2022-02-14
Maria Elena Bottazzi: Abbiamo un vaccino che funziona bene. Non lo brevetteremo»
La ricercatrice: «Scoperto un siero efficace. Distribuito gratis, andrà nei Paesi poveri. L’Italia vorrà utilizzarlo? E chi lo sa».Voce squillante, si sente che è già operativa da un po’, anche se da lei a Houston sono le 6 del mattino. «Lavoriamo 24 ore su 7 giorni», dice sorridendo se le chiedi come sia la sua vita alla National school of tropical medicine del Baylor college. Maria Elena Bottazzi Rovida ha messo a punto un vaccino per Sars-Cov-2 chiamato in India Corbevax. Lo ha fatto con il collega professor Peter Hotez. E hanno deciso di non brevettarlo. Prima di loro solo Albert Sabin, che inventò il vaccino antipolio, aveva fatto la scelta di rifiutare una forma di copertura brevettuale, considerando la protezione dalla malattia un bene dell’umanità, non un prodotto su cui guadagnare.Ora è candidata al Nobel per la pace. Ci racconta come lo ha saputo?«È stato uno shock, ma ne siamo orgogliosi. Lizzie Fletcher, deputata della Camera dei rappresentanti del Texas, è colei che ha proposto la nostra candidatura. La mattina del 1° febbraio ci ha chiamato, prima di dare l’annuncio».Il vaccino anti Covid è uno dei vostri successi, non il primo. Con la stessa etica. «Quello che abbiamo messo a punto è il modello del nostro lavoro: sviluppiamo vaccini che nessuno vuole veramente sviluppare. Da sempre lavoriamo affinché i Paesi più poveri possano essere autosufficienti, perché possano cercare le soluzioni di cui più hanno bisogno. Se le dico “malattia di Chagas”, le dice qualcosa?».Purtroppo no.«È un’infezione trasmessa dalla puntura di cimici, e noi abbiamo messo a punto un vaccino. Così per la schistosomiasi, un’altra infezione che si acquisisce attraverso le acque contaminate. Sono malattie che la gente dei Paesi sviluppati non conosce, che tutti sembrano voler trascurare».Come è arrivata fino a qui? Qual è il suo percorso?«Sono nata a Genova e ci ho vissuto fino a 9 anni: mio padre era diplomatico in Italia. Poi mi sono trasferita in Honduras e ho compiuto i miei studi. Sono partita per gli Usa per fare il mio dottorato, e non me ne sono più andata». Secchiona da sempre?«Un po’ nerd fin da bambina, in effetti. Scienza e biologia sono ambiti che mi hanno sempre affascinato. Per arrivare fino a qui ho dovuto lavorare e studiare parecchio». L’italiano lo parla ancora bene. «La mia mamma, Gabriella Rovida, mi mandava libri e fumetti di Topolino dall’Italia, così potevo fare pratica». Dottorato a Gainesville, in Florida, poi Miami, e ha lavorato anche a Philadelphia. «Da docente, poi, anche alla George Washington university». Da quanto abita lì in Texas?«Da undici anni. Qui l’equipe del collega Peter e mia lavora con gli ospedali e l’università».Ci spiega in parole semplici cosa significa che il vostro vaccino anti Covid è senza brevetto?«Quando creiamo i processi li pubblichiamo, affinché la comunità scientifica possa vedere tutto quello che facciamo. E così inoltre il processo può essere riprodotto». Cioè tutti possono farlo?«Esatto, sì». E lei non ci guadagna? «No, il nostro guadagno è sapere che le nostre ricerche saranno utili per quelli che ne hanno bisogno».Per il Covid sembrerebbe essere andata finora diversamente.«Il vaccino che abbiamo sviluppato è un vaccino tradizionale: significa che non ha nuovissime tecnologie. E così può essere riprodotto anche in massa, dando risposta alla necessità di dosi del mondo: come minimo c’è bisogno di 9 miliardi di dosi per riuscire ad arrivare fin nei posti più remoti del pianeta». Corbevax è ora prodotto in India. «Sì, il nostro partner Biological E sta lavorando al primo ordine di 300 milioni di dosi del governo indiano. Seguirà una media di 100 milioni al mese da destinare ad altri Paesi. Indonesia, Bangladesh, e un consorzio con Paesi africani si stanno attrezzando per produrre il nostro vaccino».È un vaccino «tradizionale», cioè…«Non usa tecnologie nuove, ma processi già utilizzati per altri vaccini, come quello per l’epatite B per capirci. Abbiamo studiato la sequenza del virus e abbiamo lavorato sulla fermentazione dei lieviti. Un processo simile alla birra: si creano proteine sintetiche. In laboratorio attuiamo test di purificazione e di funzionalità. E poi trasferiamo il “know how”, fornendo una sorta di “stater kit” che è come la scatola con i pezzi del puzzle, con i reagenti. Una volta nelle mani dei produttori, il vaccino diventa loro, non è più nostro. Si chiama Corbevax in India, gli altri Paesi gli daranno un altro nome. Diventa indigeno, decolonizzato, per i Paesi che vogliono distribuirlo».Anche il vaccino di Novavax è tradizionale, giusto?«Sì, anche se è una particola di proteine e non usa la stessa nostra ricetta, è quello relativamente più simile al nostro. E ha dimostrato di essere efficace. Ma la particola è più difficile da produrre in grandi quantità».Come quelli a mRna, ad esempio. Perché il mondo è invece andato in quella direzione?«La domanda è molto interessante. Noi da 10 anni, ben prima del Covid, lavoriamo a questi prototipi di vaccini per i coronavirus, li abbiamo creati anche per Sars e Mers, funzionanti in modelli di laboratorio. Penso che il principio finora che ha governato la scelta di queste tecnologie come il mRna sia la rapidità: tutti i Paesi del mondo, Usa in primis, si sono innamorati di questa tecnologia mRna, e anche quella di vettori virali. Possono apparire come vaccini dalla rapida creazione».Ma…?«Il problema è soprattutto che non possono essere prodotti in quantità sufficienti per sopperire all’emergenza globale. Perché il Covid non lo si è riusciti a controllare, e quando è diventata una pandemia c’è chi si è dimenticato che l’interesse era aiutare in maniera equa tutto il mondo. Forse solo alla fine dello scorso anno qualcuno se ne è reso conto. In Cina hanno sviluppato questa idea dei virus inattivati, anche loro con tecnologie convenzionali, ma sembra che adesso non funzionino bene come gli altri contro le varianti». Il vostro invece sì. «Corbevax ha superato le sperimentazioni in India su più di 3.000 persone, mostrandosi efficace: assicura una protezione tra l’80 e il 90% contro i ceppi di Wuhan, Beta e Delta. Ed è duraturo più di AstraZeneca, con i quali è stato messo a confronto diretto. Ha ricevuto la prima approvazione da parte del Drugs controller general of India».Quante dosi servono?«Due dosi».E come lo si conserva?«In frigorifero, perché è un vaccino come tutti quelli che già esistono per programmi pediatrici. È molto stabile: i vaccini proteici possono essere conservati anche per anni».Come definirebbe il suo lavoro, professoressa?«La nostra è una missione altruistica. Non solo perché lavoriamo per organizzazioni senza fini di lucro, ma perché siamo abituati a mettere a punto vaccini che siano prodotti pubblici, vere soluzioni per chi li deve produrre». Pensa che le grandi case farmaceutiche con i vaccini ci abbiano guadagnato?«Che vuole che le dica: con le nuove tecnologie che sono state scelte, c’erano da recuperare i costi per gli stabilimenti, per la conversione del personale, per i componenti che sono cari. Il processo è complicato. Che poi tanti soldi siano venuti dalle tasche di chi paga i contributi, e cioè da tutti noi, è sotto gli occhi di tutti. Le multinazionali del farmaco hanno il loro modello di business. Gli stakeholder mettono i soldi, ma sono stati sussidiati anche dai governi. Forse avrebbero potuto fare meglio, sì. Ma penso che lamentarsi sempre sia del tutto inutile».Perché la vostra scoperta è avvenuta solo di recente?«Potevamo forse arrivare prima, accelerare il processo, se avessimo avuto miliardi a disposizione. Chissà, forse».Quanto prima?«Non so darle una stima precisa. Sei mesi prima, forse. Invece abbiamo cercato finanziamenti non tradizionali, filantropici, di fondazioni. E i nostri partner allo stesso modo hanno dovuto recuperare i fondi per lo sviluppo della produzione anche dai loro governi».Ora il suo lavoro su questo vaccino è finito?«No, anzi, c’è sempre qualcosa da sviluppare e migliorare. Stiamo testando sulla variante Omicron. E siamo al lavoro per un vaccino universale per i coronavirus». Il vostro vaccino potrebbe convincere anche gli indecisi, visto che non è fatto con nuove tecnologie?«Potrebbe farli sentire più tranquilli, sì».Potrà mai arrivare in Italia?«Mai perdere la speranza. Si sta lavorando sulle approvazioni. Vedremo cosa accadrà».
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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