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2021-05-18
Ritorna l’accoppiata Vialli-Mancini nel libro sull’ultimo miracolo del pallone
Roberto Mancini e Gianluca Vialli (Getty Images)
I corsi e i ricorsi della Storia sono qualcosa da prendere molto sul serio, e non solo perché lo sosteneva Giovambattista Vico. Prendiamo una data come il 5 maggio. Fatale per Napoleone Bonaparte, fatale per l'Inter nel 2002 quando perse uno scudetto, fondamentale per il destino della Sampdoria 30 anni fa, nel 1991, quando al Meazza, proprio contro i nerazzurri, disputò la partita perfetta che diede il senso a una cavalcata per il titolo capace di riempire l'immaginario collettivo di aneddoti, pionierismo, suggestioni, 2-0 per i doriani, con Gianluca Vialli che batte l'amico Walter Zenga mantenendo la promessa fattagli durante un allenamento con la Nazionale: «Quando vengo a San Siro, ti segno un gol». Il grande calcio è qualcosa di irrazionale che solo a posteriori, quando i giochi sono fatti e i premi vengono assegnati, può essere spiegato. Ma mai fino in fondo. La bella stagione (Mondadori), scritto dai gemelli del gol Vialli e Roberto Mancini, a cura di Domenico Baccalario, col supporto giornalistico di Stefano Prosperi e la partecipazione di tutti i compagni di squadra blucerchiati che lo scudetto dell'annata 1990/91 lo conquistarono, riesce a farlo perché racconta un'impresa rimasta leggendaria con le voci di chi, all'epoca, non era ancora consapevole di «poter trasformare l'impossibile nel possibile, innescando uno tsunami». Sono passati 30 anni da allora. Oggi Mancini siede sulla panchina della Nazionale e ha appena annunciato il rinnovo del contratto che lo legherà agli azzurri fino al 2026, Vialli vive a Londra, è sposato e ha due figlie. Entrambi sono concordi nell'indicare quello scudetto di 30 anni fa come lo spartiacque della loro consapevolezza. «Eravamo degli outsider, la città di Genova, con la sua atmosfera, ci convinse a sposare il progetto Sampdoria, sono belle le storie di calcio vincenti quando hanno protagoniste squadre come il Leicester, l'Atalanta, la nostra squadra di quella stagione», ripetono all'unisono. In verità quella Samp non fu proprio una sorpresa. La squadra era un bilanciato mix di campioni e di gregari capaci di tirare la cinghia. C'era Gianluca Pagliuca tra i pali, che proprio nella sfida decisiva contro l'Inter ipnotizzò il tedesco terribile Lothar Matthäus dal dischetto, negandogli per la prima volta una rete su rigore. C'era Pietro Vierchowod, sangue russo nelle vene e concretezza laghee di chi è cresciuto sul Lario, uno dei marcatori più tosti e arcigni di tutti i tempi, il migliore nel suo ruolo, se non fossero esistiti due colleghi chiamati Franco Baresi e Paolo Maldini. Beppe Dossena sulle fasce, il metronomo brasiliano dall'anagrafe incerta Tonino Cerezo, Beppe Dossena e il tricologicamente irrisolto - oggetto di battute spassose nello spogliatoio - Attilio Lombardo. E poi il capitano Luca Pellegrini, il ragioniere Fausto Pari, Oleksij Mychajlyčenko, l'operaio del centrocampo Giovanni Invernizzi, Marco Branca, Ivano Bonetti, Moreno Mannini. Dirigeva l'orchestra Vujadin Boskov, più che un allenatore, una sorta di profeta Tiresia destinato a coniare aforismi validi ancora oggi. Serbo pragmatico, poliglotta, alle tattiche sofisticate preferiva la battuta sferzante che nei momenti difficili stemperava la tensione: «Calcio è gioco semplice, perché si gioca in 11 contro 11, ma quasi sempre si decide in duelli uno contro uno. Y alora, se su 10 dvelli in mezzo al campo tu vinci quattro, allora probabilmente perdi. Se vinci cinque o sei, alora almeno pareggi. Se vinci sette, o otto, vittoria è sicura», ripeteva ai suoi. Sopra di lui, il mecenate Paolo Mantovani, che incarnava a tutti gli effetti il ruolo del presidente-papà, custode di un focolare familiare, al riparo dalle insidie dei procuratori. «Vuoi venire a trattare il rinnovo di contratto con il tuo manager? Allora non mi faccio trovare, manderò il mio avvocato», \disse un giorno a Pellegrini. La schiatta dei Mino Raiola era ancora da venire. Così come la Superlega, i super ingaggi, il calcio elevato a sulfureo business globale. Non che quel periodo fosse l'età dell'oro strapaesana del si stava meglio quando si stava peggio, del pallone senza peccato. Anzi. Ma c'è, tra i segreti della conquista di quel titolo, il romantico cliché chiamato «attaccamento alla maglia», e non solo come figura retorica. Un esempio su tutti: Vierchowod corteggiato dalla Juventus va a cena con Luca Cordero di Montezemolo, allora plenipotenziario nella dirigenza bianconera, si bagna le labbra con lusinghe innaffiate a champagne, poi però sceglie di rimanere a Genova perché ha promesso ai compagni di vincere con loro qualcosa di importante. Promessa mantenuta. Funestati dagli infortuni, ma compattati da confronti serrati nello spogliatoio, goliardate fuori dal campo, complicità cameratesca, la squadra di Boskov arrivò prima in Serie A e in finale di Coppa Italia, davanti al Milan di Sacchi e dei tre olandesi, all'Inter di Trapattoni e dei tre tedeschi, al Napoli di Maradona, alla Juve di Roby Baggio. Con quel pizzico di irrazionalità tipico di ogni impresa memorabile.
Stipendi dei calciatori troppo alti. La Lega aspetta ma serve un tetto
Compromesso sugli stipendi dei calciatori raggiunto da Gabriele Gravina, presidente della Figc. Le richieste della Lega di Serie A per il rinvio del pagamento degli emolumenti e l'opposizione di Assocalciatori si sono incontrate a metà strada: viene posticipata al mese di giugno la verifica per i club di A dell'erogazione delle spettanze di marzo, operazione che comunque deve essere portata a termine per garantire l'iscrizione delle squadre al prossimo campionato.
Inizialmente le richieste della Lega di A prevedevano il rinvio degli ultimi quattro stipendi da marzo a giugno, spalmandoli fino a dicembre, ma la proposta avrebbe violato il principio di mettersi in regola prima dell'iscrizione alla nuova stagione agonistica. Ancora da sciogliere il nodo sul tetto di spesa per i club, norma ribattezzata «Riduci debiti». La strada è però stata tracciata: è stato approvato il principio «Che impone il blocco della campagna trasferimenti per i club di A e B se superano il costo complessivo del monte contrattuale determinato dai contratti pluriennali in essere per la stagione sportiva 2021-2022».
In parole povere, deve essere mantenuto da ciascuna società il monte ingaggi della stagione precedente, a meno di non coprirsi le spalle con una garanzia fideiussoria. Se il limite venisse varcato, non sarebbe possibile spendere per il calciomercato successivo. Si tratta di un primo passo per impedire alle squadre di indebitarsi ulteriormente. A breve nascerà inoltre un tavolo tecnico con Lega Serie A, Lega B, Lega Pro, Aic e Aiac «per agevolare un confronto anche con alcuni rappresentanti dei club al fine di approfondire le soluzioni più urgenti e favorire le condizioni ideali affinché il sistema torni in sicurezza». Tema assai caldo soprattutto sul fronte Inter, con la proprietà cinese di Suning impegnata in un significativo ridimensionamento delle spese e con la richiesta nei confronti dei giocatori di una riduzione del 20% dell'ingaggio. Le notizie si intrecciano con una vicenda di costume che riguarda il campione della Juventus Cristiano Ronaldo. Un video diffuso online ritrae il personale di una ditta di trasporto di Lisbona - la Rodo Cargo - impegnato a caricare alcune auto di lusso di CR7 dalla sua casa di Torino. Potrebbe trattarsi di un normale trasloco. Ma i maligni sostengono possa anche trattarsi del primo passo per salutare definitivamente la Serie A, accasandosi altrove, magari laddove possano garantirgli il suo contratto faraonico. All'indomani della sconfitta della Juve contro il Milan, Ronaldo era stato peraltro avvistato a Maranello assieme a John Elkann e Andrea Agnelli: il cinque volte Pallone d'Oro ha acquistato una Ferrari Monza, il bolide più potente della casa del Cavallino, dal costo di 1,6 milioni di euro.
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I due ex attaccanti della Samp rievocano lo scudetto del 1991 «Allora contava la maglia». E il Mancio rinnova con l'Italia.Stipendi dei calciatori troppo alti: rinviato a giugno il pagamento delle mensilità di marzo (CR7 intanto sposta le auto).Lo speciale contiene due articoli. I corsi e i ricorsi della Storia sono qualcosa da prendere molto sul serio, e non solo perché lo sosteneva Giovambattista Vico. Prendiamo una data come il 5 maggio. Fatale per Napoleone Bonaparte, fatale per l'Inter nel 2002 quando perse uno scudetto, fondamentale per il destino della Sampdoria 30 anni fa, nel 1991, quando al Meazza, proprio contro i nerazzurri, disputò la partita perfetta che diede il senso a una cavalcata per il titolo capace di riempire l'immaginario collettivo di aneddoti, pionierismo, suggestioni, 2-0 per i doriani, con Gianluca Vialli che batte l'amico Walter Zenga mantenendo la promessa fattagli durante un allenamento con la Nazionale: «Quando vengo a San Siro, ti segno un gol». Il grande calcio è qualcosa di irrazionale che solo a posteriori, quando i giochi sono fatti e i premi vengono assegnati, può essere spiegato. Ma mai fino in fondo. La bella stagione (Mondadori), scritto dai gemelli del gol Vialli e Roberto Mancini, a cura di Domenico Baccalario, col supporto giornalistico di Stefano Prosperi e la partecipazione di tutti i compagni di squadra blucerchiati che lo scudetto dell'annata 1990/91 lo conquistarono, riesce a farlo perché racconta un'impresa rimasta leggendaria con le voci di chi, all'epoca, non era ancora consapevole di «poter trasformare l'impossibile nel possibile, innescando uno tsunami». Sono passati 30 anni da allora. Oggi Mancini siede sulla panchina della Nazionale e ha appena annunciato il rinnovo del contratto che lo legherà agli azzurri fino al 2026, Vialli vive a Londra, è sposato e ha due figlie. Entrambi sono concordi nell'indicare quello scudetto di 30 anni fa come lo spartiacque della loro consapevolezza. «Eravamo degli outsider, la città di Genova, con la sua atmosfera, ci convinse a sposare il progetto Sampdoria, sono belle le storie di calcio vincenti quando hanno protagoniste squadre come il Leicester, l'Atalanta, la nostra squadra di quella stagione», ripetono all'unisono. In verità quella Samp non fu proprio una sorpresa. La squadra era un bilanciato mix di campioni e di gregari capaci di tirare la cinghia. C'era Gianluca Pagliuca tra i pali, che proprio nella sfida decisiva contro l'Inter ipnotizzò il tedesco terribile Lothar Matthäus dal dischetto, negandogli per la prima volta una rete su rigore. C'era Pietro Vierchowod, sangue russo nelle vene e concretezza laghee di chi è cresciuto sul Lario, uno dei marcatori più tosti e arcigni di tutti i tempi, il migliore nel suo ruolo, se non fossero esistiti due colleghi chiamati Franco Baresi e Paolo Maldini. Beppe Dossena sulle fasce, il metronomo brasiliano dall'anagrafe incerta Tonino Cerezo, Beppe Dossena e il tricologicamente irrisolto - oggetto di battute spassose nello spogliatoio - Attilio Lombardo. E poi il capitano Luca Pellegrini, il ragioniere Fausto Pari, Oleksij Mychajlyčenko, l'operaio del centrocampo Giovanni Invernizzi, Marco Branca, Ivano Bonetti, Moreno Mannini. Dirigeva l'orchestra Vujadin Boskov, più che un allenatore, una sorta di profeta Tiresia destinato a coniare aforismi validi ancora oggi. Serbo pragmatico, poliglotta, alle tattiche sofisticate preferiva la battuta sferzante che nei momenti difficili stemperava la tensione: «Calcio è gioco semplice, perché si gioca in 11 contro 11, ma quasi sempre si decide in duelli uno contro uno. Y alora, se su 10 dvelli in mezzo al campo tu vinci quattro, allora probabilmente perdi. Se vinci cinque o sei, alora almeno pareggi. Se vinci sette, o otto, vittoria è sicura», ripeteva ai suoi. Sopra di lui, il mecenate Paolo Mantovani, che incarnava a tutti gli effetti il ruolo del presidente-papà, custode di un focolare familiare, al riparo dalle insidie dei procuratori. «Vuoi venire a trattare il rinnovo di contratto con il tuo manager? Allora non mi faccio trovare, manderò il mio avvocato», \disse un giorno a Pellegrini. La schiatta dei Mino Raiola era ancora da venire. Così come la Superlega, i super ingaggi, il calcio elevato a sulfureo business globale. Non che quel periodo fosse l'età dell'oro strapaesana del si stava meglio quando si stava peggio, del pallone senza peccato. Anzi. Ma c'è, tra i segreti della conquista di quel titolo, il romantico cliché chiamato «attaccamento alla maglia», e non solo come figura retorica. Un esempio su tutti: Vierchowod corteggiato dalla Juventus va a cena con Luca Cordero di Montezemolo, allora plenipotenziario nella dirigenza bianconera, si bagna le labbra con lusinghe innaffiate a champagne, poi però sceglie di rimanere a Genova perché ha promesso ai compagni di vincere con loro qualcosa di importante. Promessa mantenuta. Funestati dagli infortuni, ma compattati da confronti serrati nello spogliatoio, goliardate fuori dal campo, complicità cameratesca, la squadra di Boskov arrivò prima in Serie A e in finale di Coppa Italia, davanti al Milan di Sacchi e dei tre olandesi, all'Inter di Trapattoni e dei tre tedeschi, al Napoli di Maradona, alla Juve di Roby Baggio. 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Le richieste della Lega di Serie A per il rinvio del pagamento degli emolumenti e l'opposizione di Assocalciatori si sono incontrate a metà strada: viene posticipata al mese di giugno la verifica per i club di A dell'erogazione delle spettanze di marzo, operazione che comunque deve essere portata a termine per garantire l'iscrizione delle squadre al prossimo campionato. Inizialmente le richieste della Lega di A prevedevano il rinvio degli ultimi quattro stipendi da marzo a giugno, spalmandoli fino a dicembre, ma la proposta avrebbe violato il principio di mettersi in regola prima dell'iscrizione alla nuova stagione agonistica. Ancora da sciogliere il nodo sul tetto di spesa per i club, norma ribattezzata «Riduci debiti». La strada è però stata tracciata: è stato approvato il principio «Che impone il blocco della campagna trasferimenti per i club di A e B se superano il costo complessivo del monte contrattuale determinato dai contratti pluriennali in essere per la stagione sportiva 2021-2022». In parole povere, deve essere mantenuto da ciascuna società il monte ingaggi della stagione precedente, a meno di non coprirsi le spalle con una garanzia fideiussoria. Se il limite venisse varcato, non sarebbe possibile spendere per il calciomercato successivo. Si tratta di un primo passo per impedire alle squadre di indebitarsi ulteriormente. A breve nascerà inoltre un tavolo tecnico con Lega Serie A, Lega B, Lega Pro, Aic e Aiac «per agevolare un confronto anche con alcuni rappresentanti dei club al fine di approfondire le soluzioni più urgenti e favorire le condizioni ideali affinché il sistema torni in sicurezza». Tema assai caldo soprattutto sul fronte Inter, con la proprietà cinese di Suning impegnata in un significativo ridimensionamento delle spese e con la richiesta nei confronti dei giocatori di una riduzione del 20% dell'ingaggio. Le notizie si intrecciano con una vicenda di costume che riguarda il campione della Juventus Cristiano Ronaldo. Un video diffuso online ritrae il personale di una ditta di trasporto di Lisbona - la Rodo Cargo - impegnato a caricare alcune auto di lusso di CR7 dalla sua casa di Torino. Potrebbe trattarsi di un normale trasloco. Ma i maligni sostengono possa anche trattarsi del primo passo per salutare definitivamente la Serie A, accasandosi altrove, magari laddove possano garantirgli il suo contratto faraonico. All'indomani della sconfitta della Juve contro il Milan, Ronaldo era stato peraltro avvistato a Maranello assieme a John Elkann e Andrea Agnelli: il cinque volte Pallone d'Oro ha acquistato una Ferrari Monza, il bolide più potente della casa del Cavallino, dal costo di 1,6 milioni di euro.
Mohamed Shahin (Ansa)
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
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Lasciando perdere il periodo della pandemia, credo che sia sufficiente prendere i dati economici conseguiti dal nostro Paese. Secondo le previsioni, l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, cioè di una populista in camicia nera, avrebbe contribuito a scassare i conti pubblici e a farci perdere quel briciolo di rispetto che era stato conquistato con Mario Draghi alla guida del governo. Invece niente di tutto questo è accaduto. In tre anni sono stati smantellati il reddito di cittadinanza e il Superbonus, dando garanzia ai mercati sul contenimento del deficit sotto il 3 per cento. I poveri non sono aumentati, come invece sosteneva l’opposizione e prima ancora qualche professore. Né sono crollate le imprese edili. I salari sono saliti e, anche se non hanno recuperato il gap degli anni precedenti, quanto meno sono stati al passo con l’inflazione dell’ultimo triennio. Quanto all’occupazione il saldo è positivo, come da tempo non si vedeva. Per non parlare poi dei dazi, di cui la sinistra unita ai suoi trombettieri quotidiani attribuiva la responsabilità indiretta all’attuale maggioranza, giudicata troppo trumpiana. Nonostante l’aumento delle tariffe, l’export delle nostre imprese verso gli Stati Uniti è andato addirittura meglio che in passato.
I centri per il trattenimento e il rimpatrio in Albania, tanto criticati dai compagni e dalla stampa e osteggiati in ogni modo dalla magistratura, dopo oltre un anno di pregiudizi ora sono ritenuti una soluzione possibile se non auspicabile addirittura dal Consiglio d’Europa.
Ma il meglio la classe politica e quella giornalistica l’hanno dato con la guerra in Ucraina. Per anni ci sono state raccontate un cumulo di fesserie, sia sull’efficacia delle sanzioni messe in campo contro la Russia (ricordate la famosa atomica finanziaria, ossia l’esclusione della banche russe dal circuito delle transazioni internazionali, che avrebbe dovuto mettere Putin con le spalle al muro in un amen?) sia sugli armamenti decisivi del conflitto che America ed Europa avrebbero potuto mettere a disposizione di Kiev. Per non dire poi delle iniziative Ue, con i volenterosi a spacciare patacche per soluzioni. Anche in questo caso l’Italia era descritta come una Cenerentola, tenuta ai margini delle iniziative concordate da quei due fulmini di guerra di Keir Starmer e Emmanuel Macron: fosse per loro, e per i giornalisti che gli hanno dato credito, la tregua forse si raggiungerebbe nel secolo prossimo venturo. Tralascio quelli che spingevano per il riconoscimento della Palestina, invitando a seguire l’esempio di Francia e Spagna: come si è visto, le varie dichiarazioni non sono servite a nulla e l’unica speranza per Gaza era e resta il piano di Trump.
Che dire? Se i giornaloni volessero riconoscere di aver scritto una montagna di sciocchezze andremmo avanti per settimane. Ma state tranquilli, nemmeno questa volta ammetteranno gli errori. Sono giornalisti con l’eskimo, mica cretini.
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Roberto Gualtieri (Ansa)
Già da circa un anno il deflusso dei visitatori è contingentato, con un tetto massimo di 400 persone che possono sostare nell’area. Ma dal nuovo anno la novità sembrerebbe essere tutta nelle code: due corsie separate, una per i romani e l’altra per i turisti che dovranno pagare il ticket.
La scelta, voluta dall’assessore al Turismo e grandi eventi Alessandro Onorato e condivisa dall’amministrazione comunale guidata dal sindaco Roberto Gualtieri, va nella direzione di salvaguardare la fontana più grande di Roma, capolavoro tardo-barocco di Nicola Salvi. I numeri, del resto, parlano chiaro: soltanto nei primi sei mesi di quest’anno la Fontana di Trevi ha registrato oltre 5,3 milioni di visitatori, più di quanti ne ha totalizzati il Pantheon nell’intero 2024 (4.086.947 ingressi).
Ma la decisione sembrerebbe non essere ancora ufficiale. «Si tratta solo di una ipotesi di lavoro», precisa il Campidoglio in una nota, «su cui l’amministrazione capitolina, come è noto, sta ragionando da tempo. Tuttavia, ad oggi, non sono state decise date, né sono state prese decisioni in merito».
Nonostante questo, già insorgono voci contro il ticket per i turisti. «Siamo da sempre contrari alla monetizzazione di monumenti, piazze, fontane e siti di interesse storico e culturale, e crediamo che istituire biglietti di ingresso a pagamento sia un danno per i turisti», tuona il Codacons, «i soldi raccolti non vengono utilizzati per migliorare i servizi all’utenza ma solo per coprire i buchi di bilancio». L’associazione dei consumatori, pur opponendosi al ticket, sostiene gli ingressi contingentati.
Ancora più duro il vicepresidente del Senato e responsabile Turismo della Lega, Gian Marco Centinaio: «Il Comune di Roma non può impedire la libera circolazione dei turisti su uno spazio pubblico. È come fare uscire Fontana di Trevi dall’Unione europea». Secondo Centinaio, «Gualtieri e Onorato vogliono solo fare cassa a scapito di chi viene a visitare la Capitale».
Che ci sia bisogno di una regolamentazione dei flussi turistici per evitare sovraffollamenti è fuori discussione. Ma la sensazione è che l’amministrazione capitolina, dopo aver incassato per anni le monetine che i turisti lanciano nella fontana (tradizione che vale circa 1,5 milioni di euro annui devoluti alla Caritas), ora voglia tassare anche l’ingresso.
Se l’ipotesi diventasse realtà, il turista del futuro pagherebbe 2 euro per entrare, poi lancerebbe la sua monetina per tornare a Roma, spendendo di fatto 3 euro per un solo desiderio. Una sorta di tassa anticipata sul gesto più iconico della Capitale. Del resto, perché aspettare che i visitatori lancino spontaneamente le monete quando si potrebbe riscuotere subito alla porta? L’amministrazione Gualtieri avrebbe semplicemente tagliato i tempi: il Comune incasserebbe prima, la Caritas dopo. Il turista, nel frattempo, girerebbe le spalle alla fontana e lancerebbe la sua moneta, ignaro di averla già praticamente pagata al botteghino. Magari con carta di credito e scontrino fiscale. La leggenda dice che chi lancia una moneta nella Fontana di Trevi tornerà a Roma. E probabilmente è vero: per vedere cos’altro sia diventato a pagamento nel frattempo.
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Keir Starmer (Ansa)
Le roboanti promesse di porre un argine all’illegalità diffusa, ovviamente, sono rimaste lettera morta. Eppure, non tutto è perduto. Per dare un segnale forte ai cittadini, l’esecutivo laburista ha avuto un’idea geniale: elaborare una nuova definizione di «odio anti musulmano». Pochi giorni dopo l’efferata strage di matrice islamista a Sydney, infatti, la Bbc ha reso noto che il lungo lavoro del ministero per le Comunità e gli enti locali ha partorito una bozza quasi ufficiale. Stando al documento, divulgato in anteprima dall’emittente britannica, ecco la nuova definizione di islamofobia: «L’ostilità anti musulmana è il compimento o l’incitamento ad atti criminali, compresi atti di violenza, vandalismo contro la proprietà, molestie e intimidazioni - fisiche, verbali, scritte o veicolate elettronicamente - dirette contro i musulmani o contro persone percepite come musulmane a causa della loro religione, etnia o aspetto». In tale fattispecie, «rientrano inoltre l’uso di stereotipi pregiudiziali e la “razzializzazione” dei musulmani come gruppo collettivo dotato di caratteristiche prefissate».
Effettivamente, si fa fatica a prendere sul serio un documento del genere: per esempio, che vorrà mai dire «persone percepite come musulmane»? Mistero della fede progressista. Eppure, la gestazione di questa perla di vacuità dialettica ha tenuto impegnata un’intera commissione per la bellezza di quasi un anno: il gruppo di lavoro era stato istituito lo scorso febbraio, con a capo l’ex procuratore generale Dominic Grieve, e i suoi risultati erano stati presentati all’esecutivo in ottobre.
Tra i passaggi più controversi - e futili - c’è anche il riferimento al concetto di «razzializzazione», ennesimo neologismo cacofonico che tanto piace ai sacerdoti del politicamente corretto. Per difendere la scelta, è scesa in campo Shaista Gohir in persona, baronessa di origine pachistana e membro di punta della commissione. Stando alla pasionaria islamica, che siede nella Camera dei Lord, «questa definizione riconosce anche che i musulmani sono spesso presi di mira non solo per le loro convinzioni religiose, ma anche per l’aspetto, la razza, l’etnia o altre caratteristiche», ha spiegato. «L’inclusione del concetto di razzializzazione dà riconoscimento a queste esperienze vissute».
Chiacchiere a parte, occorre specificare che questa definizione di «odio anti musulmano» non avrà valore normativo: non sarà cioè né sancita per legge né giuridicamente vincolante, ma offrirà una formulazione di riferimento che gli enti pubblici potranno adottare. Eppure, è proprio qui che sta la fregatura. Non a caso, contro quest’obbrobrio politicamente corretto si è scagliata con forza la Free speech union, autorevole organizzazione britannica nata nel 2020 per tutelare la libertà d’espressione dai deliri dei questurini progressisti: «Questa definizione è superflua, perché è già un reato incitare all’odio religioso ed è già illegale per datori di lavoro o fornitori di servizi discriminare le persone sulla base della loro religione o delle loro convinzioni», ha tuonato il fondatore e presidente dell’associazione, il lord conservatore Toby Young. «Concedere ai musulmani tutele aggiuntive non estese ad altri», ha aggiunto, «avrà l’effetto di aumentare l’ostilità anti musulmana, anziché ridurla». In effetti, di fronte al fallimento del multiculturalismo reale, i laburisti rispondono con il multiculturalismo lessicale. Non potendo controllare le strade, tentano di controllare il linguaggio. Con il risultato paradossale di rendere ancor più fragile la libertà di parola e ancor più esplosivo il conflitto che fingono di voler disinnescare.
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