2022-09-01
A lezione di antifascismo dall’intellò capra
Bernard-Henri Lévy (Stefano Montesi - Corbis/Getty Images)
Su «Repubblica» Bernard-Henri Lévy predica contro le destre «mussoliniane e putiniane». Peccato che parta sbagliando la data della Marcia su Roma e poi paragoni Scurati a Malaparte. Zero sostanza e tanti insulti gratuiti: il mix che la sinistra da salotto adoraÈ piuttosto facile misurare il disprezzo che i progressisti italiani nutrono per questa nostra sventurata patria. Basta osservare quanta attenzione e quanto spazio concedono a un tizio di nome Bernard-Henri Lévy, filosofo francese sedicente più che seducente. Costui, a livello accademico, è poco meno di una nullità: la più imponente struttura teorica da lui edificata è senz’altro quella che il suo parrucchiere ha utilizzato per arrotondargli i boccoli. Eppure i liberal nostrani - che hanno la parola competenza sempre in bocca - continuano a trattarlo alla stregua di un guru, accogliendo ogni volta le sue castronerie come se fossero iniezioni di saggezza. Giusto ieri Repubblica ha scodellato in prima pagina una brillante «analisi» del laccatissimo intellettuale, un editoriale che andrebbe conservato e studiato, perché fornisce uno dei più perfetti esempi di guazzabuglio ideologico sinistrorso di ogni tempo: un concentrato di errori, balle, moralismo e superiorità antropologica davvero difficile da eguagliare. Fulminante l’attacco: «Il 22 ottobre, l’Italia commemorerà il centenario della Marcia su Roma». Già, peccato che la data esatta dell’anniversario sia quella del 28 ottobre, come chiunque può appurare anche soltanto tramite rapido passaggio su Wikipedia. Il cialtrone in bigodini non si è nemmeno preso la briga di verificare, o di rileggere, e ha piazzato un clamoroso strafalcione alla prima riga. Certo, può capitare, soprattutto se uno utilizza come fonte il romanzo M di Antonio Scurati, che il bravo Bernardo mette sullo stesso piano di Eros e Priapo di Gadda e de Il grande imbecille di Malaparte. Comunque sia, a uno che esibisce tale superficialità viene concesso il palchetto da cui impartirci lezioni. Il succo del predicozzo del francese è il seguente: non dovete votare Giorgia Meloni e gli altri politici di destra. Perché? Ovvio, perché sono fascisti. E dato che sono fascisti, favoriranno la Russia di Vladimir Putin (da qui il lisergico titolo dell’editoriale: «Il futuro di Kiev passa per l’Italia»). Sembra quasi che Lévy, per scrivere l’articolo, abbia trascritto i post su Facebook di Enrico Letta, li abbia mescolati in un barattolo e poi abbia estratto a caso quelli da utilizzare, usando la tecnica del cut-up di William Burroughs (che almeno aveva la scusa delle droghe). Il risultato è un pastone di banalità e psicosi da fascismo degna di una sessantenne radical milanese in caffetano. La destra italiana, teorizza Bhl, è «chiaramente nostalgica» della Marcia su Roma. Giorgia Meloni ha la fiamma missina nel simbolo, ha appoggiato l’antisemita Enrico Michetti e addirittura cita Mussolini. Pare infatti che abbia detto una volta: «La Storia ci darà ragione», proprio come il Duce disse: «La Storia mi darà ragione». Pensate, un giorno Fidel Castro dichiarò: «La Storia mi assolverà». Che la Meloni sia anche un po’ comunista? Può darsi. Quel che è certo, secondo Lévy, è che Giorgia non mancherà di «instaurare un rapporto con Vladimir Putin», il quale manco a dirlo «assomiglia più chiaramente ai fondatori del fascismo». È inutile ricordare le professioni d’atlantismo financo stucchevoli di Fratelli d’Italia, o il fatto che il partito abbia votato tutti i provvedimenti a favore dell’Ucraina compreso l’invio di armi, perché il vecchio Bernard se ne frega: per lui sono tutte balle, è una copertura che nasconde il complotto fascista. La Meloni - il furbastro, scaltro come una faina, ne è certo - è putiniana. E ancora più putiniani sono Silvio Berlusconi e, soprattutto, Matteo Salvini. Per quest’ultimo, Bhl nutre un odio particolarmente feroce. Lo descrive come «un misto tra il capo di un casinò di un film di Scorsese e un membro di secondo piano dei clan corleonesi […]. Il tipico putiniano europeo che già lasciava che i suoi collaboratori racimolassero rubli e petrodollari a Mosca, che negoziava il futuro del popolo italiano in accordi dietro le quinte appannati dalla vodka». Ora, uno può pensare quello che gli pare di Meloni, Berlusconi, Salvini eccetera. Ma Lévy supera notevolmente il confine della diffamazione oltre che del grottesco. In più scrive come una Lia Quartapelle sotto acido.A infastidire più di tutto nel suo articolo, però, è la spocchia con cui si rivolge a tutti gli italiani, sostenendo che essi «meritino di meglio» e che «la patria di De Gasperi e Pasolini» debba «sbarrare la strada a questa gente». Già affermare con certezza che oggi Pasolini avrebbe votato il Pd (o Calenda) è chiaro segno di abuso di alcol. Ma spingersi a scrivere che l’Italia deve «ritrovare quella miscela di saggezza e coraggio che i suoi antichi padri chiamavano virtù» è decisamente troppo. Specie se si considera che a snocciolare parole tanto arroganti e insegnarci come stare al mondo è il principale fomentatore della guerra in Libia, uno dei responsabili del disastro globale che ci ha condotto all’attuale situazione di tensione internazionale. Per altro, se oggi russi e turchi spadroneggiano in Nord Africa lo si deve in qualche modo pure alla provvidenziale campagna stampa montata a suo tempo dall’acconciato filosofo, il che lo rende più funzionale a Putin di molti dei leader italiani da lui tanto disprezzati. Comunque sia, occorre essere onesti: il problema non è Lévy in sé, ma Lévy in noi. Sta nel fatto, cioè, che ci sia ancora qualcuno in Italia pronto a stendergli il tappeto rosso e a consentirgli di magnificare il trattato del Quirinale, darci lezioni e insultarci con gusto. A mettere tristezza non è il bulletto d’Oltralpe, semmai sono le menti prigioniere della nostra sinistra che godono nel farsi ammaestrare. Anzi, a dirla tutta noi siamo persino grati a Bhl, perché con le sue svalvolate ci mostra quali siano realmente i valori costituenti del progressismo italico: sudditanza e disprezzo. Dunque grazie, Bernard, e che la permanente ti sia lieve.
Francesca Albanese (Ansa)
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)