2024-05-06
Sei aborti su dieci potevano essere evitati
Le ricerche dimostrano che nella maggior parte dei casi interrompere la gravidanza non è una scelta libera: spesso le donne cercano aiuto ma non lo trovano. L’attivista pro vita: «Troppi pregiudizi su noi volontari».Sono la riproposizione delle antiche «ruote degli esposti» e permettono di consegnare il proprio bambino anonimamente. In media così vengono salvati due piccoli ogni anno.Lo speciale contiene due articoli.Giù le mani della 194! È lo straziante grido che, da giorni, accomuna giornalisti, intellettuali e politici progressisti, tutti allarmati per l’emendamento al testo sul Pnrr presentato da Lorenzo Malagola di Fratelli d'Italia; una misura sull’accesso nei consultori delle associazioni attive «nel sostegno alla maternità» spacciata come un nullaosta a task force antiabortiste impazienti di torchiare le gestanti. Peccato che della presenza nei consultori «di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile» parlasse già 46 anni fa - quando cioè il temibile Malagola manco era nato - proprio l’articolo 2 della 194. Una legge quindi più difesa che letta eppure, viene ripetuto, costantemente minacciata.Parola di Sabina Guzzanti che, intervenendo a Propaganda Live, è stata chiara: «Stanno attaccando la legge sull’aborto». «Se io ho potuto fare la vita che ho scelto», ha poi aggiunto, «è perché a 18 anni ho potuto abortire». Sulla stessa lunghezza d’onda si è espressa la giornalista Simonetta Sciandivasci la quale, sulle colonne della Stampa del 24 aprile, ha raccontato il suo «aborto vissuto senza dolore e con inevitabile incertezza. Come ogni fatto della vita, un po’ scelto e un po’ capitato». Il 1° maggio su Repubblica Luigi Manconi ha invece denunciato «la “filosofia morale” del governo delle destre», impegnate in «una persistente concezione di Stato etico» volta, verso chi abortisce, all’«induzione di un senso di colpa ancora più afflittivo».Ora, pur nel rispetto d’ogni opinione e sensibilità, c’è una domanda che pare nessuno dei difensori della 194 si voglia porre, e cioè: offrire alle donne un’alternativa all’aborto minaccia davvero le loro libertà? Non sarà invece che l’aborto, più che decisione libera, è spesso una scelta assai condizionata dalle circostanze? Per provare a vederci chiaro, bisogna guardare ciò che dice non la teoria, bensì l’esperienza come rilevata dalla letteratura scientifica internazionale, frutto spesso e volentieri - lo premettiamo prima che si accusi chi scrive di essere un maschio bianco etero che ficca il naso in cose altrui - del lavoro di studiose donne. Le ricerche da richiamare sarebbero molte, vediamone alcune.Un’indagine pubblicata nel 2023 su Cureus, e realizzata da David Reardon, Katherine Rafferty e Tessa Longbons esaminando il vissuto di 226 donne statunitensi reduci da un aborto, ha tracciato un quadro assai distante da quello dell’esercizio d’un diritto di libertà. Si è difatti visto come solo il 33% delle gestanti abbia vissuto l’aborto come effettivamente desiderato, con il 43% che lo considerava lontano dai propri valori e il 24% che dichiara l’esperienza abortiva addirittura come subita o imposta. Solo il primo gruppo di donne - quello del 33% - ha quindi associato la perdita volontaria del figlio a miglioramenti della propria condizione, mentre per le restanti ciò ha determinato conseguenze negative. Altro dato assai eloquente: il 60% del campione, dunque la netta maggioranza, ha dichiarato che, se solo avesse avuto maggiori aiuti ed assistenza economica, avrebbe preferito portare a termine la gravidanza. Si sono così smentiti gli esiti d’uno studio uscito nel 2015 su PLoS One - a cura, guarda caso, del gruppo abortista Ansirh, acronimo di Advancing new standards in reproductive health - secondo cui dopo tre anni dall’intervento le donne soddisfatte del loro aborto fossero, udite udite, il 99%. Una percentuale credibile come una moneta da 3 euro, visto che spesso a portare la donna ad abortire sono fattori esterni. Si è visto perfino nei Paesi scandinavi, ritenuti un faro mondiale della parità di genere e del welfare. A tale riguardo fa testo una ricerca della dottoressa Marlene Makenzius pubblicata lo scorso anno sull’European journal of contraception & reproductive health, e condotta su oltre 600 svedesi, alle quali si sono chiesti i motivi per cui volessero abortire; curiosamente, quello della volontà di non volere figli - in una griglia di oltre 20 opzioni, con la possibilità di sceglierne più d’una - è stato indicato come motivo da appena il 4,2% del campione, mentre la causa economica è risultata la più frequente, raccogliendo ben il 27% delle indicazioni. Anche in un lavoro pubblicato nel 2017 su Contraception a firma di quattro studiose - Sophia Chae, Sheila Desai, Marjorie Crowell e Gilda Sedgh – con cui si sono esaminati ben 14 Paesi, dalla Turchia alla Russia, dal Nepal agli Usa, è risultato come le motivazioni più ricorrenti degli aborti fossero di natura socioeconomica. D’altra parte, questo è perfettamente coerente con quanto si registra pure in Italia dove, da una parte, il numero degli stranieri costituisce il 9% della popolazione mentre, dall’altra, gli aborti effettuati dalle donne straniere sono il 27% del totale. Questi dati, e quelli collegati - che certificano un tasso di abortività tra le straniere più che doppio di quello delle italiane - sono evidentemente anche il riflesso di ragioni economiche alla base della perdita volontaria di un figlio. Analogamente, negli Stati Uniti gli afroamericani non arrivano al 15% del totale, eppure gli aborti delle donne nere sono il 40% del totale. Tutto ciò, secondo la cultura dominante, deriverebbe da uno scarso accesso alla contraccezione delle fasce più povere, ma le statistiche citate raccontano un’altra storia: quella di gravidanze che le gestanti, se sostenute, avrebbero portato avanti.Eloquenti, al riguardo, le risultanze d’un lavoro del 2004 sulla rivista Medical Science Monitor dal quale è emerso come, tra le donne reduci da un aborto, il 79% abbia dichiarato di non essere stata prima informata di alternative disponibili e l’84% di non aver ricevuto un’assistenza adeguata prima dell’intervento. Dunque tutto si può dire tranne che i ripensamenti dopo un aborto siano rari, nella donna. Viceversa, molto raramente una gravidanza portata a termine nonostante le difficoltà genera rimorsi. Questo almeno indica una ricerca uscita nel 2021 su Social Science & Medicine e che non pare in odore di patriarcato e Medioevo, se non altro perché opera di cinque donne: Corinne Rocca, Heidi Moseson, Heather Gould, Diana Foster e Katrina Kimport. Con questo studio si sono sondate ripetutamente, per cinque anni, 161 donne alle quali – perché troppo avanti nella gravidanza o per i limiti della clinica cui si erano rivolte – era stato negato l’aborto. Risultato: ad una settimana dal rifiuto desiderava ancora abortire il 65% delle gestanti, percentuale crollata al 12% già dopo il parto, al 7% al primo anno del bambino e infine, dopo cinque anni, al 4%. Curiosamente, la stessa quota di donne che, nello studio svedese della Makenzius, ha dichiarato di voler abortire perché non vuole figli. Sono dati significativi.Esattamente come sono significative le evidenze già riportate, che mostrano come alle donne che vivano una gravidanza difficile o inattesa – donne spesso oggetto di pressioni familiari se giovani o, se più mature, di quelle del partner – si possano offrire alternative all’aborto. Alternative che debbono esser concrete, però. È quanto fanno i consultori italiani, che la legge 194 all’articolo 5 impegna a «rimuovere le cause» che possono portare «all’interruzione della gravidanza»? Non si direbbe. Infatti i dati dell’ultima relazione ministeriale sulla 194, relativi al 2021, dicono come, a fronte di 46.194 colloqui, siano stati rilasciati dai consultori 31.065 certificati di aborto. Parecchi. Senz’altro sufficienti per pensare che non si faccia abbastanza per aiutare la donna a «rimuovere le cause» che possano portarla a perdere suo figlio.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aborto-6-10-potevano-evitare-2668170939.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lalternativa-delle-culle-per-la-vita" data-post-id="2668170939" data-published-at="1714971715" data-use-pagination="False"> L’alternativa delle culle per la vita Per le donne che vivono una gravidanza difficile o indesiderata, non ci sono solo i consultori familiari o i Centri di aiuto alla vita. Esistono almeno altre due vie alternative all’aborto. La prima è quella del parto in anonimato, così come espressamente disciplinata dal Dpr 396 del 2000, art. 30; essa si sostanzia nella possibilità che la donna – senz’alcuna forma di riconoscimento – possa lasciare presso la struttura ospedaliera il bambino appena partorito, il quale verrà prontamente dichiarato adottabile dal tribunale dei minori; il che prelude alla sua immediata adozione, stante la grande abbondanza di potenziali genitori in lista, appunto, per un’adozione. La seconda alternativa all’aborto è quella delle culle per la vita. Ritornate in auge nei primi anni Novanta grazie in particolare all’impegno del volontario pro life Giuseppe Garrone – che nel 1992 inaugurò la prima a Casale Monferrato –, sono delle «ruote degli esposti» 2.0, strutture concepite cioè appositamente per permettere di lasciare totalmente protetti i neonati da parte delle mamme in difficoltà nel pieno rispetto sia della sicurezza del bambino sia della privacy di chi lo deposita. Seguendo il modello di quella di Casale Monferrato, le prime culle funzionanti furono poi inaugurate ad Aosta e a Treviso, per poi progressivamente diffondersi in tutta la penisola. Ha trovato così nuova vita, restando in tema, una tradizione – quella delle «ruote degli esposti» appunto – inaugurata per la prima volta presso nel 1198 all’ospedale di Santo Spirito in Sassia a Roma, dove i genitori potevano lasciare i figli senza conseguenze giuridiche. Ancora nell’Ottocento lungo la nostra penisola erano attive circa 1.200 di queste «ruote», il cui impiego divenne particolarmente intenso a seguito della Rivoluzione francese e delle campagne napoleoniche. Nel 1836, per fare un esempio, vi erano in Molise 1,58 esposti su 100 nati, mentre a Napoli città ve ne erano addirittura 9,06. Complessivamente, si stima che siano arrivate a salvare un totale di 40.000 neonati e tanti cognomi sono ancora oggi eredità di quell’esperienza, dato che erano quelli dati ai trovatelli, agli esposti: Trovato, Trovai, Esposito, degli Esposti, Proietti, Fortunato, Fortuna, Diotallevi… Le «ruote» furono chiuse nel 1923 dal fascismo – dato che non fu più possibile l’immissione anonima dei bambini ma solo, per così dire, la consegna diretta –, salvo poi essere rilanciate da Garrone 70 anni più tardi. Diversamente da quanto si potrebbe immaginare, la ricomparsa di queste culle non è stata subito ben accolta da tutti, anzi. Come ricorda nel suo libro intitolato appunto Le culle per la vita Rosa Rao Cassarà, vicepresidente del Movimento per la Vita di Palermo, ci fu infatti una vicenda – giudiziaria ma anche umana – iniziata nel 1992 e conclusasi nel 1995 con l’archiviazione da parte del Tribunale locale dell’esposto presentato da un deputato nazionale contro l’apertura del servizio, chiamato inizialmente e provocatoriamente «Cassonetto per la Vita». Dal loro ritorno ad oggi, grazie a queste moderne «ruote degli esposti», tutte attrezzate con sistemi di videosorveglianza, i neonati salvati sono stati 66. Due all’anno, in pratica. Un numero piccolo ma comunque sufficiente ad alimentare un impegno che, oltre ai volontari del Movimento per la Vita, ha in questi anni registrato anche il significativo contributo di realtà quali: Rotary, Lion’s, Inner wheel international, Soroptimist, Donne Medico, Fondazione Rava.
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