2020-05-02
A demolire le Regioni ci si mette pure il «super partes» Fico
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Si sentiva la mancanza di Roberto Fico, il grillino Presidente della Camera, che, venendo meno a ogni prudenza politica e terzietà istituzionale, è entrato a gamba tesa nella polemica tra governo e Regioni, aggredendo queste ultime: «Dobbiamo riuscire ad avere una centralizzazione delle decisioni, quindi non mi piacciono i passi in avanti dei presidenti delle Regioni che vogliono andare più veloci. Una cosa è restringere, una cosa è l'allargamento, e l'allargamento, secondo me, lo deve decidere lo stato centrale», ha detto a SkyTg24. Svarione logico: non si capisce per quale decisione una ordinanza restrittiva dovrebbe andar bene, mentre una estensiva no. E soprattutto svarione istituzionale: Fico non è un parlamentare qualsiasi, o un semplice militante di partito, ma è la terza carica dello Stato, e dovrebbe ricordarsi di rappresentare tutte le opinioni in campo, non solo quelle a lui gradite, meno che mai nel fuoco di una polemica già divampata. L'altra protagonista della giornata è stata il ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo, che, in un'intervista a Repubblica.it, è tornata a parlare del reddito di emergenza ("un reddito temporaneo per due o tre mesi", ha precisato), con una «platea di 1 milione di famiglie e una spesa tra 1,2 e 1,8 miliardi. L'assegno varia da 400 euro per un single a 800 euro per una famiglia». Secondo la Catalfo, sarà possibile l'integrazione tra questo sussidio e il reddito di cittadinanza: per i "lavoratori poveri, sarà possibile sommare il piccolo sostegno che ricevono fino alla soglia del Rem. Chi prende 200 euro di reddito di cittadinanza potrà integrare fino ad arrivare a 400 euro di reddito di emergenza».Peraltro, la sortita della Catalfo pone un'altra questione delicata: il governo, secondo l'annuncio del ministro del Lavoro, vorrebbe prorogare di altri tre mesi il divieto di licenziamento fissato nel Cura Italia di marzo. Nobile intenzione, in teoria. Peccato che però la 'bontà di stato' sia messa a carico delle imprese, destinatarie di obblighi fiscali devastanti, solo minimamente rinviati, e ora tutti destinati a esplodere a giugno. Il rischio è quello di condurre una serie di aziende al fallimento o comunque alla non riapertura. E a quel punto, aver allungato il divieto di licenziare sarà servito a poco. Sullo sfondo, resta infine un nodo politico-istituzionale tutt'altro che risolto. Il Quirinale, che pure preferirebbe la permanenza dell'attuale governo, ne vede le crescenti difficoltà: e anche sul Colle più alto non sono certo state gradite le sortite divisive di Palazzo Chigi (contro le Regioni) e tutte le polemiche non necessarie che hanno incendiato il clima. Esattamente la direzione opposta a quella suggerita da Sergio Mattarella: cercare di allargare, nei limiti del possibile, il perimetro dell'unità, in un passaggio così delicato. Tuttavia, se il crescente logoramento di Conte dovesse produrre, tra qualche settimana, un incidente, il Colle gradirebbe che fosse già pronta – in quello scenario – una soluzione alternativa. Non una crisi al buio, ma, per così dire, un approccio da «sfiducia costruttiva: uscita di scena di un governo e di una maggioranza, con contestuale emersione di un altro governo e di un'altra maggioranza, senza passaggi a vuoto. Il problema è che Matteo Renzi, l'uomo che potrebbe produrre lo strappo, con i suoi senatori, ha un approccio tattico diverso e soprattutto non ha una soluzione già pronta, se non un vago riferimento alla coalizione 'Ursula', quella che a Bruxelles vede Pse, Ppe e grillini a sostegno della von der Leyen. Ma una trasposizione di quello schema in Italia è tutt'altro che scontata. Dunque, Renzi, se potesse o se si creasse l'occasione, procurerebbe sì l'incidente, e quindi la caduta di Conte, ma proprio per aprire una fase di trattative, per riguadagnare la centralità perduta, e per tentare di disarticolare il centrodestra. Sta qui il nodo, e sta qui anche l'insidia per l'attuale opposizione.