2021-10-22
Abbiamo scoperto dove sono le mascherine killer di Arcuri
Distribuite in particolare in Lombardia, Piemonte, Lazio e Friuli: la più parte è stata sequestrata, ma in giro ne sono rimaste milioni. Potrebbero aver causato centinaia di migliaia di infezioni, eppure il commissario tace. Il generale Francesco Figliuolo continua a non divulgare i dati sulla distribuzione delle mascherine potenzialmente killer con la scusa che sono in corso indagini giudiziarie, mostrando di avere una strana opinione del diritto di cronaca. Per lui i giornali possono lavorare solo se i magistrati hanno chiuso le inchieste. E soprattutto fa capire che a suo giudizio non è necessario comunicare alla popolazione se circolino ancora per l'Italia mascherine potenzialmente «molto pericolose» per la salute delle persone, dispositivi forniti alla sua struttura (quando era diretta da Domenico Arcuri) dal gruppo di otto broker oggi sotto inchiesta a Roma. Ancora ieri, da Palazzo Chigi, ci hanno confermato la decisione di Figliuolo di non far girare carte all'attenzione dell'autorità giudiziaria. Nonostante tutto questo riserbo, è noto che i pm romani Gennaro Varone e Fabrizio Tucci, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, fossero a conoscenza da aprile dei quantitativi di mascherine difettose ancora giacenti nei magazzini e che non ne abbiano ordinato il sequestro, se non sei mesi dopo. Con il decreto del 15 ottobre i magistrati chiedono un aggiornamento dei dati della giacenza «di Dpi e mascherine prodotti da tutte le aziende rientranti nei consorzi oggetto di indagine» e invitano la struttura a «comunicare ai magazzini Sda di riferimento il blocco della merce ivi depositata», mentre la Protezione civile è invitata «a richiamare presso i propri depositi regionali tutti i Dpi e le mascherine in circolazione nei territori di rispettiva competenza». Un'iniziativa che i colleghi di Gorizia avevano preso qualche mese fa. Dopo le analisi su alcuni campioni, già a febbraio la Procura friulana aveva ordinato di «bloccare immediatamente la distribuzione dei dispositivi giacenti» e di «richiamare i facciali oggetto di indagine». Una capacità di reazione che potrebbe aver salvato molte vite umane. Infatti, se le Ffp2 garantiscono una protezione del 95 per cento, con quelle difettose la protezione scende anche sotto il 20. Il che significa che da una potenziale diffusione del rischio di contagio del 5 si sale all'80. Su 74 milioni di pezzi è facile immaginare che i potenziali infettati siano nell'ordine non delle migliaia, ma delle centinaia di migliaia, se non dei milioni. A marzo la Guardia di finanza di Gorizia aveva iniziato a fari spenti il lavoro di sequestro a livello nazionale. Gli uomini delle Fiamme gialle si sono presentati presso la struttura commissariale per acquisire documentazione tecnica, certificazioni, verbali del Cts, contratti di fornitura, documentazione contabile relativi a 12 tipi di mascherine ritenute non conformi, di cui otto fornite da Benotti & C., compresi i quattro lotti di quelle considerate «molto pericolose». Nel decreto di perquisizione era previsto il «sequestro di quanto rinvenuto (corpo del reato, cose pertinenti al reato) e in ogni caso utile al fine delle indagini». La Guardia di finanza al termine delle operazioni comunicò quanto segue: «Grazie anche alla collaborazione offerta dall'attuale staff del commissario per l'emergenza è stato possibile sequestrare oggi oltre 60 milioni di Dpi (poi saliti a 65 nei giorni successivi, ndr), ovvero mascherine facciali, ancora giacenti presso depositi ubicati su tutto il territorio nazionale e in attesa d'essere distribuiti. Queste mascherine facciali costituiscono il residuo di forniture per circa 250 milioni di pezzi ereditato dalla precedente gestione della struttura per l'emergenza». Quindi, anche se la struttura commissariale non rivela questa informazione, parte dei 74 milioni di mascherine killer potrebbe essere finita negli scatoloni presi dalle Fiamme gialle. Ma quanti di questi dispositivi siano sfuggiti al sequestro non è dato sapere. L'opera di rastrellamento era iniziata in Friuli Venezia Giulia a febbraio e aveva portato al sequestro di 1,5 milioni di pezzi. Sempre nel comunicato si leggeva: «Le analisi di laboratorio che precedettero i primi sequestri evidenziarono che il coefficiente di penetrazione di questi dispositivi è decisamente superiore agli standard previsti. In alcuni casi, infatti, la capacità filtrante è risultata essere addirittura 10 volte inferiore rispetto a quanto dichiarato, con conseguenti rischi per il personale sanitario che le aveva utilizzate nella falsa convinzione che potessero garantire un'adeguata protezione». Nello stesso periodo la Procura di Roma ha chiesto un censimento alla struttura commissariale e ha ricevuto come risposta che nei centri logistici di Lombardia, Piemonte e Lazio di Sda giacevano ancora 161 milioni di mascherine non conformi, ma di quelle più pericolose ne erano rimaste solo circa 2,8 milioni. La scorsa primavera i finanzieri di Gorizia hanno continuato l'opera di recupero del materiale non conforme e il 6 maggio hanno diramato questo ulteriore comunicato: «L'attività nel suo complesso ha permesso di sequestrare circa 115 milioni (saliti poi a 121, ndr) di Dpi pericolosi che l'analisi della documentazione acquisita ha consentito di stimare nel valore in circa 300 milioni di euro, nonché di condurre alle responsabilità penali dei rappresentanti legali delle società fornitrici della struttura commissariale». La ricerca non si è fermata ai depositi del gruppo Sda express, ma gli inquirenti hanno chiesto e ottenuto il richiamo delle mascherine dalle sedi regionali della Protezione civile e da alcune strutture sanitarie. Anche singoli ambulatori medici, dopo aver sentito la notizia della loro pericolosità telefonarono per restituire quei materiali difettosi. Iniziative che dimostrano l'importanza della comunicazione per sensibilizzare la popolazione e aiutare l'attività di recupero delle mascherine. Alla fine oltre 121 milioni (secondo le fonti della Verità la raccolta sarebbe proseguita sino al sequestro di 150 milioni di pezzi, anche se il computo non è stato più tenuto con precisione) di Dpi fallati o non conformi su 250 milioni sono stati tolti dalla circolazione. Ma tra quei cento milioni che mancano all'appello quante mascherine killer c'erano? E di queste, a causa della distribuzione capillare effettuata dalla Protezione civile, quante non sono mai ritornate all'ovile? Adesso la Procura di Roma ha chiesto il sequestro di tutti i dispositivi residui provenienti dalle commesse di Benotti & C. compresi i 161 milioni inventariati ad aprile e ritenuti «non conformi». Gli investigatori quanti ne troveranno ancora? Vedremo. Cinque modelli, tra cui i quattro ritenuti «molto pericolosi», erano già presenti nella lista della Procura di Gorizia. Il quinto era di pochi milioni di esemplari. Al momento i sequestri hanno permesso di mandare al macero circa 150 milioni di mascherine del valore di oltre 300 milioni di euro, a cui potrebbero aggiungersi su indicazione della Procura di Roma almeno altri 80 milioni di Dpi (sempre che non sia troppo tardi) non ancora sequestrati da Gorizia e ritenuti non conformi. Un ennesimo ritiro che potrebbe far schizzare il conto del denaro sprecato dalla struttura dell'ex commissario Arcuri a circa mezzo miliardo di euro (anche se secondo alcune fonti il conto potrebbe addirittura salire a 600 milioni). Senza considerare il possibile costo in vite umane che potrebbe essere stato causato dalle mascherine killer. «L'originaria commissione d'inchiesta parlamentare ancora oggetto di discussione dovrà iniziare a indagare anche per ricostruire dove siano state consegnati questi Dpi e quante vite umane siano costate» spiega l'avvocato Consuelo Locati, coordinatrice del team legale dei famigliari delle vittime nella causa civile istruita al Tribunale di Roma. Non solo non proteggevano chi le usava, ma potenzialmente favorivano il contagio. Chissà quante persone sono morte per colpa loro».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.