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2025-01-04
Acciaio e dazi, la Germania annaspa di brutto
Olaf Scholz e Donald Trump (Ansa)
È una delle ultime mosse di Joe Biden prima di lasciare l’ufficio ovale ed è anche una decisione condivisa dal suo successore, Donald Trump: la Casa Bianca ha bloccato l’acquisizione di US Steel da parte della giapponese Nippon Steel che avrebbe messo in pericolo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. «Come ha stabilito un comitato di esperti di sicurezza nazionale e commercio in tutto il ramo esecutivo, questa acquisizione porrebbe uno dei maggiori produttori di acciaio americani sotto controllo straniero e creerebbe rischi per la nostra sicurezza nazionale e le nostre catene di fornitura critiche», ha spiegato Biden in una nota. Aggiungendo che è sua «solenne responsabilità come presidente garantire che, ora e a lungo nel futuro, l’America abbia una forte industria siderurgica nazionale di proprietà e gestione che possa continuare ad alimentare le nostre fonti di forza nazionali in patria e all’estero; ed è un adempimento di tale responsabilità bloccare la proprietà straniera di questa vitale azienda americana. Quindi, US Steel rimarrà una fiera azienda americana, di proprietà americana, gestita da americani, da lavoratori sindacalizzati americani, la migliore al mondo». Anche Trump, si era detto «totalmente contrario» all’operazione annunciata nel dicembre 2023. Nelle scorse settimane, secondo la ricostruzione del Financial Times, il presidente eletto aveva minacciato di annullare l’accordo e aveva promesso di proteggere l’azienda di Pittsburgh con un mix di tariffe e incentivi fiscali.
L’acquisto, del valore di oltre 14 miliardi di dollari, è stato fatto saltare dopo mesi di pressing anche da parte del potente sindacato dei metalmeccanici Usw che ieri ha brindato. Pesante, invece, la reazione in Borsa, con US Steel che affonda di quasi l’8% nel pre-mercato a Wall Street. Lo stop segna, inoltre, una battuta d’arresto nelle relazioni di Washington con il suo più stretto alleato nell’Asia-Pacifico da considerare anche in chiave anti cinese, sebbene la possibilità di un’azienda quasi decotta come US Steel di competere con Pechino da sola fosse vicina a zero. Nell’ultimo anno le trattative per l’acquisto, poi bloccato, hanno comunque indotto la società giapponese a ridurre i rapporti in Cina come leva. Non è chiaro adesso quali saranno le sorti del produttore americano. In precedenza, le due società si erano dette pronte a intentare un’azione legale contro un eventuale veto da parte di Biden. In alternativa, US Steel potrebbe dover riavviare il processo di vendita e potrebbe avere difficoltà a trovare un acquirente per l’intera azienda, mentre Nippon Steel dovrà cercare altre fonti di crescita.
Sembra, intanto, aver prevalso lo spostamento verso il protezionismo, il sostegno ai sindacati e il sentimento «America first» nella politica statunitense. Il tema interessa chiaramente anche l’Europa dove, tra l’altro, nel 2026 entrerà in vigore il cosiddetto Cbam (Carbon Border Adjustment Mechanism), ovvero il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere introdotto dall’Unione Europea per tassare le importazioni di beni provenienti da paesi extra-Ue con regolamentazioni climatiche meno rigorose. Nuove norme che impatteranno anche su acciaio e alluminio e che ci penalizzano. Un’evoluzione sulle tasse sulla Co2 decisa da Bruxelles che creerà forti frizioni con Washington che non condivide il modello impostato dagli euroburocrati. I rapporti diventeranno, quindi, più complicati proprio quando non abbiamo gli strumenti necessari per diventare un terzo polo autonomo e resistente.
E a proposito di Europa, a poche settimane dal voto in Germania il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha scritto alla connazionale Ursula von der Leyen per chiedere una spinta maggiore della Commissione sul fronte della competitività e del supporto all’industria automobilistica. In sette pagine di considerazioni, rivelate dal sito milanofinanza.it, il capo dimissionario del governo di Berlino esprime tutte le sue preoccupazioni sulla competitività dell’Ue e della Germania stessa, piegata dalla concorrenza globale e in particolar modo da quella cinese nelle auto e chiede alla presidente della Commissione iniziative specifiche e un vertice sull’industria dell’acciaio, oltre a un rinnovato impegno sul fronte della storica alleanza franco-tedesca. Nel lungo documento inviato a Von der Leyen, Scholz mette in evidenza che è fondamentale sostenere i settori ad alta intensità energetica a causa della concorrenza internazionale (e la vendita dell’acciaio cinese a prezzi più bassi di quello europeo è un tema rilevante in Ue). A tutela dell’industria siderurgica, alla base della Difesa, il cancelliere uscente chiede inoltre alla Commissione Ue un summit europeo sull’acciaio all’inizio del 2025. Nella lettera sottolinea che «ciò di cui c’è urgente bisogno ora è di un’opera congiunta a livello europeo». Viene poi richiamata l’urgenza di ridurre la burocrazia sulle spalle delle imprese europee (obblighi di rendicontazione) soprattutto in materia di direttiva sulla sostenibilità, tassonomia Ue e direttiva europea sulle catene di fornitura. Solo gli standard previsti dalla direttiva sulla sostenibilità «richiedono più di 1.000 potenziali dati» da fornire.
Berlino già trema per i dazi di Trump: patto di libero scambio con gli Usa
La Germania si prepara all’era di Donald Trump. Il presidente eletto non ha ancora messo piede alla Casa Bianca e già si assiste ad una corsa a prendere posizione, prima che questi possa assumere qualunque decisione concreta. Stiamo parlando in questo caso dell’intervista rilasciata da Freidrich Merz alla Deutschen Presse-Agentur, agenzia di stampa tedesca. Riportata da tutti i principali quotidiani tedeschi e dal Financial Times, l’intervista al candidato alla cancelliera della Cdu è ricca di spunti interessanti.
«Abbiamo bisogno di un’agenda positiva con gli Stati Uniti che avvantaggi equamente i consumatori americani ed europei», ha affermato il leader del grande partito conservatore tedesco. «Una nuova iniziativa euro-americana per il libero scambio congiunto potrebbe prevenire una pericolosa spirale tariffaria», ha aggiunto. Merz parla di «nuova» iniziativa euro-americana per il libero scambio in riferimento al vecchio trattato Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), la cui negoziazione fu sospesa proprio da Trump durante il suo primo mandato, nel 2017. Il TTIP, contestatissimo anche in Europa, è rimasto nel congelatore e nessuno da allora ne ha più parlato. Ma ora il cancelliere tedesco in pectore rispolvera la questione e propone di avviare subito negoziati, così da evitare di essere oggetto delle tasse doganali statunitensi, puntando magari ad un possibile grace period. Berlino cerca di muoversi in anticipo cercando un accordo con Washington, ma non è detto che Trump sia disponibile ad un accordo senza prima avere effettivamente applicato i dazi almeno per un certo periodo.
Il timore tedesco di dazi robusti sull’export è infatti più che fondato, considerato che Trump ha minacciato più volte l’Europa di dazi altissimi, tesi a riequilibrare la bilancia commerciale che vede gli Usa in deficit significativo. Nel 2024 il surplus commerciale dell’Ue nei confronti degli Stati Uniti dovrebbe raggiungere i 190 miliardi di euro.
La Germania, assieme alla Cina, è in cima alla lista dei possibili destinatari dei provvedimenti americani. Peraltro, Trump ha parlato di dazi molto alti anche alle importazioni dal Messico, dove le case automobilistiche tedesche hanno grandi fabbriche da cui esportano verso gli Usa circa 300.000 veicoli all’anno. Secondo uno studio di IW, l’Istituto economico tedesco di Colonia, il mandato presidenziale di Trump con dazi applicati potrebbe costare alla Germania fino a 180 miliardi di euro.
Ecco perché Merz punta ad un accordo preventivo con gli Stati Uniti che limiti o elimini il rischio di dazi sulle esportazioni tedesche.
Nell’intervista, Merz ha dichiarato di attendersi condizioni difficili per le aziende tedesche negli Stati Uniti con Trump in carica. Ma il leader dalla Cdu non è favorevole a contro-dazi: «La nostra risposta a ciò non dovrebbe essere quella di iniziare con le nostre tariffe doganali», ha detto. L’Ue dovrebbe invece concentrarsi sull’aumento della sua competitività e poi dire agli americani: «Sì, siamo pronti ad affrontare anche questa concorrenza con voi. La risposta giusta è reagire con innovazione e buoni prodotti».
Secondo Merz, Donald Trump intende offrire alle aziende tedesche la possibilità di trasferire la propria sede negli Stati Uniti e produrre localmente. Un’offerta a base di sussidi e condizioni fiscali agevolate. Per evitare ciò, è la proposta della Cdu, è necessario che in Germania vengano abbassate le tasse sulle società, dal 30% al 25%. Nel suo programma elettorale, la Cdu propone inoltre di abbassare i costi non salariali del lavoro (ciò che noi chiamiamo cuneo fiscale), considerato che in Germania il costo del lavoro è di 41,3 euro per ora lavorata, un euro meno della Francia. Da quest’anno la percentuale dei costi non salariali medi del lavoro in Germania è salita dal 40,9% al 42,3%, il valore più alto nella storia della Repubblica federale, secondo quanto pubblicato ieri dal Augsburger Allgemeine. Risultato dell’aumento contributivo imposto dal governo-semaforo guidato dal socialdemocratico Olaf Scholz.
Quando si tratta di costi salariali aggiuntivi, la Germania è troppo cara, dice Merz: «Questo non può essere risolto a livello europeo, dobbiamo farlo a livello nazionale». La Cdu propone anche il dimezzamento dei costi di trasporto dell’energia elettrica per le aziende e tagli alla burocrazia.
La crisi della manifattura tedesca sarebbe certamente peggiorata dalla prospettiva dei dazi americani. Con una lettera alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, Scholz ha intanto chiesto a Bruxelles misure urgenti per sostenere l’industria europea (vedi pezzo in pagina). Merz avverte nell’intervista: «Dobbiamo stare molto attenti che la qualità della localizzazione dell’Europa e della Germania non subisca ulteriori arretramenti».
La Cdu è accreditata nei sondaggi di un 30% delle preferenze elettorali e dopo le elezioni del 23 febbraio prossimo è molto probabile che Friedrich Merz sarà il nuovo cancelliere. Ma nelle intenzioni di voto a livello nazionale l’Alternative für Deutschland è il secondo partito al 19% e rischia di guastare la festa a chi immagina una riedizione della Große Koalition tra Cdu e SPD. Trump non è ancora nell’Ufficio ovale ma già fa tremare l’Europa dalle fondamenta.
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Joe Biden al tramonto copia Donald Trump e blocca la vendita in Giappone di US Steel. Il cancelliere Olaf Scholz scrive a Bruxelles: vertice sul comparto.Freidrich Merz, il principale candidato al governo tedesco, vuole evitare una pericolosa spirale tariffaria: subito negoziati con gli Stati Uniti. Il timore è che le gabelle del tycoon costino 180 miliardi alla Germania.Lo speciale contiene due articoli.È una delle ultime mosse di Joe Biden prima di lasciare l’ufficio ovale ed è anche una decisione condivisa dal suo successore, Donald Trump: la Casa Bianca ha bloccato l’acquisizione di US Steel da parte della giapponese Nippon Steel che avrebbe messo in pericolo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. «Come ha stabilito un comitato di esperti di sicurezza nazionale e commercio in tutto il ramo esecutivo, questa acquisizione porrebbe uno dei maggiori produttori di acciaio americani sotto controllo straniero e creerebbe rischi per la nostra sicurezza nazionale e le nostre catene di fornitura critiche», ha spiegato Biden in una nota. Aggiungendo che è sua «solenne responsabilità come presidente garantire che, ora e a lungo nel futuro, l’America abbia una forte industria siderurgica nazionale di proprietà e gestione che possa continuare ad alimentare le nostre fonti di forza nazionali in patria e all’estero; ed è un adempimento di tale responsabilità bloccare la proprietà straniera di questa vitale azienda americana. Quindi, US Steel rimarrà una fiera azienda americana, di proprietà americana, gestita da americani, da lavoratori sindacalizzati americani, la migliore al mondo». Anche Trump, si era detto «totalmente contrario» all’operazione annunciata nel dicembre 2023. Nelle scorse settimane, secondo la ricostruzione del Financial Times, il presidente eletto aveva minacciato di annullare l’accordo e aveva promesso di proteggere l’azienda di Pittsburgh con un mix di tariffe e incentivi fiscali.L’acquisto, del valore di oltre 14 miliardi di dollari, è stato fatto saltare dopo mesi di pressing anche da parte del potente sindacato dei metalmeccanici Usw che ieri ha brindato. Pesante, invece, la reazione in Borsa, con US Steel che affonda di quasi l’8% nel pre-mercato a Wall Street. Lo stop segna, inoltre, una battuta d’arresto nelle relazioni di Washington con il suo più stretto alleato nell’Asia-Pacifico da considerare anche in chiave anti cinese, sebbene la possibilità di un’azienda quasi decotta come US Steel di competere con Pechino da sola fosse vicina a zero. Nell’ultimo anno le trattative per l’acquisto, poi bloccato, hanno comunque indotto la società giapponese a ridurre i rapporti in Cina come leva. Non è chiaro adesso quali saranno le sorti del produttore americano. In precedenza, le due società si erano dette pronte a intentare un’azione legale contro un eventuale veto da parte di Biden. In alternativa, US Steel potrebbe dover riavviare il processo di vendita e potrebbe avere difficoltà a trovare un acquirente per l’intera azienda, mentre Nippon Steel dovrà cercare altre fonti di crescita. Sembra, intanto, aver prevalso lo spostamento verso il protezionismo, il sostegno ai sindacati e il sentimento «America first» nella politica statunitense. Il tema interessa chiaramente anche l’Europa dove, tra l’altro, nel 2026 entrerà in vigore il cosiddetto Cbam (Carbon Border Adjustment Mechanism), ovvero il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere introdotto dall’Unione Europea per tassare le importazioni di beni provenienti da paesi extra-Ue con regolamentazioni climatiche meno rigorose. Nuove norme che impatteranno anche su acciaio e alluminio e che ci penalizzano. Un’evoluzione sulle tasse sulla Co2 decisa da Bruxelles che creerà forti frizioni con Washington che non condivide il modello impostato dagli euroburocrati. I rapporti diventeranno, quindi, più complicati proprio quando non abbiamo gli strumenti necessari per diventare un terzo polo autonomo e resistente. E a proposito di Europa, a poche settimane dal voto in Germania il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha scritto alla connazionale Ursula von der Leyen per chiedere una spinta maggiore della Commissione sul fronte della competitività e del supporto all’industria automobilistica. In sette pagine di considerazioni, rivelate dal sito milanofinanza.it, il capo dimissionario del governo di Berlino esprime tutte le sue preoccupazioni sulla competitività dell’Ue e della Germania stessa, piegata dalla concorrenza globale e in particolar modo da quella cinese nelle auto e chiede alla presidente della Commissione iniziative specifiche e un vertice sull’industria dell’acciaio, oltre a un rinnovato impegno sul fronte della storica alleanza franco-tedesca. Nel lungo documento inviato a Von der Leyen, Scholz mette in evidenza che è fondamentale sostenere i settori ad alta intensità energetica a causa della concorrenza internazionale (e la vendita dell’acciaio cinese a prezzi più bassi di quello europeo è un tema rilevante in Ue). A tutela dell’industria siderurgica, alla base della Difesa, il cancelliere uscente chiede inoltre alla Commissione Ue un summit europeo sull’acciaio all’inizio del 2025. Nella lettera sottolinea che «ciò di cui c’è urgente bisogno ora è di un’opera congiunta a livello europeo». Viene poi richiamata l’urgenza di ridurre la burocrazia sulle spalle delle imprese europee (obblighi di rendicontazione) soprattutto in materia di direttiva sulla sostenibilità, tassonomia Ue e direttiva europea sulle catene di fornitura. Solo gli standard previsti dalla direttiva sulla sostenibilità «richiedono più di 1.000 potenziali dati» da fornire.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/acciaio-dazi-germania-annaspa-2670736877.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="berlino-gia-trema-per-i-dazi-di-trump-patto-di-libero-scambio-con-gli-usa" data-post-id="2670736877" data-published-at="1735945454" data-use-pagination="False"> Berlino già trema per i dazi di Trump: patto di libero scambio con gli Usa La Germania si prepara all’era di Donald Trump. Il presidente eletto non ha ancora messo piede alla Casa Bianca e già si assiste ad una corsa a prendere posizione, prima che questi possa assumere qualunque decisione concreta. Stiamo parlando in questo caso dell’intervista rilasciata da Freidrich Merz alla Deutschen Presse-Agentur, agenzia di stampa tedesca. Riportata da tutti i principali quotidiani tedeschi e dal Financial Times, l’intervista al candidato alla cancelliera della Cdu è ricca di spunti interessanti. «Abbiamo bisogno di un’agenda positiva con gli Stati Uniti che avvantaggi equamente i consumatori americani ed europei», ha affermato il leader del grande partito conservatore tedesco. «Una nuova iniziativa euro-americana per il libero scambio congiunto potrebbe prevenire una pericolosa spirale tariffaria», ha aggiunto. Merz parla di «nuova» iniziativa euro-americana per il libero scambio in riferimento al vecchio trattato Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), la cui negoziazione fu sospesa proprio da Trump durante il suo primo mandato, nel 2017. Il TTIP, contestatissimo anche in Europa, è rimasto nel congelatore e nessuno da allora ne ha più parlato. Ma ora il cancelliere tedesco in pectore rispolvera la questione e propone di avviare subito negoziati, così da evitare di essere oggetto delle tasse doganali statunitensi, puntando magari ad un possibile grace period. Berlino cerca di muoversi in anticipo cercando un accordo con Washington, ma non è detto che Trump sia disponibile ad un accordo senza prima avere effettivamente applicato i dazi almeno per un certo periodo. Il timore tedesco di dazi robusti sull’export è infatti più che fondato, considerato che Trump ha minacciato più volte l’Europa di dazi altissimi, tesi a riequilibrare la bilancia commerciale che vede gli Usa in deficit significativo. Nel 2024 il surplus commerciale dell’Ue nei confronti degli Stati Uniti dovrebbe raggiungere i 190 miliardi di euro. La Germania, assieme alla Cina, è in cima alla lista dei possibili destinatari dei provvedimenti americani. Peraltro, Trump ha parlato di dazi molto alti anche alle importazioni dal Messico, dove le case automobilistiche tedesche hanno grandi fabbriche da cui esportano verso gli Usa circa 300.000 veicoli all’anno. Secondo uno studio di IW, l’Istituto economico tedesco di Colonia, il mandato presidenziale di Trump con dazi applicati potrebbe costare alla Germania fino a 180 miliardi di euro. Ecco perché Merz punta ad un accordo preventivo con gli Stati Uniti che limiti o elimini il rischio di dazi sulle esportazioni tedesche. Nell’intervista, Merz ha dichiarato di attendersi condizioni difficili per le aziende tedesche negli Stati Uniti con Trump in carica. Ma il leader dalla Cdu non è favorevole a contro-dazi: «La nostra risposta a ciò non dovrebbe essere quella di iniziare con le nostre tariffe doganali», ha detto. L’Ue dovrebbe invece concentrarsi sull’aumento della sua competitività e poi dire agli americani: «Sì, siamo pronti ad affrontare anche questa concorrenza con voi. La risposta giusta è reagire con innovazione e buoni prodotti». Secondo Merz, Donald Trump intende offrire alle aziende tedesche la possibilità di trasferire la propria sede negli Stati Uniti e produrre localmente. Un’offerta a base di sussidi e condizioni fiscali agevolate. Per evitare ciò, è la proposta della Cdu, è necessario che in Germania vengano abbassate le tasse sulle società, dal 30% al 25%. Nel suo programma elettorale, la Cdu propone inoltre di abbassare i costi non salariali del lavoro (ciò che noi chiamiamo cuneo fiscale), considerato che in Germania il costo del lavoro è di 41,3 euro per ora lavorata, un euro meno della Francia. Da quest’anno la percentuale dei costi non salariali medi del lavoro in Germania è salita dal 40,9% al 42,3%, il valore più alto nella storia della Repubblica federale, secondo quanto pubblicato ieri dal Augsburger Allgemeine. Risultato dell’aumento contributivo imposto dal governo-semaforo guidato dal socialdemocratico Olaf Scholz. Quando si tratta di costi salariali aggiuntivi, la Germania è troppo cara, dice Merz: «Questo non può essere risolto a livello europeo, dobbiamo farlo a livello nazionale». La Cdu propone anche il dimezzamento dei costi di trasporto dell’energia elettrica per le aziende e tagli alla burocrazia. La crisi della manifattura tedesca sarebbe certamente peggiorata dalla prospettiva dei dazi americani. Con una lettera alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, Scholz ha intanto chiesto a Bruxelles misure urgenti per sostenere l’industria europea (vedi pezzo in pagina). Merz avverte nell’intervista: «Dobbiamo stare molto attenti che la qualità della localizzazione dell’Europa e della Germania non subisca ulteriori arretramenti». La Cdu è accreditata nei sondaggi di un 30% delle preferenze elettorali e dopo le elezioni del 23 febbraio prossimo è molto probabile che Friedrich Merz sarà il nuovo cancelliere. Ma nelle intenzioni di voto a livello nazionale l’Alternative für Deutschland è il secondo partito al 19% e rischia di guastare la festa a chi immagina una riedizione della Große Koalition tra Cdu e SPD. Trump non è ancora nell’Ufficio ovale ma già fa tremare l’Europa dalle fondamenta.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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