2022-10-31
A casa di Heidi non si trovano sindaci. Le cave in mano ai clan della Calabria
Tre elezioni a vuoto a Lona Lases, nell’incantevole Trentino: nessuno osa sfidare i signori del porfido. Pentiti «suicidati» e amministratori coinvolti. E nel processo in corso il governo Draghi si è fatto avanti troppo tardi.In Trentino per tutti è il «paese senza sindaco». Da quando la comunità si è svegliata con la consapevolezza che la ’ndrangheta è riuscita ad annidarsi nelle cave di porfido, che qui gli abitanti chiamano «l’oro rosso», il primo business per gli scarsi 900 cittadini che vivono nel cuore della Val di Cembra trentina, a Lona Lases, 12 chilometri da Trento, sono saltate per tre volte le elezioni comunali. Nemmeno nei Comuni ad altissima densità mafiosa della Calabria è mai accaduto qualcosa di simile. Al più vengono sciolti a più riprese. Ma qualcuno disposto a sedere sulla spinosa poltrona da primo cittadino c’è sempre.L’appuntamento con le urne è rinviato alla primavera del 2023 per l’assoluta assenza di contendenti (l’11 ottobre scorso scadevano i termini per presentare le candidature). Nel casermone grigio di via Maseri, che fa da sede del municipio, ora c’è un commissario straordinario indicato dalla prefettura, Federico Secchi, che a un certo punto aveva anche maturato l’idea di voler gettare la spugna. Poi però, per non dare l’idea che lo Stato arretrasse, è rimasto in sella. Anche il segretario comunale, Debora Sartori, non è una presenza fissa. È supplente e si divide tra i municipi cui è stata assegnata. A Lona Lases non c’è neppure una stazione dei carabinieri. «Mandiamo auto del Radiomobile tutti i giorni», spiegano dal Comando provinciale di Trento. Il comando stazione più vicino è ad Albiano, che è a due passi, ma all’epoca delle indagini la spericolata relazione di qualche militare con alcuni indagati pure era emersa. Anche la presenza statale, insomma, è supplente.Le condizioni per le infiltrazioni ci sono tutte. E sono state ben descritte nelle informative vergate dal maggiore Alexander Platzgummer. Il romanzo criminale raccontato dai carabinieri sembra ambientato in Aspromonte: clima di omertà, assoggettamenti e intimidazioni. Ma è Trentino. Un posto in cui i boss della mala calabrese hanno trovato terreno fertile, assoldando bande di macedoni per controllare le cave. E il territorio. Qui i calabresi non sono arrivati con la coppola e la lupara. Ma, vestiti da imprenditori del porfido, sarebbero riusciti a entrare a pieno titolo nell’imprenditoria locale e nella politica, collegandosi in modo sotterraneo con la pubblica amministrazione.L’impianto del processo che i magistrati antimafia hanno ribattezzato «Perfido» è questo. La prima condanna per il reato di associazione di stampo mafioso, il 416 bis del codice penale, è già arrivata, a febbraio, ed è stata l’ennesima doccia fredda per i trentini: Saverio Arfuso, considerato tra i vertici della famiglia di Cardeto (Reggio Calabria), dovrà scontare una pena di 10 anni e 10 mesi per aver allungato le mani su Lona Lases. Secondo i giudici in Trentino ci sarebbe stato un «ingresso silente» che «per un verso ha evitato forme di allarme nelle comunità di insediamento», ma che «per altro verso ha consentito la selezione e l’emersione di figure che nel tempo potessero godere [...] di un grado di affidabilità ordinaria». I boss, insomma, si sono presentati «quali soggetti imprenditoriali autonomi, senza che nulla potesse trapelare sugli stretti legami con le consorterie criminali». Poi però avrebbero man mano introdotto «i sistemi tipici della consorteria». Le aziende, una dietro l’altra, sono cadute nella rete. E la ’ndrangheta sarebbe così diventata monopolista del settore del porfido. Per la prima volta nella black list della Prefettura, il 16 dicembre 2021, entra una società con sede legale a Lona Lases, il cui amministratore è risultato essere un familiare convivente di uno degli indagati. Il processo Perfido, insomma, ha fatto saltare il tappo.Portando alla luce anche «collegamenti e connessioni», scrivono i giudici, «con il mondo della politica, delle forze dell’ordine, della magistratura e, più in generale, con una serie di persone di vertice (un notaio, un primario ospedaliero, un vicequestore)». Tutti partecipavano alle famose cene in cui si cucinava la capra alla calabrese di tale Giulio Carini, ultrasettantenne, cavaliere del lavoro, non imputato nel processo Perfido, ma finito nelle intercettazioni. E per aver frequentato Carini, il presidente del Tribunale di Trento Guglielmo Avolio un anno fa è stato trasferito.Ma i calabresi avrebbero anche esportato il know how sul controllo elettorale. E nei guai sono finiti l’ex parlamentare autonomista Mauro Ottobre, che nel 2018 si era candidato a presidente della Provincia (mancando però l’elezione) con il movimento Autonomia dinamica, e che ora addebita l’assenza di candidati alla carica di sindaco di Lona Lases «alla paura della Procura della Repubblica più che della mafia», l’ex sindaco di Frassilongo Bruno Groff, che sempre all’epoca delle elezioni provinciali 2018 si era mosso con altri sindaci civici per formare uno schieramento di centro, progetto che poi naufragò, e Roberto Dalmonego eletto sindaco di Lona Lases nel 2018. Qualche campanello d’allarme, però, nel corso degli anni è suonato. Ma ovviamente è stato ignorato. Nel 2004, per esempio, una cava di porfido era stata trasformata in una raffineria per la droga. E un anno dopo la Corte dei conti ha condannato nove consiglieri comunali di Lona Lases a risarcire con 27.000 euro (3.000 a testa) il danno provocato con l’affidamento in concessione di una cava di porfido. Molti anni fa anche un collaboratore di giustizia aveva svelato i tentativi della ’ndrangheta di stabilirsi in Trentino: «Anche a Trento si cercò di costituire una ’ndrina (una famiglia, ndr), ma l’obiettivo fallì perché tra gli uomini legati alle cosche calabresi insediati in città non si trovò il giusto equilibrio di appartenenza territoriale e familiare». Parole al vento. Qualche anno dopo anche due fratelli, Antonino e Daniele Filocamo, affiliati alla potentissima cosca dei Serraino, hanno cominciato la collaborazione con la giustizia. Con le loro dichiarazioni l’inchiesta trentina si è saldata con un’indagine a Reggio Calabria. «C’era un rapporto di solidale frequentazione», scrivono i pm di Reggio Calabria, «tra Nino Serraino e Innocenzio (Enzo) Macheda, esponente apicale della ’ndrangheta radicata in Trentino». Il primo contatto tra i due è stato così ricostruito dai carabinieri del Ros: «Il 29 agosto 2017, è la prima conversazione registrata tra Macheda e Serraino e attesta formalmente il ruolo di referente di Macheda che, servente, si pone a disposizione».Il resto del racconto è zeppo di riti di affiliazione, cene con i boss e incontri per creare una strategia. Il tutto sull’asse Trento-Reggio Calabria. Antonino Filocamo, però, a un anno dalle inchieste che hanno usato le sue rivelazioni, il 4 maggio 2021 viene ritrovato senza vita, strozzato, nell’abitazione in cui era stato nascosto, in Puglia. Accanto al corpo c’era dello spago, che è stato ritenuto compatibile con i segni che Filocamo aveva al collo. «Suicidio», hanno sentenziato subito gli investigatori. A gettare sospetti, però, ci pensò l’opinionista Klaus Davi, che era in contatto con Filocamo: «Suicidio? Lo escludo nella maniera più assoluta. Avremmo dovuto incontrarci a breve, forse già la settimana prossima. Ci siamo sentiti e scritti e ci siamo ripromessi che ci saremmo visti. Non era depresso, non aveva nessuna intenzione di suicidarsi». Poi aggiunse: «Lo hanno mandato a Lecce, il regno dei Tornese (una presunta cosca locale, ndr) che sono pappa e ciccia con le famiglie di Reggio. Non dico che l’hanno mandato a morire, ma insomma Lecce non è proprio il luogo ideale. Qualcosa non torna». Suicidio o no, Filocamo è morto mentre era nel programma di protezione del ministero dell’Interno (a guida Luciana Lamorgese in quel momento). Ma il colpo più duro per l’immagine dello Stato in Trentino è un altro: tra le parti civili del processo Perfido non ci sono la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero dell’Interno. La Corte d’assise di Trento a febbraio ha giudicato le loro istanze tardive. L’ennesimo pastrocchio del governo dei migliori.