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2022-01-25
1972: dalla contestazione alla violenza
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Falce e fucile, Milano 1972 (Getty Images)
Il 1972 si aprì in maniera quantomeno inquietante per il mondo universitario, in agitazione dal «mitico» 1968 . La protesta studentesca aveva già perso la propria innocenza alla fine dell’anno successivo, quando il corpo dell’agente Antonio Annarumma giacque esanime sul terreno durante gli scontri tra gli studenti e la Polizia il 19 novembre del 1969. Un mese dopo, l’Italia veniva inghiottita dalla «notte della Repubblica» con la strage di piazza Fontana. Durante la manifestazione del primo anniversario della bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in seguito a duri scontri tra studenti e polizia moriva lo studente lavoratore Saverio Saltarelli, colpito in pieno petto da un lacrimogeno.L’ Italia che poco prima aveva vissuto l’autunno caldo delle proteste operaie alle quali spesso si erano uniti gli studenti «operaisti» con risultati quantomeno discutibili, viveva un momento di forti tensioni politiche e sociali. Se da una parte le rivendicazioni dei lavoratori portarono ad un risultato concreto l’anno seguente, lo statuto dei lavoratori del 1970, il mondo studentesco parve esaurire l’onda lunga della contestazione degli esordi, mostrando evidenti segni di disgregazione interna e di frazionamento in gruppi e gruppuscoli dai quali sarebbero nate le principali formazioni della sinistra extraparlamentare degli «anni di piombo». Il clima di estrema tensione non risparmiò certo il Movimento studentesco di Mario Capanna, che tra la fine del 1971 e il nuovo anno mostrò segni evidenti di scivolamento verso l’uso sistematico della violenza contro ogni espressione di dissenso, ogni sospetto di eterodossia. I fatti parlarono chiaro attraverso le cronache e i personaggi che caddero nel mirino degli occupanti il «fortino» dell’Università Statale di Milano dove operavano stabilmente i vertici del Movimento. Ma ciò che maggiormente colpisce non è tanto la violenza in sé, presente ormai quotidianamente nello scontro ideologico e negli eventi di piazza, quanto piuttosto gli obiettivi colpiti dai ragazzi della contestazione. Leggendo nella storia di quei mesi, pare di entrare in una sorta di «mondo alla rovescia», dove i metodi squadristi sono applicati dai «katanghesi» del famigerato servizio d’ordine del movimento e i moderati invece coloro che dovranno appellarsi alle autorità per la salvaguardia delle istituzioni democratiche.
Colpire un sindacalista e un ebreo per «educarne cento»
Rispettando l’ordine cronologico, uno degli episodi più gravi avvenne dentro alla Statale il giorno del secondo anniversario della strage di Piazza Fontana, poco dopo la fine del corteo del 12 dicembre del 1971, caratterizzato come l’anno precedente da disordini . Un giovane come tanti con i capelli lunghi, barcollò trascinandosi fino ad un bar di via Santa Maria alla Porta, in pieno centro di Milano e poco lontano dalla Statale. Il volto tumefatto e insanguinato, infilò un gettone nel telefono pubblico per chiamare un’ambulanza con il braccio sinistro perché il destro, spezzato, penzolava inerte. Giuseppe Conti era stato picchiato selvaggiamente poco tempo prima all’interno del «fortino» del Movimento studentesco. Conti era un sindacalista degli edili della Uil e si era trovato il giorno sbagliato nel posto sbagliato. Lui che proprio «fascista» non si poteva definire, fu portato da un gruppo di studenti del movimento all’interno del numero 3 di via Festa del Perdono dopo che in strada fu aggredito verbalmente con l’accusa di essere un «noto picchiatore» e «amante del vino e della vita notturna». Disponibile al dialogo, Conti si era offerto di seguire i suoi accusatori con l’intenzione di dimostrare l’inconsistenza delle accuse che i compagni gli avevano rivolto. Invece di spiegare, finì in pochi minuti a terra tra i calci e i pugni del gruppo di aggressori, che mentre lo picchiavano urlavano «lurido fascista». Conti ad un certo punto svenne e per farlo riprendere, gli fu infilata la testa in un lavandino riempito di acqua gelata. Quindi fu buttato fuori a calci nel freddo del dicembre milanese, senza che nessuno dei passanti si prestasse a portargli aiuto. Il 26 gennaio una manifestazione guidata da Capanna e Luca Cafiero, vertici del Ms, finiva in sassaiola appena fuori dalla Statale con numerosi feriti tra le forze dell’ordine e i manifestanti.
Il giorno seguente, il 27 gennaio 1972 davanti all’Università milanese si consumava un altro vile pestaggio, di quaranta giovani contro uno. Questa volta non si trattava di un «nemico del popolo» come il sindacalista Uil. L’obiettivo fu un ragazzo ebreo di nazionalità israeliana, Joseph Israeli. Alla Statale aveva incontrato un ex compagno di corso di quando frequentava l’università a Siena che aveva voluto salutare. Inspiegabilmente quest’ultimo ricambiò il saluto con improperi, apostrofando Israeli come «fascista volontario di guerra e uccisore di arabi». Il ragazzo era colpevole di essere stato chiamato alle armi per il servizio obbligatorio proprio allo scoppio della guerra dei Sei giorni nel 1967 e questo bastò ai contestatori per catalogarlo come criminale di guerra. Così come bastarono poche grida ad attirare il «branco», che in una manciata di secondi si avventava sull’«ebreo fascista» per spiegargli a calci e pugni che il «fortino» era il luogo sbagliato per lui. Lo strapparono alla furia due agenti in borghese di pattuglia che si erano trovati a poca distanza dalla rissa. Mentre Israeli finiva al Policlinico, Mario Capanna rispondeva con un esposto in Procura per denunciare la dura reazione delle forze dell’ordine per un corteo ( non autorizzato) diretto verso il liceo Leonardo da Vinci occupato e minacciato di sgombero. Contestualmente il capo del Movimento veniva denunciato a sua volta per vilipendio al Capo dello Stato Giovanni Leone, che il leader studentesco aveva definito durante un comizio in piazza Santo Stefano un «miserabile reazionario». Mario Capanna fu arrestato il 29 gennaio 1972 con l’accusa di falsa testimonianza e reticenza durante gli interrogatori per il ferimento del sindacalista Conti, e finì a San Vittore. Il lìder maximo della prima fase della contestazione non fu l’esecutore materiale del pestaggio, ma respinse fermamente l’accusa di connivenza con gli autori, che disse di non conoscere. Mentre Capanna si trovava nel carcere milanese, la Questura perquisiva le sedi dei «gruppuscoli» extraparlamentari (come li aveva battezzati lo stesso leader studentesco). Nascosti negli appartamenti si trovavano spranghe e molotov pronte per l’uso in piazza pronte all’uso contro la Polizia e i fascisti, ma anche contro gli avversari di sinistra, i «revisionisti» e servi dello Stato borghese, leggasi Pci e sindacati. L’asticella del conflitto era in mano a Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia, che provvidero ad alzarla progressivamente. Alla fine di dicembre del 1971 gli inquirenti trovarono tre auto con i bagagliai pieni di molotov. Dopo la perquisizione alla sede di Potere Operaio in via Galileo Galilei a Milano, venivano fermati i proprietari di una Renault, di una Fiat 500 e di una Citroen Dyane, tutti membri del gruppo della sinistra extraparlamentare. A colpire era la loro estrazione sociale borghese e anche di più. Tra i giovani figurava un marchese di origini fiorentine residente a Biella, Francesco Mori Ubaldini degli Alberti Lamarmora, discendente del famoso generale e primo ministro del Risorgimento. Con il nobile «difensore delle masse operaie» venivano portati in Questura anche l’architetto Riccardo Sarfatti e la sua compagna Sandra Severi. La proprietaria della Dyane «esplosiva» era una studentessa di Portogruaro, Lucilla Albano, figlia di un noto commercialista della zona. A suon di bottiglie incendiarie, questi giovani avrebbero dovuto rappresentare la bandiera dell’operaismo politico che si prefiggeva di accelerare il processo di lotta di classe nelle fabbriche creando una frattura con i «nemici» del Partito comunista e delle sigle sindacali, diventati complici dei «padroni» e dello «Stato borghese». L’ombra dei gruppi extraparlamentari, i cui vertici erano spesso gemmazioni del movimento studentesco, stava sempre più oscurando le battaglie degli studenti per i diritti allo studio e per la riforma universitaria. I nemici del nuovo decennio, per la sinistra extraparlamentare erano lo Stato e praticamente tutti i partiti dell’arco costituzionale. In un clima sempre più teso, scandito da guerriglie urbane quasi quotidiane, le nuove formazioni radicalizzavano la lotta mentre la storia del Paese passava attraverso fatti di cronaca che l’avrebbero segnata. Il 3 marzo 1972 la stella a cinque punte delle Brigate Rosse esordiva sulle pagine della cronaca nazionale con il rapimento lampo del capo del personale della Sit-Siemens Idalgo Macchiarini. Passavano appena otto giorni e Milano, capitale dello scontro di piazza in quei mesi, veniva nuovamente messa a ferro e fuoco. Sul terreno rimase stavolta la vita un innocente, il pensionato sessantenne Giuseppe Tavecchio, che si era venuto a trovare nel mezzo della battaglia innescata per impedire un corteo della «maggioranza silenziosa». Tre giorni dopo sotto un traliccio dell’alta tensione nel comune di Segrate alle porte di Milano veniva rinvenuto il corpo dilaniato dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, morto per l’esplosione accidentale di un candelotto di dinamite che l’imprenditore figlio di grandi imprenditori stava innescando per provocare un black-out. Anche Feltrinelli era ossessionato dal ritorno del fascismo (in particolare in seguito al fallito golpe Borghese del 1970) ed aveva costituito i Gap, Gruppi d’azione partigiana, un’organizzazione clandestina che si rifaceva direttamente al mito resistenziale dell’ultima guerra al quale si ispireranno anche le prime Br. Un altro dei «gruppuscoli» che contribuirono alla radicalizzazione dello scontro a «sinistra della sinistra» durante il 1972 fu senza dubbio Lotta Continua, il cui leader degli esordi del gruppo milanese di Lc Michelangelo Spada esordì nel movimento a fianco di Mario Capanna durante la primissima occupazione dell’università Cattolica del capoluogo lombardo. Il 12 marzo 1972 Spada viene arrestato in occasione degli scontri del «sabato rosso» in cui perse la vita il pensionato. Dalla cronaca sulle indagini seguite alle violenze emergevano le origini tutte borghesi di Spada, figlio di un alto funzionario ministeriale romano e allora residente a Milano nella non proprio popolarissima zona di corso Magenta. Si parlò anche della rete di avvocati che proteggeva gli esponenti di Lc, quel gruppo noto poi come «soccorso rosso» del quale facevano parte gli avvocati Michele Pepe, Marco Janni e Leopoldo Leon, riuniti attorno al «Comitato di lotta e di difesa contro la repressione» per l’assistenza legale ai compagni «vittime» della mano della Giustizia di Stato e della repressione poliziesca dei protettori del mondo proletario. Leon, allora 43enne (un «vecchio» rispetto ai suoi assistiti) veniva da una famiglia della buona borghesia originaria di Napoli e a Milano risiedeva assieme alla compagna 27enne figlia di importanti «padroni» di industria. Il gruppo di legali si occupava in quel periodo di uno degli obiettivi più importanti di Lotta Continua, la liberazione del ballerino anarchico Pietro Valpreda, incarcerato per la strage di piazza Fontana. E proprio attorno alle conseguenze dell’attentato del 12 dicembre 1969 si consumò a soli due mesi dal «sabato rosso» in cui fu arrestato Spada uno dei delitti più gravi della storia repubblicana, l’omicidio del commissario Luigi Calabresi avvenuto il 17 maggio 1972. Contro il funzionario, il gruppo di «Lotta Continua» per voce dell’omonimo quotidiano si era scagliato sin dal 1970 in una violenta campagna di accusa accompagnata da spietato dossieraggio e da pagine pubblicate anche da settimanali nazionali che additavano Calabresi come il responsabile incontestabile della morte di Giuseppe Pinelli. Lotta Continua aveva già emesso la fantomatica sentenza di morte nel nome del «proletariato» e aveva riportato la delirante affermazione che il commissario fosse un agente della CIA sotto copertura. L’omicidio del commissario Calabresi fu uno spartiacque definitivo. La lotta delle formazioni extraparlamentari era ormai lontanissima dalla questione della riforma universitaria, e nulla aveva più a che fare con la rivoluzione culturale e del costume. Quella si era sviluppata precedentemente ed aveva coinvolto tutti i giovani italiani (o almeno gran parte) in una battaglia generazionale che coinvolse anche la destra. Le schegge fuoriuscite dal Movimento studentesco, nel 1972, avevano slogan e obiettivi diversi da quelli nati alla fine degli anni Sessanta. Diverso era anche il sentimento del Paese, ormai distante anni luce dalle ultime propaggini della crescita economica nata con il «boom». I gruppi extraparlamentari, nati con grande risonanza mediatica ai cancelli delle grandi fabbriche dell’«autunno caldo» per opera prevalente di studenti borghesi dovevano combattere lo Stato «nemico dei proletari» e anche tutto ciò che rientrava nella sfera politica costituzionale: in primis il Pci, il «traditore delle masse» che a partire dai primi anni Settanta si era messo a discutere di compromesso storico con la Democrazia Cristiana. E i sindacati, gemmazione dei partiti di sinistra, erano nemici alla stessa stregua. Mentre nelle piazze italiane stava per iniziare la guerra degli «opposti estremismi» tra extraparlamentari e gruppi neofascisti nati dal distacco dal Msi ritenuto ormai parte del sistema, nuovo sangue sarebbe sgorgato come tragico risultato della «strategia della tensione», vedi la bomba del 1973 alla Questura di Milano, il treno Italicus e la strage di Piazza della Loggia l’anno successivo. L’eclissi del 1968 e degli «anni formidabili» di Capanna e compagni era consumata, la «fantasia al potere» rimpiazzata dal piombo e dalle molotov, un leitmotiv per il resto del decennio, quando partirà l’attacco al «cuore dello Stato». Si vociferò, alla fine del 1972, che Mario Capanna avesse deciso di lasciare il «fortino della Statale» per trasferirsi a Pavia. La notizia non ebbe riscontro, e il leader della contestazione al tramonto scelse altre strade, evitando di compromettersi alla fine con quei «compagni che sbagliano» protagonisti della lotta armata, scegliendo la via delle elezioni con il Mls (Movimento Lavoratori per il socialismo) passando dal PdUP (partito democratico di Unità Proletaria e quindi al cartello di Democrazia Proletaria prima e con i Verdi nel decennio successivo. Gli anni ottanta, quelli dell’edonismo, vedranno ritornare tanti borghesi rivoluzionari visti sulle barricate del 1972. Questa volta però dall’altra parte, in qualità di dirigenti, giornalisti, imprenditori, politici e affermati professionisti. Qualcuno disse che dopo la metamorfosi erano diventati peggio dei «padroni della ferriera».
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Cinquant'anni fa dalla rivoluzione (borghese) della «fantasia al potere» i gruppi extraparlamentari nati da costole del movimento studentesco inauguravano una stagione di violenze, spesso contro obiettivi incomprensibilmente accusati di essere «fascisti» al soldo della borghesia. Nell'anno della morte di Feltrinelli e dell'omicidio Calabresi, l'utopia del 1968 era ormai un ricordo.Il 1972 si aprì in maniera quantomeno inquietante per il mondo universitario, in agitazione dal «mitico» 1968 . La protesta studentesca aveva già perso la propria innocenza alla fine dell’anno successivo, quando il corpo dell’agente Antonio Annarumma giacque esanime sul terreno durante gli scontri tra gli studenti e la Polizia il 19 novembre del 1969. Un mese dopo, l’Italia veniva inghiottita dalla «notte della Repubblica» con la strage di piazza Fontana. Durante la manifestazione del primo anniversario della bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in seguito a duri scontri tra studenti e polizia moriva lo studente lavoratore Saverio Saltarelli, colpito in pieno petto da un lacrimogeno.L’ Italia che poco prima aveva vissuto l’autunno caldo delle proteste operaie alle quali spesso si erano uniti gli studenti «operaisti» con risultati quantomeno discutibili, viveva un momento di forti tensioni politiche e sociali. Se da una parte le rivendicazioni dei lavoratori portarono ad un risultato concreto l’anno seguente, lo statuto dei lavoratori del 1970, il mondo studentesco parve esaurire l’onda lunga della contestazione degli esordi, mostrando evidenti segni di disgregazione interna e di frazionamento in gruppi e gruppuscoli dai quali sarebbero nate le principali formazioni della sinistra extraparlamentare degli «anni di piombo». Il clima di estrema tensione non risparmiò certo il Movimento studentesco di Mario Capanna, che tra la fine del 1971 e il nuovo anno mostrò segni evidenti di scivolamento verso l’uso sistematico della violenza contro ogni espressione di dissenso, ogni sospetto di eterodossia. I fatti parlarono chiaro attraverso le cronache e i personaggi che caddero nel mirino degli occupanti il «fortino» dell’Università Statale di Milano dove operavano stabilmente i vertici del Movimento. Ma ciò che maggiormente colpisce non è tanto la violenza in sé, presente ormai quotidianamente nello scontro ideologico e negli eventi di piazza, quanto piuttosto gli obiettivi colpiti dai ragazzi della contestazione. Leggendo nella storia di quei mesi, pare di entrare in una sorta di «mondo alla rovescia», dove i metodi squadristi sono applicati dai «katanghesi» del famigerato servizio d’ordine del movimento e i moderati invece coloro che dovranno appellarsi alle autorità per la salvaguardia delle istituzioni democratiche.Colpire un sindacalista e un ebreo per «educarne cento»Rispettando l’ordine cronologico, uno degli episodi più gravi avvenne dentro alla Statale il giorno del secondo anniversario della strage di Piazza Fontana, poco dopo la fine del corteo del 12 dicembre del 1971, caratterizzato come l’anno precedente da disordini . Un giovane come tanti con i capelli lunghi, barcollò trascinandosi fino ad un bar di via Santa Maria alla Porta, in pieno centro di Milano e poco lontano dalla Statale. Il volto tumefatto e insanguinato, infilò un gettone nel telefono pubblico per chiamare un’ambulanza con il braccio sinistro perché il destro, spezzato, penzolava inerte. Giuseppe Conti era stato picchiato selvaggiamente poco tempo prima all’interno del «fortino» del Movimento studentesco. Conti era un sindacalista degli edili della Uil e si era trovato il giorno sbagliato nel posto sbagliato. Lui che proprio «fascista» non si poteva definire, fu portato da un gruppo di studenti del movimento all’interno del numero 3 di via Festa del Perdono dopo che in strada fu aggredito verbalmente con l’accusa di essere un «noto picchiatore» e «amante del vino e della vita notturna». Disponibile al dialogo, Conti si era offerto di seguire i suoi accusatori con l’intenzione di dimostrare l’inconsistenza delle accuse che i compagni gli avevano rivolto. Invece di spiegare, finì in pochi minuti a terra tra i calci e i pugni del gruppo di aggressori, che mentre lo picchiavano urlavano «lurido fascista». Conti ad un certo punto svenne e per farlo riprendere, gli fu infilata la testa in un lavandino riempito di acqua gelata. Quindi fu buttato fuori a calci nel freddo del dicembre milanese, senza che nessuno dei passanti si prestasse a portargli aiuto. Il 26 gennaio una manifestazione guidata da Capanna e Luca Cafiero, vertici del Ms, finiva in sassaiola appena fuori dalla Statale con numerosi feriti tra le forze dell’ordine e i manifestanti.Il giorno seguente, il 27 gennaio 1972 davanti all’Università milanese si consumava un altro vile pestaggio, di quaranta giovani contro uno. Questa volta non si trattava di un «nemico del popolo» come il sindacalista Uil. L’obiettivo fu un ragazzo ebreo di nazionalità israeliana, Joseph Israeli. Alla Statale aveva incontrato un ex compagno di corso di quando frequentava l’università a Siena che aveva voluto salutare. Inspiegabilmente quest’ultimo ricambiò il saluto con improperi, apostrofando Israeli come «fascista volontario di guerra e uccisore di arabi». Il ragazzo era colpevole di essere stato chiamato alle armi per il servizio obbligatorio proprio allo scoppio della guerra dei Sei giorni nel 1967 e questo bastò ai contestatori per catalogarlo come criminale di guerra. Così come bastarono poche grida ad attirare il «branco», che in una manciata di secondi si avventava sull’«ebreo fascista» per spiegargli a calci e pugni che il «fortino» era il luogo sbagliato per lui. Lo strapparono alla furia due agenti in borghese di pattuglia che si erano trovati a poca distanza dalla rissa. Mentre Israeli finiva al Policlinico, Mario Capanna rispondeva con un esposto in Procura per denunciare la dura reazione delle forze dell’ordine per un corteo ( non autorizzato) diretto verso il liceo Leonardo da Vinci occupato e minacciato di sgombero. Contestualmente il capo del Movimento veniva denunciato a sua volta per vilipendio al Capo dello Stato Giovanni Leone, che il leader studentesco aveva definito durante un comizio in piazza Santo Stefano un «miserabile reazionario». Mario Capanna fu arrestato il 29 gennaio 1972 con l’accusa di falsa testimonianza e reticenza durante gli interrogatori per il ferimento del sindacalista Conti, e finì a San Vittore. Il lìder maximo della prima fase della contestazione non fu l’esecutore materiale del pestaggio, ma respinse fermamente l’accusa di connivenza con gli autori, che disse di non conoscere. Mentre Capanna si trovava nel carcere milanese, la Questura perquisiva le sedi dei «gruppuscoli» extraparlamentari (come li aveva battezzati lo stesso leader studentesco). Nascosti negli appartamenti si trovavano spranghe e molotov pronte per l’uso in piazza pronte all’uso contro la Polizia e i fascisti, ma anche contro gli avversari di sinistra, i «revisionisti» e servi dello Stato borghese, leggasi Pci e sindacati. L’asticella del conflitto era in mano a Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia, che provvidero ad alzarla progressivamente. Alla fine di dicembre del 1971 gli inquirenti trovarono tre auto con i bagagliai pieni di molotov. Dopo la perquisizione alla sede di Potere Operaio in via Galileo Galilei a Milano, venivano fermati i proprietari di una Renault, di una Fiat 500 e di una Citroen Dyane, tutti membri del gruppo della sinistra extraparlamentare. A colpire era la loro estrazione sociale borghese e anche di più. Tra i giovani figurava un marchese di origini fiorentine residente a Biella, Francesco Mori Ubaldini degli Alberti Lamarmora, discendente del famoso generale e primo ministro del Risorgimento. Con il nobile «difensore delle masse operaie» venivano portati in Questura anche l’architetto Riccardo Sarfatti e la sua compagna Sandra Severi. La proprietaria della Dyane «esplosiva» era una studentessa di Portogruaro, Lucilla Albano, figlia di un noto commercialista della zona. A suon di bottiglie incendiarie, questi giovani avrebbero dovuto rappresentare la bandiera dell’operaismo politico che si prefiggeva di accelerare il processo di lotta di classe nelle fabbriche creando una frattura con i «nemici» del Partito comunista e delle sigle sindacali, diventati complici dei «padroni» e dello «Stato borghese». L’ombra dei gruppi extraparlamentari, i cui vertici erano spesso gemmazioni del movimento studentesco, stava sempre più oscurando le battaglie degli studenti per i diritti allo studio e per la riforma universitaria. I nemici del nuovo decennio, per la sinistra extraparlamentare erano lo Stato e praticamente tutti i partiti dell’arco costituzionale. In un clima sempre più teso, scandito da guerriglie urbane quasi quotidiane, le nuove formazioni radicalizzavano la lotta mentre la storia del Paese passava attraverso fatti di cronaca che l’avrebbero segnata. Il 3 marzo 1972 la stella a cinque punte delle Brigate Rosse esordiva sulle pagine della cronaca nazionale con il rapimento lampo del capo del personale della Sit-Siemens Idalgo Macchiarini. Passavano appena otto giorni e Milano, capitale dello scontro di piazza in quei mesi, veniva nuovamente messa a ferro e fuoco. Sul terreno rimase stavolta la vita un innocente, il pensionato sessantenne Giuseppe Tavecchio, che si era venuto a trovare nel mezzo della battaglia innescata per impedire un corteo della «maggioranza silenziosa». Tre giorni dopo sotto un traliccio dell’alta tensione nel comune di Segrate alle porte di Milano veniva rinvenuto il corpo dilaniato dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, morto per l’esplosione accidentale di un candelotto di dinamite che l’imprenditore figlio di grandi imprenditori stava innescando per provocare un black-out. Anche Feltrinelli era ossessionato dal ritorno del fascismo (in particolare in seguito al fallito golpe Borghese del 1970) ed aveva costituito i Gap, Gruppi d’azione partigiana, un’organizzazione clandestina che si rifaceva direttamente al mito resistenziale dell’ultima guerra al quale si ispireranno anche le prime Br. Un altro dei «gruppuscoli» che contribuirono alla radicalizzazione dello scontro a «sinistra della sinistra» durante il 1972 fu senza dubbio Lotta Continua, il cui leader degli esordi del gruppo milanese di Lc Michelangelo Spada esordì nel movimento a fianco di Mario Capanna durante la primissima occupazione dell’università Cattolica del capoluogo lombardo. Il 12 marzo 1972 Spada viene arrestato in occasione degli scontri del «sabato rosso» in cui perse la vita il pensionato. Dalla cronaca sulle indagini seguite alle violenze emergevano le origini tutte borghesi di Spada, figlio di un alto funzionario ministeriale romano e allora residente a Milano nella non proprio popolarissima zona di corso Magenta. Si parlò anche della rete di avvocati che proteggeva gli esponenti di Lc, quel gruppo noto poi come «soccorso rosso» del quale facevano parte gli avvocati Michele Pepe, Marco Janni e Leopoldo Leon, riuniti attorno al «Comitato di lotta e di difesa contro la repressione» per l’assistenza legale ai compagni «vittime» della mano della Giustizia di Stato e della repressione poliziesca dei protettori del mondo proletario. Leon, allora 43enne (un «vecchio» rispetto ai suoi assistiti) veniva da una famiglia della buona borghesia originaria di Napoli e a Milano risiedeva assieme alla compagna 27enne figlia di importanti «padroni» di industria. Il gruppo di legali si occupava in quel periodo di uno degli obiettivi più importanti di Lotta Continua, la liberazione del ballerino anarchico Pietro Valpreda, incarcerato per la strage di piazza Fontana. E proprio attorno alle conseguenze dell’attentato del 12 dicembre 1969 si consumò a soli due mesi dal «sabato rosso» in cui fu arrestato Spada uno dei delitti più gravi della storia repubblicana, l’omicidio del commissario Luigi Calabresi avvenuto il 17 maggio 1972. Contro il funzionario, il gruppo di «Lotta Continua» per voce dell’omonimo quotidiano si era scagliato sin dal 1970 in una violenta campagna di accusa accompagnata da spietato dossieraggio e da pagine pubblicate anche da settimanali nazionali che additavano Calabresi come il responsabile incontestabile della morte di Giuseppe Pinelli. Lotta Continua aveva già emesso la fantomatica sentenza di morte nel nome del «proletariato» e aveva riportato la delirante affermazione che il commissario fosse un agente della CIA sotto copertura. L’omicidio del commissario Calabresi fu uno spartiacque definitivo. La lotta delle formazioni extraparlamentari era ormai lontanissima dalla questione della riforma universitaria, e nulla aveva più a che fare con la rivoluzione culturale e del costume. Quella si era sviluppata precedentemente ed aveva coinvolto tutti i giovani italiani (o almeno gran parte) in una battaglia generazionale che coinvolse anche la destra. Le schegge fuoriuscite dal Movimento studentesco, nel 1972, avevano slogan e obiettivi diversi da quelli nati alla fine degli anni Sessanta. Diverso era anche il sentimento del Paese, ormai distante anni luce dalle ultime propaggini della crescita economica nata con il «boom». I gruppi extraparlamentari, nati con grande risonanza mediatica ai cancelli delle grandi fabbriche dell’«autunno caldo» per opera prevalente di studenti borghesi dovevano combattere lo Stato «nemico dei proletari» e anche tutto ciò che rientrava nella sfera politica costituzionale: in primis il Pci, il «traditore delle masse» che a partire dai primi anni Settanta si era messo a discutere di compromesso storico con la Democrazia Cristiana. E i sindacati, gemmazione dei partiti di sinistra, erano nemici alla stessa stregua. Mentre nelle piazze italiane stava per iniziare la guerra degli «opposti estremismi» tra extraparlamentari e gruppi neofascisti nati dal distacco dal Msi ritenuto ormai parte del sistema, nuovo sangue sarebbe sgorgato come tragico risultato della «strategia della tensione», vedi la bomba del 1973 alla Questura di Milano, il treno Italicus e la strage di Piazza della Loggia l’anno successivo. L’eclissi del 1968 e degli «anni formidabili» di Capanna e compagni era consumata, la «fantasia al potere» rimpiazzata dal piombo e dalle molotov, un leitmotiv per il resto del decennio, quando partirà l’attacco al «cuore dello Stato». Si vociferò, alla fine del 1972, che Mario Capanna avesse deciso di lasciare il «fortino della Statale» per trasferirsi a Pavia. La notizia non ebbe riscontro, e il leader della contestazione al tramonto scelse altre strade, evitando di compromettersi alla fine con quei «compagni che sbagliano» protagonisti della lotta armata, scegliendo la via delle elezioni con il Mls (Movimento Lavoratori per il socialismo) passando dal PdUP (partito democratico di Unità Proletaria e quindi al cartello di Democrazia Proletaria prima e con i Verdi nel decennio successivo. Gli anni ottanta, quelli dell’edonismo, vedranno ritornare tanti borghesi rivoluzionari visti sulle barricate del 1972. Questa volta però dall’altra parte, in qualità di dirigenti, giornalisti, imprenditori, politici e affermati professionisti. Qualcuno disse che dopo la metamorfosi erano diventati peggio dei «padroni della ferriera».
Il governatore della banca centrale indiana Sanjay Malhotra (Getty Images)
La decisione arriva dopo i dati ufficiali diffusi la scorsa settimana, che certificano un’espansione dell’8,2% nel trimestre chiuso a settembre. Numeri che mostrano come l’economia indiana abbia finora assorbito senza scosse l’impatto dei dazi al 50% imposti dagli Stati Uniti sulle esportazioni di Nuova Delhi.
Un sostegno decisivo è arrivato dal crollo dell’inflazione: dal sopra il 6% registrato nel 2024 a livelli prossimi allo zero. Un calo che, secondo gli analisti, offre ulteriore margine per nuovi tagli nei prossimi mesi. «Nonostante un contesto esterno sfavorevole, l’economia indiana ha mostrato una resilienza notevole», ha dichiarato Malhotra, pur avvertendo che la crescita potrebbe «attenuarsi leggermente». Ma la combinazione di espansione superiore alle attese e inflazione «benigna» nel primo semestre fiscale rappresenta, ha aggiunto, «un raro periodo Goldilocks».
Sulla scia dell’ottimismo, l’RBI ha rivisto al rialzo la stima di crescita per l’anno fiscale che si chiuderà a marzo: +7,3%, mezzo punto in più rispetto alle previsioni precedenti.
La reazione dei mercati è stata immediata: la Borsa di Mumbai ha chiuso in rialzo (Sensex +0,2%, Nifty 50 +0,3%), mentre la rupia si è indebolita dello 0,4% superando quota 90 sul dollaro, molto vicino ai minimi storici toccati due giorni prima. La valuta indiana è la peggiore d’Asia dall’inizio dell’anno. Malhotra ha ribadito che la banca centrale non persegue un tasso di cambio specifico: «Il nostro obiettivo è solo ridurre volatilità anomala o eccessiva».
Il Paese, fortemente trainato dalla domanda interna, risente meno di altri dell’offensiva tariffaria voluta da Donald Trump, che ad agosto ha raddoppiato i dazi sui prodotti indiani come ritorsione per gli acquisti di petrolio russo scontato. Una rupia debole, inoltre, aiuta alcuni esportatori a restare competitivi. Tuttavia, gli analisti prevedono che gli effetti più pesanti della guerra commerciale si vedranno nell’attuale trimestre e invitano a prudenza anche sulla recente lettura del Pil.
Tra gli obiettivi politici di lungo periodo rimane quello fissato dal premier Narendra Modi: diventare un Paese «sviluppato» entro il 2047, centenario dell’indipendenza. Per riuscirci, servirebbe una crescita media dell’8% l’anno. Il governo ha avviato negli ultimi mesi una serie di riforme strutturali - dalla semplificazione dell’imposta su beni e servizi alla revisione del codice del lavoro - per proteggere l’economia dagli shock esterni.
Malhotra aveva assunto la guida dell’RBI in una fase di rallentamento economico e inflazione oltre il tetto del 6%. Da allora ha accelerato sul fronte monetario: tre tagli consecutivi nei primi mesi del 2025 per un punto percentuale complessivo. L’inflazione retail di ottobre si è fermata allo 0,25% annuo.
Il governatore ha annunciato anche un intervento di liquidità: operazioni di mercato aperto per 1.000 miliardi di rupie e swap dollaro-rupia per 5 miliardi di dollari, per sostenere il sistema finanziario.
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Palazzo Berlaymont a Bruxelles, sede della Commissione europea (Getty Images)
Una di queste si chiama S-info, che sta per Sustainable information. Come si legge sul sito ufficiale, «si tratta di un progetto finanziato dall’Ue, incentrato sui media e ispirato dall’esigenza di rafforzare la democrazia. Ha una durata di due anni, da dicembre 2023 a novembre 2025. Coinvolge organizzazioni di quattro Paesi dell’Unione europea: Italia, Belgio, Romania e Malta. Il progetto esplorerà i modi in cui gli attivisti della società civile e i giornalisti indipendenti possono collaborare per svolgere giornalismo investigativo, combattere la disinformazione, combattere la corruzione, promuovere i diritti sociali e difendere l’ambiente. L’obiettivo finale è quello di creare un modello operativo di attivismo mediatico sostenibile che possa essere trasferito ad altri Paesi e contesti».
La tiritera è la solita: lotta alla disinformazione, promozione dei diritti... S-info è finanziato da Eacea, ovvero l’agenzia esecutiva della Commissione europea che gestisce il programma Europa creativa, il quale a sua volta finanzia il progetto giornalistico in questione con la bellezza di 492.989 euro. E che cosa fa con questi soldi il progetto europeo? Beh, tra le altre cose finanzia inchieste che sono presentate come giornalismo investigativo. Una di queste è stata realizzata da Alice Dominese, la cui biografia online descrive come «laureata in Scienze politiche e relazioni internazionali tra Italia e Francia, con un master in giornalismo. Collabora con L’Espresso e Domani, e ha scritto per La Stampa, Il Manifesto e The Post Internazionale, tra gli altri. Si occupa principalmente di diritti, migrazione e tematiche di genere».
La sua indagine, facilmente rintracciabile online, è intitolata Sottotraccia ed è dedicata ai temibili movimenti pro vita. «Questo articolo», si legge nella presentazione, «è il frutto di una delle due inchieste finanziate in Italia dal grant del progetto europeo S-info, cofinanziato dalla Commissione europea. La pubblicazione originale si trova sul sito ufficiale del progetto. In questa inchiesta, interviste e analisi di documenti ottenuti tramite una richiesta di accesso agli atti esplorano il rapporto tra movimento antiabortista, sanità e servizi pubblici in Piemonte. Le informazioni raccolte fanno luce sull’uso che le associazioni pro vita fanno dei finanziamenti regionali e sul ruolo della Stanza dell’ascolto, il presidio che ha permesso a queste associazioni di inserirsi nel primo ospedale per numero di interruzioni volontarie di gravidanza in Italia».
Niente in contrario ai finanziamenti pubblici, per carità. Ma guarda caso questi soldi finiscono a giornalisti decisamente sinistrorsi che, pronti via, se la prendono con i movimenti per la vita. Non stupisce, dopo tutto i partner italiani del progetto S-info sono Globalproject.info, Melting pot Europa e Sherwood.it, tutti punti di riferimento mediatici della sinistra antagonista.
Proprio Radio Sherwood, lo scorso giugno, ha organizzato a Padova il S-info day, durante il quale è stato presentato il manifesto per il giornalismo sostenibile. Evento clou della giornata un dibattito intitolato «Sovvertire le narrazioni di genere». Partecipanti: «L’attivista transfemminista Elena Cecchettin e la giornalista Giulia Siviero, moderato da Anna Irma Battino di Global project». La discussione si è concentrata «su come le narrazioni di genere, troppo spesso costruite attorno a stereotipi o plasmate da dinamiche di potere, possano essere decostruite e trasformate attraverso un giornalismo più consapevole, posizionato e inclusivo». Tutto meraviglioso: la Commissione europea combatte la disinformazione finanziando incontri sulla decostruzione del genere e inchieste contro i pro vita. Alla faccia della libera informazione.
«Da Bruxelles», ha dichiarato Maurizio Marrone, assessore piemontese alle Politiche sociali, «arriva una palese ingerenza estera per screditare azioni deliberate dal governo regionale eletto dai piemontesi, peraltro con allarmismi propagandistici smentiti dalla realtà. Il nostro fondo Vita nascente finanzia sì anzitutto i progetti dei centri di aiuto alla vita a sostegno delle madri in difficoltà, ma eroga contributi anche ai servizi di assistenza pubblica per le medesime finalità, partendo dall’accompagnamento nei parti in anonimato. Ci troviamo di fronte a un grave precedente, irrispettoso delle autonomie locali italiane e della loro sovranità».
Carlo Fidanza, capodelegazione europeo di Fdi, annuncia invece che presenterà «un’interrogazione parlamentare alla Commissione europea per far luce sui finanziamenti dell’agenzia Eacea a questi attacchi mediatici creati a tavolino per alimentare odio ideologico contro il volontariato pro vita. L’Unione europea dovrebbe sostenere le politiche delle Regioni italiane, non alimentare con soldi pubblici la macchina del fango contro le loro iniziative non omologate al pensiero unico woke».
Insomma, a Bruxelles piace il giornalismo libero. A patto che sia pagato dai contribuenti per prendersela con i nemici ideologici.
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