i bambini sono stati abusati sessualmente nelle famiglie affidatarie o in comunità. Il metodo era rodato: al bambino veniva diagnosticata una patologia post traumatica, in nome della quale il piccolo veniva preso in carico dalla Onlus, che si garantiva così diverse entrate. Per esempio per le terapie: gli affidatari dei piccoli venivano incaricati dai Servizi sociali di accompagnare i bambini alle sedute private di psicoterapia e di pagare a proprio nome. Mensilmente però «ricevevano rimborsi pubblici con una causale diversa falsando così i bilanci dei Comuni coinvolti». I dipendenti pubblici, a loro volta, erano legati a doppio filo ai responsabili della Hansel e Gretel: «La onlus diveniva affidataria dell'intero servizio di psicoterapia affidato dall'ente pubblico e dei relativi convegni e corsi di formazione e, in cambio, alcuni dipendenti ottenevano incarichi di docenza ben retribuiti». Il sistema era così consolidato che ha portato all'apertura di un Centro specialistico regionale, per il trattamento del trauma infantile da abusi sessuali, all'interno del quale veniva garantita l'assistenza legale ai minori da parte di un avvocato, anch'egli indagato. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/accusavano-i-genitori-di-essere-pedofili-per-portar-via-i-figli-e-far-soldi-con-laffido-2639006782.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="elettroshock-torture-e-storiacce-per-far-rivivere-lorrore-ai-bimbi" data-post-id="2639006782" data-published-at="1765316048" data-use-pagination="False"> Elettroshock, torture e storiacce per far rivivere l’orrore ai bimbi Gli psicologi e gli operatori si travestivano da personaggi cattivi delle fiabe per spaventare i bambini fingendo di essere mamma e papà intenzionati a far loro del male. Li riempivano di elettrodi e li attaccavano ad una macchina che sarebbe dovuta servire a leggere nel pensiero e, dopo la seduta, raccontavano, anche ai più piccoli, le cose orribili, viste nella loro mente. Falsificavano le relazioni e i disegni per simulare la presenza di abusi sessuali mai avvenuti e isolavano completamente i bimbi, parlando male dei genitori e nascondendo, sistematicamente, doni e lettere che questi inviavano cercando di comunicare con i loro piccini. Bambole, pupazzetti e centinaia di lettere sono state trovate dai carabinieri abbandonate in un magazzino utilizzato dalla Onlus Hansel e Gretel. È stato un piano crudele, preciso e dettagliato quello messo in atto dalla banda di politici, professionisti ed educatori arrestati ieri in provincia di Reggio Emilia, ai danni di tanti minori strappati, negli anni, alle famiglie fragili e affidati ad una organizzazione senza fini di lucro che, invece, aveva come solo obiettivo quello di fare soldi. La condizione necessaria per avviare il business era convincere tutti che i bambini soffrissero di una patologia post traumatica da abuso. In questo modo non solo sarebbero stati dati in affido, ma su di loro sarebbe stato avviato quel percorso di cure tanto remunerativo a cui miravano i protagonisti. Per farli risultare sofferenti psicologi e operatori creavano falsi ricordi nella mente dei piccoli, con trattamenti ai limiti della tortura, millantando poteri paranormali e impressionando con la paura quelle menti delicate, rese ancora più fragili dalla lontananza di mamma e papà. Dalle indagini dei carabinieri «sono emerse ore ed ore di sedute di terapia sui bambini, con l'utilizzo di apparecchiature elettriche spacciate come strumenti in grado di garantire la gestione della mente e il recupero dei ricordi». Ai bimbi veniva riferito che era «assolutamente necessario far riemergere le brutte cose commesse dai genitori» e le forzature avvenivano soprattutto nelle ore precedenti agli appuntamenti con i giudici necessari per convalidare o meno l'allontanamento dalla famiglia. «La terapeuta non risparmiava ai minori i dettagli dei propri fantasiosi racconti spacciandoli come il contenuto da lei letto nella mente dei piccoli», hanno spiegato i carabinieri «e durante le sedute le terapeute spiegavano ai bambini che ogni loro comportamento era legato alle traumatiche esperienze vissute in passato». Le vittime individuate dall'inchiesta sono decine e porrebbero essere molte di più visto che, da anni i Servizi sociali del reggiano, erano gestiti dalle medesime figure e con le medesime modalità. Oggi la gran parte di quei bambini sono adolescenti segnati in modo irreversibile dal loro vissuto: molti soffrono di gravi disagi psicologici che li hanno portati, in più casi, a fare uso di droghe e a compiere gesti di grave autolesionismo. I metodi utilizzati per plagiare la mente dei piccoli in questa terribile vicenda, sono del tutto simili a quelle utilizzate nel caso dei «Davoli della bassa modenese», una operazione nata da un'inchiesta per presunta pedofilia che, tra il 1997 e il 1998, portò all'allontanamento da parte dei servizi sociali di 16 bambini dalle loro famiglie. Grazie all'inchiesta giornalistica Veleno è emerso che anche il quel caso si trattava di un sistema per molti aspetti affaristico. Molti dei genitori, coinvolti da innocenti, non hanno più rivisto i loro figli e alcuni si sono suicidati.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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