2020-03-24
A dicembre il morbo era già a Bergamo. Però Pechino ancora faceva finta di nulla
Sotto Natale, picco di patologie respiratorie in Val Seriana Le industrie lombarde avevano continui contatti con la Cina.Passeggiava da dicembre nella bassa Val Seriana. Silenzioso e corazzato, il Covid-19 infettava cellule umane sotto Natale travestendosi da male di stagione e ingannando tutti. Ammalati, medici, tecnici di laboratorio. «Una brutta polmonite», spiegavano i dottori nei casi peggiori. Nessuna avvisaglia di contagio nella Bergamasca, solo qualche notizia che arrivava dalla Cina e la normale apprensione per un'influenza un po' più cattiva. In farmacia rassicuravano: «Non è diversa dagli altri anni, servono tachipirina, aspirina e poi fermenti lattici». Invece il bilancio è da apocalisse: 1.000 morti ufficiali in tre settimane, un funerale ogni mezz'ora, le salme trasportate fuori provincia dai camion dell'esercito perché non si riesce a tener dietro al ritmo delle sepolture. E la forte sensazione che le vittime siano stimate per difetto.Uno scenario pazzesco, crudele, gli effetti della carica di quel nemico invisibile al quale abbiamo dato tutto il tempo di accomodarsi su di noi, di insinuarsi in gola e nei polmoni mentre pensavamo ai regali di Natale. Alzano Lombardo, Nembro, Albino, Zogno, Dalmine, Stezzano, ecco il focolaio di Bergamo. Grani di un rosario che non ha fine ma ha avuto un inizio: a Wuhan, in Cina. E oggi, mentre proprio le autorità cinesi tentano di cambiare la narrazione di questo disastro sanitario con il maquillage degli aiuti umanitari, è fondamentale tornare alla genesi, al ceppo iniziale trasportato da uomini e donne ai piedi delle Alpi, nel secondo distretto economico più globalizzato d'Italia dopo quello di Milano.Il sospetto che nel dicembre scorso stesse accadendo qualcosa di strano è venuto per primo ad Alberto Zucchi, responsabile del servizio epidemiologico della Ats di Bergamo, che due settimane fa si è ammalato, è guarito in casa durante la quarantena ed è già tornato in prima linea. «Per fortuna non ho avuto nessuna complicanza polmonare. Perché proprio qui? È probabile che il virus in valle circolasse prima che a Codogno. Già da dicembre, ma non lo conoscevamo. Una serie di polmoniti si sono verificate ma sono state addebitate a complicanze influenzali, poi abbiamo scoperto essere coronavirus. Erano segnali di allarme». Erano polmoniti cinesi, il vero nome di questo microorganismo assassino, da ricordare non tanto per la provenienza geografica del tutto incidentale, ma per l'operazione di rimozione politica che nei primi due mesi del contagio il regime di Pechino ha effettuato, nascondendo al mondo cosa stava accadendo nella provincia di Hubei. Quelle settimane di ritardo nella comunicazione alla comunità internazionale - durante le quali sono scomparsi nel nulla medici, dati epidemiologici e pazienti infetti -, non solo hanno spiazzato istituti di livello mondiale come il Mit di Boston e il Pasteur di Parigi nello studio del virus e nella produzione del vaccino, ma hanno contagiato Bergamo. Senza alcun allarme, le aziende del territorio (macchine tessili, cartiere, meccanica di precisione, automotive, gioielli della meccatronica) hanno continuato a programmare trasferte in Cina e a ospitare delegazioni dalla Cina. A decine, a centinaia perché oltre ai classici mercati tedesco e americano, e dopo l'embargo verso la Russia, la nuova frontiera per l'intraprendente imprenditoria bergamasca passa dalle joint venture con Pechino. «Tante aziende della zona hanno contatti continui con la Cina», sottolinea il dottor Zucchi. Quello cinese è uno dei mercati più in espansione per 376 aziende (contando solo Alzano Lombardo e Nembro), con 3.700 dipendenti e un fatturato di 700 milioni l'anno. Per cogliere l'importanza del distretto, fu dall'assemblea degli industriali del 2014 a Nembro che l'allora premier Matteo Renzi decise di comunicare al Paese le sue ricette economiche per la crescita.In quell'Eden produttivo a dicembre entra di soppiatto il virus. E lo fa mentre il mondo non è ancora consapevole di nulla. È l'opinione di un luminare del calibro di Giuseppe Remuzzi, direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, che ha sede al Kilometro rosso. «Già a dicembre i medici di base di Alzano erano in allarme perché si trovavano di fronte a polmoniti mai viste prima, ma hanno pensato che fosse un'evoluzione particolarmente aggressiva del ceppo annuale dell'influenza. È difficile capire che sei di fronte a qualcosa di nuovo. Anche noi studiosi, in mancanza di ulteriori notizie, eravamo convinti che il virus non fosse così violento. Una volta aggrediti, bisognava fare subito una zona rossa come a Codogno, ma non è stata fatta e tutto ciò ha peggiorato la situazione». Sorpresi i medici, sorpresi i ricercatori e il sistema sanitario. Il grande inganno cinese si è scaricato nel cuore della Lombardia, ha fermato la locomotiva d'Italia. L'omertà di Pechino ha favorito la pandemia, la socialità inarrestabile di una delle zone più popolose del Nord l'ha moltiplicata. E la superficialità dei sindaci «che non si fermano» ha dato il colpo finale a ogni buona pratica nel weekend della follia, tre settimane fa. Silvio Garattini, farmacologo fra i più autorevoli del mondo e presidente dell'Istituto Negri, guarda già oltre: «La globalizzazione implica la circolazione di virus e batteri, dobbiamo essere preparati». Ancora di più se le regole non sono uguali per tutti e se nel regno di Xi Jinping la reticenza del potere è legge. Così mentre a Wuhan si festeggia il ritorno alla normalità, oggi per colpa di quel dicembre cinese a Bergamo i parenti distrutti dal dolore sussurrano: «I nostri cari entrano degli ospedali e non li vediamo più». E i tamponi hanno il solito esito maledetto: positivo, positivo, positivo.
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