
Il negozio si chiama Hijab paradise, lo ha creato una giovane marocchina: «Non mi interessa l'integrazione, ma volevo lo ius soli». Con la scusa della moda, si fanno largo rivendicazioni comunitarie e politiche. E il giornalismo progressista diventa compliceIl meccanismo, ormai, è collaudato: per far accettare le infinite contraddizioni della convivenza forzata tra popoli e culture, non c'è niente di meglio che una «narrazione» edificante, una «storia che commuove il web» o anche semplicemente un bel raccontino pieno di speranza, reso inoffensivo dalla retorica, ma con la propaganda piazzata al punto giusto. Accade così che la normalizzazione nelle nostre città del velo islamico, che stride visibilmente con la sensibilità della nostra cultura, anche e soprattutto con quel femminismo che pure, per altri versi, oggi sembrerebbe dominante, proceda esattamente nel modo descritto. Sull'edizione bolognese del Corriere della Sera, per esempio, abbiamo potuto scoprire che a nella città felsinea sta per aprire «Hijab paradise», negozio monotematico la cui specialità è didascalicamente riassunta nel nome dell'esercizio. Ad aprirlo, Keltoum Kamal Idrissi, 23 anni, referente della sezione femminile di Cesena dei Giovani musulmani. Di origini marocchine, vive in Italia con la sua famiglia da quando frequentava la terza elementare. Ha tre sorelle, nessuna di loro indossa il velo. Il Corriere specifica che «lo porta la mamma che assieme al padre non l'hanno mai obbligata a portarlo». La giovane Keltoum, lo indossa, ma da poco tempo: «Io ho cominciato a metterlo tre anni fa, avevo da poco vent'anni e ho deciso di farlo perché credo nella mia religione. E poi la mia passione per la moda mi ha portato a immaginare un negozio mio che potesse vestire con stile le donne di fede musulmana». E già in questo modo di raccontare le cose c'è tutto un mondo: gli stessi ambienti che, nei mesi scorsi, hanno voluto farci credere che attrici milionarie fossero «costrette» ad andare a letto con ricchi produttori da invisibili coercizioni culturali, ora dipingono in modo idilliaco l'usanza del velo, ovviamente indossato senza obblighi, ci mancherebbe. Strano oggetto, il libero arbitrio femminile. Degna di nota anche la scelta di indossare il velo da parte di una giovane donna, cresciuta in Italia, da famiglia che pare non eccessivamente religiosa e quindi, si ipotizza, mediamente occidentalizzata. Eppure anche lei si vela. Perché? Per motivi religiosi. Eppure Bruno Nassim Aboudrar, nel suo saggio su Come il velo è diventato musulmano, ci ha spiegato che l'hijab è tutt'altro che centrale nei testi musulmani. Non è un fatto di religione, è un fatto politico. Oggi, scrive Aboudrar, «ci sono donne - e penso in particolare alle musulmane occidentali - che appaiono distanti anni luce da questi estremismi reazionari, e nonostante ciò considerano il velo come un segno distintivo necessario (e magari sufficiente) per dimostrare la loro appartenenza all'islam». Si tratta, quindi, di una rivendicazione comunitaria. Ma andiamo avanti nell'esplorazione del fantastico mondo di «Hijab paradise», nome che peraltro meriterebbe una trattazione a sé. La giovane italomarocchina ci dice che sta mettendo su un presidio commerciale, ma soprattutto culturale, per le donne immigrate, ma attenzione: «Qualsiasi ragazza, non solo musulmana, e un po' curiosa potrebbe trovare qualche capo di suo interesse». Per anni l'Occidente si è illuso che bastasse far assaggiare un po' di diritti civili agli immigrati per farli diventare come noi. La verità è che siamo noi a diventare progressivamente come loro. E qui viene in mente la famosa perla di Laura Boldrini secondo cui i migranti sarebbero l'avanguardia di uno stile di vita che un giorno sarà anche il nostro. Chi si integra con chi, quindi? Del resto, Keltoum ha le idee chiare: «Si parla sempre tanto di integrazione, ma secondo me è giusto parlare di inclusione». L'integrazione richiama alla mente uno sforzo in vista dell'accettazione nella società ospitante: per quanto si tratti di una visione irenistica e al fondo doppiamente sradicante, si parte se non altro dal presupposto che ci sia una differenza culturale che può «fare problema». «Inclusione», invece, significa prendersi tutto il pacchetto senza chiedere nulla in cambio: da un giorno all'altro «includi» nella tua società e nella tua cultura cose che fino a ieri vi erano escluse. Ma, attenzione, non si tratta del famigerato «islam radicale». La fede c'è, ma è «moderata». Sul sito del negozio si legge: «La nostra fede è un punto fondamentale per offrirvi efficienza, professionalità e cortesia. La strada è ancora lunga, ma l'importante è correre su quella giusta, confidiamo nel vostro supporto dopo il supporto di Allah ta'ala, affinché ci mantenga salde sulla retta via a partire da uno stile d'abbigliamento conforme sia con la nostra fede che con l'ambiente che ci circonda». Inoltre, Keltoum ha deciso di non vendere il niqab o il burka, «non si sposa in nessun modo con la nostra filosofia». Per rendere accettabile qualcosa che fino a qualche anno fa non lo era, basta alzare l'asticella di ciò che potrebbe capitarci: state tranquilli, non è mica il cattivo burka, è solo il buon hijab. Ma il vero colpo di genio arriva nel finale. «Crescendo a Cesena, lavorando a Bologna», spiega la giovane, «noi siamo parte della cittadinanza, anche se non l'abbiamo. E anche se mi sono arrabbiata tanto per non essere potuta andare a votare alle politiche. Ci avevo creduto allo ius culturae, ma così non è stato». Politici italiani bestie, avete distrutto il sogno di Keltoum, che voleva votare alle elezioni e partecipare alla nostra vita democratica. Ecco quindi che alla fine è la società italiana che finisce nella posizione di chi deve dare delle spiegazioni. Siamo noi a non essere alla loro altezza. Ma forse, un giorno, sforzandoci molto, anche gli italiani riusciranno a integrarsi con gli africani.
Ansa
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Sempre più risparmiatori scelgono i Piani di accumulo del capitale in fondi scambiati in borsa per costruire un capitale con costi chiari e trasparenti. A differenza dei fondi tradizionali, dove le commissioni erodono i rendimenti, gli Etf offrono efficienza e diversificazione nel lungo periodo.
Il risparmio gestito non è più un lusso per pochi, ma una realtà accessibile a un numero crescente di investitori. In Europa si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione, con milioni di risparmiatori che scelgono di investire attraverso i Piani di accumulo del capitale (Pac). Questi piani permettono di mettere da parte piccole somme di denaro a intervalli regolari e il Pac si sta affermando come uno strumento essenziale per chiunque voglia crearsi una "pensione di scorta" in modo semplice e trasparente, con costi chiari e sotto controllo.
«Oggi il risparmio gestito è alla portata di tutti, e i numeri lo dimostrano: in Europa, gli investitori privati detengono circa 266 miliardi di euro in etf. E si prevede che entro la fine del 2028 questa cifra supererà i 650 miliardi di euro», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert SCF. Questo dato conferma la fiducia crescente in strumenti come gli etf, che rappresentano l'ossatura perfetta per un PAC che ha visto in questi anni soprattutto dalla Germania il boom di questa formula. Si stima che quasi 11 milioni di piani di risparmio in Etf, con un volume di circa 17,6 miliardi di euro, siano già attivi, e si prevede che entro il 2028 si arriverà a 32 milioni di piani.
Uno degli aspetti più cruciali di un investimento a lungo termine è il costo. Spesso sottovalutato, può erodere gran parte dei rendimenti nel tempo. La scelta tra un fondo con costi elevati e un Etf a costi ridotti può fare la differenza tra il successo e il fallimento del proprio piano di accumulo.
«I nostri studi, e il buon senso, ci dicono che i costi contano. La maggior parte dei fondi comuni, infatti, fallisce nel battere il proprio indice di riferimento proprio a causa dei costi elevati. Siamo di fronte a una realtà dove oltre il 90% dei fondi tradizionali non riesce a superare i propri benchmark nel lungo periodo, a causa delle alte commissioni di gestione, che spesso superano il 2% annuo, oltre a costi di performance, ingresso e uscita», sottolinea Gaziano.
Gli Etf, al contrario, sono noti per la loro trasparenza e i costi di gestione (Ter) che spesso non superano lo 0,3% annuo. Per fare un esempio pratico che dimostra il potere dei costi, ipotizziamo di investire 200 euro al mese per 30 anni, con un rendimento annuo ipotizzato del 7%. Due gli scenari. Il primo (fondo con costi elevati): con un costo di gestione annuo del 2%, il capitale finale si aggirerebbe intorno ai 167.000 euro (al netto dei costi). Il secondo (etf a costi ridotti): Con una spesa dello 0,3%, il capitale finale supererebbe i 231.000 euro (al netto dei costi).
Una differenza di quasi 64.000 euro che dimostra in modo lampante come i costi incidano profondamente sul risultato finale del nostro Pac. «È fondamentale, quando si valuta un investimento, guardare non solo al rendimento potenziale, ma anche e soprattutto ai costi. È la variabile più facile da controllare», afferma Salvatore Gaziano.
Un altro vantaggio degli Etf è la loro naturale diversificazione. Un singolo etf può raggruppare centinaia o migliaia di titoli di diverse aziende, settori e Paesi, garantendo una ripartizione del rischio senza dover acquistare decine di strumenti diversi. Questo evita di concentrare il proprio capitale su settori «di moda» o troppo specifici, che possono essere molto volatili.
Per un Pac, che per sua natura è un investimento a lungo termine, è fondamentale investire in un paniere il più possibile ampio e diversificato, che non risenta dei cicli di mercato di un singolo settore o di un singolo Paese. Gli Etf globali, ad esempio, che replicano indici come l'Msci World, offrono proprio questa caratteristica, riducendo il rischio di entrare sul mercato "al momento sbagliato" e permettendo di beneficiare della crescita economica mondiale.
La crescente domanda di Pac in Etf ha spinto banche e broker a competere offrendo soluzioni sempre più convenienti. Oggi, è possibile costruire un piano di accumulo con commissioni di acquisto molto basse, o addirittura azzerate. Alcuni esempi? Directa: È stata pioniera in Italia offrendo un Pac automatico in Etf con zero costi di esecuzione su una vasta lista di strumenti convenzionati. È una soluzione ideale per chi vuole avere il pieno controllo e agire in autonomia. Fineco: Con il servizio Piano Replay, permette di creare un Pac su Etf con la possibilità di ribilanciamento automatico. L'offerta è particolarmente vantaggiosa per gli under 30, che possono usufruire del servizio gratuitamente. Moneyfarm: Ha recentemente lanciato il suo Pac in Etf automatico, che si aggiunge al servizio di gestione patrimoniale. Con versamenti a partire da 10 euro e commissioni di acquisto azzerate, si posiziona come una valida alternativa per chi cerca semplicità e automazione.
Ma sono sempre più numerose le banche e le piattaforme (Trade Republic, Scalable, Revolut…) che offrono la possibilità di sottoscrivere dei Pac in etf o comunque tutte consentono di negoziare gli etf e naturalmente un aspetto importante prima di sottoscrivere un pac è valutare i costi sia dello strumento sottostante che quelli diretti e indiretti come spese fisse o di negoziazione.
La scelta della piattaforma dipende dalle esigenze di ciascuno, ma il punto fermo rimane l'importanza di investire in strumenti diversificati e con costi contenuti. Per un investimento di lungo periodo, è fondamentale scegliere un paniere che non sia troppo tematico o «alla moda» secondo SoldiExpert SCF ma che rifletta una diversificazione ampia a livello di settori e Paesi. Questo è il miglior antidoto contro la volatilità e le mode del momento.
«Come consulenti finanziari indipendenti ovvero soggetti iscritti all’Albo Ocf (obbligatorio per chi in Italia fornisce consigli di investimento)», spiega Gaziano, «forniamo un’ampia consulenza senza conflitti di interesse (siamo pagati solo a parcella e non riceviamo commissioni sui prodotti o strumenti consigliati) a piccoli e grandi investitore e supportiamo i clienti nella scelta del Pac migliore a partire dalla scelta dell’intermediario e poi degli strumenti migliori o valutiamo se già sono stati attivati dei Pac magari in fondi di investimento se superano la valutazione costi-benefici».
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