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2022-03-14
Il «118» ha trent'anni. Dalle origini alle nuove sfide
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Intervento di più mezzi del 118 Milano (Ansa)
Un decreto, firmato trent’anni fa dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, poneva il sigillo a una rivoluzione nella storia dell’emergenza sanitaria in Italia. Il D.L. presentato dal Ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, trattava l’introduzione del numero unico per l’emergenza sanitaria, il 118. La portata e gli effetti sulla salute dei cittadini italiani del «prima» e del «dopo» il decreto sono difficili da spiegare se non ricorrendo ad un esempio di fantasia, condiviso con il dottor Andrea Andreucci (vicepresidente SIIET - Società Italiana Infermieri Emergenza Territoriale) durante una conversazione telefonica.
Prima degli anni Novanta in Italia l’organizzazione del soccorso sanitario extraospedaliero era caratterizzata da una estrema frammentazione che generava forti differenze a livello addirittura locale, oltre che regionale. La professionalità delle figure del soccorso sanitario era assai trascurata, prevalendo nel Paese la consuetudine radicata da decenni che il cuore del trattamento dei pazienti fosse la struttura ospedaliera, e che tutte le attività di emergenza al di fuori del pronto soccorso dovessero ridursi al trasporto più rapido possibile presso la struttura più vicina. E null’altro. Prevalentemente formate da volontari dall’indubbio impegno ma dalla scarsa o nulla preparazione, le ambulanze delle croci sparse sul territorio si riducevano a puri mezzi di trasporto dall’evento all’ospedale senza prevedere alcun tipo di trattamento preospedaliero sul posto o durante il tragitto. Per non parlare della situazione delle comunicazioni telefoniche tra le ambulanze e la popolazione, in mancanza di un numero di riferimento unico e ben memorizzabile. Al di là di alcuni grandi centri urbani che avevano istituito centrali di risposta spesso gestite da figure non sanitarie (come il numero 7733 gestito dalla Polizia Municipale milanese) la stragrande maggioranza delle associazioni di pronto intervento italiane rispondevano da un numero telefonico locale, che il cittadino doveva reperire prima di poter chiamare per un’urgenza. E non sempre l’associazione raggiunta aveva un mezzo pronto all’intervento perché mancava una centralizzazione operativa tra le croci, per cui poteva capitare che sul posto arrivassero più di un’ambulanza oppure nessuna. Un terno al lotto giocato sulla vita e sul tempo, aspetto primario del buon esito di un soccorso, al quale l’unica alternativa poteva essere un fazzoletto bianco e una vettura privata in corsa verso l’ospedale a colpi di clacson con tutte le conseguenze negative del caso. Poniamo il caso, si diceva con Andreucci, che nel 1981 una macchina con a bordo una donna e l’anziano padre si fosse accostata improvvisamente a lato della carreggiata di una strada provinciale a circa cinque chilometri dal primo centro abitato. La signora si accorge che il padre dopo un improvviso malore giace incosciente sul sedile a fianco. Dopo aver capito la gravità delle condizioni (un paio di minuti sotto shock senza sapere come intervenire) la signora riaccende il motore e vola a tutta velocità (rischiando anche la sua vita e quella degli altri sulla strada) verso il primo paese, raggiungendolo in altri 7 minuti circa. Non essendovi ancora i cellulari, la macchina con il morente a bordo gira ancora per circa 5-6 minuti alla ricerca di un telefono pubblico. Se fortunata, al bar i gestori conoscono il numero della più vicina sede delle ambulanze, altrimenti è necessaria una ricerca su rubrica che può richiedere altro tempo preziosissimo. Al centralino della croce, a 10 chilometri di distanza, risponde una volontaria senza particolari nozioni sanitarie che invia (se disponibile) un mezzo con operatori non preparati al trattamento di pazienti critici. Passano ancora 20 minuti. Quando l’ambulanza lo carica, l’anziano è in arresto cardiocircolatorio e le manovre di rianimazione, attuate senza protocolli specifici e strumenti adeguati (né tantomeno farmaci salvavita) risultano inefficaci e l’ospedale (non attrezzato magari per questo tipo di trattamento) dista 25 minuti di corsa in sirena, che l’ambulanza percorre senza apparato radio a bordo per potere allertare la rianimazione del pronto soccorso. Dopo oltre un’ora dall’evento, all’ospedale l’uomo è dichiarato deceduto.
Decidiamo poi di ripetere il medesimo scenario nel 2022. Dalla macchina la figlia chiama il numero 118 con il suo smartphone. Dopo pochi secondi è in linea con un infermiere operatore di centrale che grazie alle informazioni capisce che il paziente è in arresto cardiaco (in meno di un minuto). L’operatore rimane in linea e dà istruzioni di rianimazione cardiopolmonare alla figlia, che subito sdraia il padre supino sul terreno e inizia il massaggio cardiaco guidata dalla centrale operativa, dove è presente un medico responsabile. Geolocalizzata dal gps, la posizione dell’evento appare sul terminale del 118 che segnala i mezzi di soccorso pronti all’intervento. Dalla sede delle ambulanze esce un mezzo con a bordo i volontari certificati soccorritori dal 118 stesso e con il defibrillatore semiautomatico a bordo, mentre all’elibase più vicina già ruotano le pale dell’elisoccorso con medico, infermiere e tecnico di soccorso alpino sui sedili. In 10 minuti il mezzo di soccorso di base arriva sul posto e la rianimazione prosegue con la defibrillazione precoce che fortunatamente dà esito. Pochi minuti dopo, in un campo vicino si posa l’elicottero giallo e il personale medico prende in carico il paziente stabilizzandolo sul posto con ventilazione assistita e farmaci. Il cuore batte nuovamente scandito dal beep del monitor e questo anche grazie alle manovre della figlia che per prima ha garantito il flusso ematico al cervello del padre dopo solo un minuto. Sull’elicottero il paziente è come fosse già in ospedale, mentre il pilota fa decollare il velivolo verso la struttura più attrezzata per il trattamento specifico, dopo meno di un’ora dall'insorgenza dei sintomi. Quel signore vivrà.
Questa premessa di fantasia, ma spesso coincidente con la realtà, spiega sommariamente i passi da gigante realizzati nell’ultimo trentennio grazie all’organizzazione sanitaria che ruota attorno al 118, frutto di un profondo impegno e di una lotta a livello nazionale di medici e infermieri nei confronti delle istituzioni non di rado culturalmente reticenti ad allocare risorse allo sviluppo del soccorso extraospedaliero. Dal precedente esempio di fantasia, emerge chiaramente quanto raggiunto oggi grazie alla professionalizzazione delle figure dell’emergenza aiutate dalla disponibilità di risorse tecnologiche e sanitarie. Nel linguaggio tecnico, come spiega Andreucci, il progresso ha ribaltato completamente la pratica operativa sul campo, passando da una priorità di «scoop and run», un po’ come dire «spazza e corri in ospedale» a quella di «stay and play», ossia rimani e opera sul posto, con le competenze necessarie. Il percorso è stato lungo e tortuoso, in un Paese dove si disserta di riforme strutturali a volte mai realizzate fin dagli anni Sessanta. Si può a ragione affermare che sia stata anche la storia più drammatica dell’Italia degli ultimi 50 anni ad avere generato la necessità imprescindibile di dotare il territorio nazionale di un’organizzazione del soccorso sanitario e in generale degli organi preposti all’emergenza. La storia stessa del numero unico racconta che le spinte vennero dagli eventi più traumatici vissuti dal paese, che evidenziarono gravi carenze a livello organizzativo. Si parla della strage di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia culmine degli anni della strategia della tensione, le bombe sui treni (vedi l’Italicus) e la strage di Bologna, le calamità naturali come i terremoti in Friuli e in Irpinia o gli incidenti mostrati al Paese intero come la vicenda di Vermicino a mettere di fronte agli occhi degli Italiani tutta l’inadeguatezza (o meglio l’inesistenza) di un’efficace macchina dei soccorsi. Tra i primi a muoversi e ad organizzarsi furono i sanitari di Bologna dell’Ospedale Maggiore che già alla fine degli anni Sessanta erano stati i primi ad organizzare una centrale operativa anche se inizialmente pensata solo per il coordinamento dei trasporti tra ospedale e ospedale. Il CePIS si dimostrò un modello anche se primitivo nella logistica di maxiemergenze che colpirono Bologna come la bomba del 2 agosto 1980 e l’incidente ferroviario del 1978 a Murazze di Vado. Grazie all’impegno incessante sia sui mezzi che a livello organizzativo di figure professionali come il dottor Marco Vigna, organico al Maggiore, nacque la prima centrale operativa esclusivamente dedicata all’emergenza sanitaria, Bologna Soccorso, che fece da pilota per quello che sarà lo sviluppo delle centrali operative di emergenza-urgenza attuali, grazie anche alla stipula di convenzioni con enti e associazioni di soccorso e alla valorizzazione professionale degli operatori infermieristici medici e tecnici, oltre che allo sviluppo delle tecnologie nelle comunicazioni radio e telefoniche. Bologna, nel 1985 sarà la prima centrale regionale a dotarsi del servizio di elisoccorso, seguita a poca distanza dall’ospedale Niguarda di Milano. La sperimentazione del numero unico 118 avvenne in occasione dei mondiali di calcio del 1990 e fu attivo poco dopo in via sperimentale presso l’ospedale della Misericordia di Udine dipendente dalla regione autonoma del Friuli Venezia Giulia, fino alla graduale estensione alle altre regioni e provincie autonome Italiane a partire dal marzo 1992.
Il punto di vista del ruolo clinico e la sua evoluzione a partire dalla nascita delle centrali operative 118 lo sintetizza Andreucci, sottolineando le differenze abissali con il passato riguardo la professione infermieristica nel soccorso sanitario extraospedaliero, che una volta - sottolinea- riguardavano la fascia più bassa e meno ambita della professione. Oggi, con l’evoluzione del sistema, l’infermiere del 118 è una figura che ha una importanza professionale simile a quella del medico grazie alla formazione specifica nell’emergenza-urgenza a tutti i livelli della catena professionale, dal tecnico di centrale all’infermiere sull’ambulanza o in elisoccorso in grado di intervenire sul paziente con strumenti e farmaci salvavita. Come la figura sanitaria, anche quella laica del soccorritore (sia dipendente che volontario) ha beneficiato grandemente - dice Andreucci - dell’istituzione del servizio 118 in quanto la formazione di questi ultimi, curata direttamente da enti convenzionati o dal 118 stesso, ha permesso di livellare il gap formativo con le figure professionali sanitarie creando una più stretta commistione che in qualche caso ha creato intercambiabilità di ruoli. Il tutto a beneficio di quelle che vengono considerate le 5 patologie tempo-dipendenti, ossia particolarmente sensibili alla «golden hour», il periodo limite tra l’insorgenza della patologia ed il trattamento ospedaliero specialistico (infarto, ictus, politrauma, ostetricia, neonatologia, pediatria). Questa progressione appena descritta è contenuta nel testo della «Carta di Riva», sottoscritta dalle principali associazioni ed enti del settore dell’emergenza-urgenza italiane. Nel testo è contenuto quello che dovrebbe rappresentare il futuro e gli standard dell’emergenza extraospedaliera, con il superamento definitivo della residua frammentarietà a livello regionale con l’obiettivo di fornire ai pazienti una qualità assistenziale e gli strumenti per attuarla uniforme e sempre più efficiente.
Si riallaccia al discorso di Andreucci una figura clinica che fu tra i promotori e poi i fautori della grande rivoluzione del numero unico per l’emergenza: il professor Mario Costa, oggi presidente di Siems (Società Italiana dell’Emergenza Sanitaria) e già fondatore e direttore della Centrale Operativa Ares 118 di Roma, oltre che cattedratico e organico all’ospedale L.Spallanzani. Raggiunto telefonicamente da «La Verità», ci spiega subito come la grande sfida delle centrali e del numero unico in Italia fosse stata prima di tutto una battaglia culturale, antitetica all’impostazione del mondo sanitario nei confronti dell’aspetto dell’intervento extraospedaliero. «Fino all’avvento del 118 - spiega il medico - l’emergenza sanitaria extraospedaliera era poco o nulla considerata, in quanto dominava l’idea che tutto ciò che era parte del soccorso fosse da svolgere tra le mura dell’ospedale». Questa situazione, dominante per decenni, impedì la necessaria allocazione di risorse economiche per lo sviluppo del sistema riflettendosi necessariamente sul numero di vite salvate, con un bilancio evidentemente negativo. Quella del professor Costa e dei suoi colleghi fu una battaglia contro un muro che pareva all’epoca incrollabile, e fu chiaro dall’inizio che per abbatterlo bisognasse partire dalle fondamenta, da un cambiamento di prospettiva che, oltre che medico, riguardava l’aspetto amministrativo della sanità italiana. Partire da zero fu obbligatorio, per cercare di cambiare quella mentalità che produceva a cascata una fortissima frammentazione territoriale, spesso delegata a enti e associazioni volontarie non coordinate tra loro e dalla scarsa preparazione professionale. L’idea di Costa e dei promotori dell’attuale sistema si traduceva in una visione diametralmente opposta a quella dominante. «Il sistema - prosegue Costa - si basava su una sequenza portante che prevedeva una serie di passaggi precedentemente ignorati: analisi della chiamata di emergenza, invio del mezzo idoneo più competitivo». Pare scontato oggi, allora non lo era affatto, basti pensare che come descritto sopra non era chiaro neppure il numero da comporre in casa di emergenza, che quasi cambiava da comune a comune. Il secondo strato del muro, spiega Costa, «è stato quello della formazione professionale degli operatori. Ai tempi anche in Università non esisteva la specializzazione medica dedicata alla rianimazione extraospedaliera, una caratteristica allora esclusiva del mondo anglosassone». Ma creare il sistema 118 significava molto di più, perché la sfida era medica, ma anche tecnologica. « Oltre al completamento di una serie di esigenze gestionali - spiega Costa- c’era la questione tecnica del funzionamento del numero unico: l’uso della radio e delle comunicazioni standardizzate, tutti gli aspetti informatici per la gestione dei dati relativi alle chiamate e al paziente e alla distribuzione sul territorio dei mezzi di soccorso e relativo personale». I mezzi di soccorso, nel sistema nuovo, non erano più soltanto quelli forniti dalle associazioni volontarie, ma anche mezzi di soccorso avanzato (le automediche e infermieristiche) gestite direttamente dalla Centrale e dislocate nei vari ospedali. Oltre al soccorso via terra, c’era da gestire anche il servizio di elisoccorso, su cui operava il personale medico e infermieristico dipendente dal sistema regionale emergenza-urgenza, mentre velivolo e piloti venivano forniti da società gestite secondo il sistema dei capitolati. Un lavoro immane, che prevedeva anche l’avanzamento e la valorizzazione professionale delle figure del soccorso extraospedaliero, tra cui quella dell’infermiere professionale. Nel sistema centralizzato l’Ip diventa un perno attorno a cui ruota il sistema, dalla gestione dei farmaci (il primo in ordine cronologico fu l’ossigeno che fino ad allora non era regolamentato) fino ai salvavita e alle operazioni di gestione della Centrale operativa, alla logistica di mezzi e materiale sanitario da gestire al termine di ogni missione. Un passo da gigante, quello del 1992. Ma - ricorda il professor Costa - «non ancora concluso. Le sfide future riguardano una più diffusa standardizzazione nel rispetto delle realtà regionali, dei protocolli condivisi, della tecnologia sempre più importante e efficace nelle operazioni di soccorso. Che possa mettere d’accordo la decisione politica con le esigenze del territorio. A totale beneficio della popolazione».
La tecnologia è quel supporto che nel caso del 118 ha fatto la differenza. Ha permesso ai professionisti di mettere in pratica in maniera sempre più efficace le proprie capacità in medicina dell’emergenza. Basti pensare all’evoluzione dei sistemi radio, telefonici e soprattutto della geolocalizzazione, che oggi è presente in ogni smartphone disponibile al pubblico. Il sistema informatico del 118 ha tratto grandissimo vantaggio, sia in termini di localizzazione dell’evento che nella gestione dei mezzi di emergenza disponibili sul territorio, sia di base che avanzati. Questa tecnologia è oggi presente anche nelle centrali operative del Numero Unico di emergenza 112, recepito e applicato secondo direttiva europea. All’inizio accolto freddamente, visto dai detrattori come un doppione del 118 si è dimostrato dopo la sperimentazione in alcune regioni d’Italia uno strumento efficace. Centralizzando a sé tutte le chiamate di emergenza (Forze dell’ordine, Vigili del fuoco, Soccorso sanitario) con la possibilità di risposta entro pochi secondi ha garantito un’ulteriore ottimizzazione delle tempistiche di intervento, liberando risorse fondamentali per la gestione dell’emergenza. Una percentuale sensibile delle migliaia di chiamate giornaliere al 118 e agli altri numeri di pubblico soccorso erano inadeguate o non pertinenti (come richieste di informazioni, domande su farmaci o medici di famiglia, non-urgenze o addirittura scherzi telefonici). Queste chiamate impegnavano necessariamente un tecnico di centrale togliendo temporaneamente una risorsa, o trattavano questioni in cui l’invio del mezzo di soccorso non si sarebbe reso necessario. E ancora, passi da gigante sono state fatte nelle comunicazioni radio tra centrale e mezzi (sia delle associazioni volontarie e Cri che le automediche del 118). Un esempio su tutti è il sistema adottato da Areu (Agenzia Regionale Emergenza Urgenza) in Lombardia. La struttura diretta oggi dal dottor Alberto Zoli adotta un sistema di codici radio protetti (sistema Tetra) che mettono in contatto in tempo reale la Centrale e le ambulanze, dotate di un terminale radio simile a un tablet. Qui gli estremi dell’intervento, il codice di gravità e la localizzazione appaiono contemporaneamente alla compilazione della scheda da parte del tecnico di Centrale, che seguirà il mezzo per tutto il servizio. Dall’altra parte l’equipaggio, tramite questo tipo di soluzione tecnologica, può comunicare immediatamente i parametri vitali del paziente e altre notizie fondamentali al tipo di trattamento e all’ospedalizzazione nella struttura ospedaliera più indicata. Un sistema che ha permesso di risparmiare preziosissimi minuti (e che ha risparmiato di conseguenza molte vite). Proprio il dottor Zoli, in un recente incontro con i media, ha elencato i numeri dell’attività del 112 lombardo ai tempi del covid, uno stress test senza precedenti per il sistema emergenza-urgenza. Dai dati raccolti da Areu sul numero 112 (introdotto in Lombardia in via sperimentale già nel 2010) nell'anno 2021 le centrali operative regionali hanno ricevuto 4.417.537 chiamate, per una media giornaliera di 12.103 richieste. Il calcolo del tempo di attesa per la risposta di un operatore ha dato un risultato strabiliante: 4,5 secondi di attesa media. La rubrica telefonica, il cartoncino con i numeri delle croci locali, il numero dell'ospedale e il telefono fisso sono un ricordo. Lontano trent'anni.
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Il numero unico di emergenza sanitaria fu una rivoluzione che ha permesso di salvare moltissime vite. Fu una conquista culturale, professionale e tecnologica, ancora oggi in evoluzione. Due protagonisti lo raccontano.Un decreto, firmato trent’anni fa dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, poneva il sigillo a una rivoluzione nella storia dell’emergenza sanitaria in Italia. Il D.L. presentato dal Ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, trattava l’introduzione del numero unico per l’emergenza sanitaria, il 118. La portata e gli effetti sulla salute dei cittadini italiani del «prima» e del «dopo» il decreto sono difficili da spiegare se non ricorrendo ad un esempio di fantasia, condiviso con il dottor Andrea Andreucci (vicepresidente SIIET - Società Italiana Infermieri Emergenza Territoriale) durante una conversazione telefonica. Prima degli anni Novanta in Italia l’organizzazione del soccorso sanitario extraospedaliero era caratterizzata da una estrema frammentazione che generava forti differenze a livello addirittura locale, oltre che regionale. La professionalità delle figure del soccorso sanitario era assai trascurata, prevalendo nel Paese la consuetudine radicata da decenni che il cuore del trattamento dei pazienti fosse la struttura ospedaliera, e che tutte le attività di emergenza al di fuori del pronto soccorso dovessero ridursi al trasporto più rapido possibile presso la struttura più vicina. E null’altro. Prevalentemente formate da volontari dall’indubbio impegno ma dalla scarsa o nulla preparazione, le ambulanze delle croci sparse sul territorio si riducevano a puri mezzi di trasporto dall’evento all’ospedale senza prevedere alcun tipo di trattamento preospedaliero sul posto o durante il tragitto. Per non parlare della situazione delle comunicazioni telefoniche tra le ambulanze e la popolazione, in mancanza di un numero di riferimento unico e ben memorizzabile. Al di là di alcuni grandi centri urbani che avevano istituito centrali di risposta spesso gestite da figure non sanitarie (come il numero 7733 gestito dalla Polizia Municipale milanese) la stragrande maggioranza delle associazioni di pronto intervento italiane rispondevano da un numero telefonico locale, che il cittadino doveva reperire prima di poter chiamare per un’urgenza. E non sempre l’associazione raggiunta aveva un mezzo pronto all’intervento perché mancava una centralizzazione operativa tra le croci, per cui poteva capitare che sul posto arrivassero più di un’ambulanza oppure nessuna. Un terno al lotto giocato sulla vita e sul tempo, aspetto primario del buon esito di un soccorso, al quale l’unica alternativa poteva essere un fazzoletto bianco e una vettura privata in corsa verso l’ospedale a colpi di clacson con tutte le conseguenze negative del caso. Poniamo il caso, si diceva con Andreucci, che nel 1981 una macchina con a bordo una donna e l’anziano padre si fosse accostata improvvisamente a lato della carreggiata di una strada provinciale a circa cinque chilometri dal primo centro abitato. La signora si accorge che il padre dopo un improvviso malore giace incosciente sul sedile a fianco. Dopo aver capito la gravità delle condizioni (un paio di minuti sotto shock senza sapere come intervenire) la signora riaccende il motore e vola a tutta velocità (rischiando anche la sua vita e quella degli altri sulla strada) verso il primo paese, raggiungendolo in altri 7 minuti circa. Non essendovi ancora i cellulari, la macchina con il morente a bordo gira ancora per circa 5-6 minuti alla ricerca di un telefono pubblico. Se fortunata, al bar i gestori conoscono il numero della più vicina sede delle ambulanze, altrimenti è necessaria una ricerca su rubrica che può richiedere altro tempo preziosissimo. Al centralino della croce, a 10 chilometri di distanza, risponde una volontaria senza particolari nozioni sanitarie che invia (se disponibile) un mezzo con operatori non preparati al trattamento di pazienti critici. Passano ancora 20 minuti. Quando l’ambulanza lo carica, l’anziano è in arresto cardiocircolatorio e le manovre di rianimazione, attuate senza protocolli specifici e strumenti adeguati (né tantomeno farmaci salvavita) risultano inefficaci e l’ospedale (non attrezzato magari per questo tipo di trattamento) dista 25 minuti di corsa in sirena, che l’ambulanza percorre senza apparato radio a bordo per potere allertare la rianimazione del pronto soccorso. Dopo oltre un’ora dall’evento, all’ospedale l’uomo è dichiarato deceduto. Decidiamo poi di ripetere il medesimo scenario nel 2022. Dalla macchina la figlia chiama il numero 118 con il suo smartphone. Dopo pochi secondi è in linea con un infermiere operatore di centrale che grazie alle informazioni capisce che il paziente è in arresto cardiaco (in meno di un minuto). L’operatore rimane in linea e dà istruzioni di rianimazione cardiopolmonare alla figlia, che subito sdraia il padre supino sul terreno e inizia il massaggio cardiaco guidata dalla centrale operativa, dove è presente un medico responsabile. Geolocalizzata dal gps, la posizione dell’evento appare sul terminale del 118 che segnala i mezzi di soccorso pronti all’intervento. Dalla sede delle ambulanze esce un mezzo con a bordo i volontari certificati soccorritori dal 118 stesso e con il defibrillatore semiautomatico a bordo, mentre all’elibase più vicina già ruotano le pale dell’elisoccorso con medico, infermiere e tecnico di soccorso alpino sui sedili. In 10 minuti il mezzo di soccorso di base arriva sul posto e la rianimazione prosegue con la defibrillazione precoce che fortunatamente dà esito. Pochi minuti dopo, in un campo vicino si posa l’elicottero giallo e il personale medico prende in carico il paziente stabilizzandolo sul posto con ventilazione assistita e farmaci. Il cuore batte nuovamente scandito dal beep del monitor e questo anche grazie alle manovre della figlia che per prima ha garantito il flusso ematico al cervello del padre dopo solo un minuto. Sull’elicottero il paziente è come fosse già in ospedale, mentre il pilota fa decollare il velivolo verso la struttura più attrezzata per il trattamento specifico, dopo meno di un’ora dall'insorgenza dei sintomi. Quel signore vivrà. Questa premessa di fantasia, ma spesso coincidente con la realtà, spiega sommariamente i passi da gigante realizzati nell’ultimo trentennio grazie all’organizzazione sanitaria che ruota attorno al 118, frutto di un profondo impegno e di una lotta a livello nazionale di medici e infermieri nei confronti delle istituzioni non di rado culturalmente reticenti ad allocare risorse allo sviluppo del soccorso extraospedaliero. Dal precedente esempio di fantasia, emerge chiaramente quanto raggiunto oggi grazie alla professionalizzazione delle figure dell’emergenza aiutate dalla disponibilità di risorse tecnologiche e sanitarie. Nel linguaggio tecnico, come spiega Andreucci, il progresso ha ribaltato completamente la pratica operativa sul campo, passando da una priorità di «scoop and run», un po’ come dire «spazza e corri in ospedale» a quella di «stay and play», ossia rimani e opera sul posto, con le competenze necessarie. Il percorso è stato lungo e tortuoso, in un Paese dove si disserta di riforme strutturali a volte mai realizzate fin dagli anni Sessanta. Si può a ragione affermare che sia stata anche la storia più drammatica dell’Italia degli ultimi 50 anni ad avere generato la necessità imprescindibile di dotare il territorio nazionale di un’organizzazione del soccorso sanitario e in generale degli organi preposti all’emergenza. La storia stessa del numero unico racconta che le spinte vennero dagli eventi più traumatici vissuti dal paese, che evidenziarono gravi carenze a livello organizzativo. Si parla della strage di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia culmine degli anni della strategia della tensione, le bombe sui treni (vedi l’Italicus) e la strage di Bologna, le calamità naturali come i terremoti in Friuli e in Irpinia o gli incidenti mostrati al Paese intero come la vicenda di Vermicino a mettere di fronte agli occhi degli Italiani tutta l’inadeguatezza (o meglio l’inesistenza) di un’efficace macchina dei soccorsi. Tra i primi a muoversi e ad organizzarsi furono i sanitari di Bologna dell’Ospedale Maggiore che già alla fine degli anni Sessanta erano stati i primi ad organizzare una centrale operativa anche se inizialmente pensata solo per il coordinamento dei trasporti tra ospedale e ospedale. Il CePIS si dimostrò un modello anche se primitivo nella logistica di maxiemergenze che colpirono Bologna come la bomba del 2 agosto 1980 e l’incidente ferroviario del 1978 a Murazze di Vado. Grazie all’impegno incessante sia sui mezzi che a livello organizzativo di figure professionali come il dottor Marco Vigna, organico al Maggiore, nacque la prima centrale operativa esclusivamente dedicata all’emergenza sanitaria, Bologna Soccorso, che fece da pilota per quello che sarà lo sviluppo delle centrali operative di emergenza-urgenza attuali, grazie anche alla stipula di convenzioni con enti e associazioni di soccorso e alla valorizzazione professionale degli operatori infermieristici medici e tecnici, oltre che allo sviluppo delle tecnologie nelle comunicazioni radio e telefoniche. Bologna, nel 1985 sarà la prima centrale regionale a dotarsi del servizio di elisoccorso, seguita a poca distanza dall’ospedale Niguarda di Milano. La sperimentazione del numero unico 118 avvenne in occasione dei mondiali di calcio del 1990 e fu attivo poco dopo in via sperimentale presso l’ospedale della Misericordia di Udine dipendente dalla regione autonoma del Friuli Venezia Giulia, fino alla graduale estensione alle altre regioni e provincie autonome Italiane a partire dal marzo 1992. Il punto di vista del ruolo clinico e la sua evoluzione a partire dalla nascita delle centrali operative 118 lo sintetizza Andreucci, sottolineando le differenze abissali con il passato riguardo la professione infermieristica nel soccorso sanitario extraospedaliero, che una volta - sottolinea- riguardavano la fascia più bassa e meno ambita della professione. Oggi, con l’evoluzione del sistema, l’infermiere del 118 è una figura che ha una importanza professionale simile a quella del medico grazie alla formazione specifica nell’emergenza-urgenza a tutti i livelli della catena professionale, dal tecnico di centrale all’infermiere sull’ambulanza o in elisoccorso in grado di intervenire sul paziente con strumenti e farmaci salvavita. Come la figura sanitaria, anche quella laica del soccorritore (sia dipendente che volontario) ha beneficiato grandemente - dice Andreucci - dell’istituzione del servizio 118 in quanto la formazione di questi ultimi, curata direttamente da enti convenzionati o dal 118 stesso, ha permesso di livellare il gap formativo con le figure professionali sanitarie creando una più stretta commistione che in qualche caso ha creato intercambiabilità di ruoli. Il tutto a beneficio di quelle che vengono considerate le 5 patologie tempo-dipendenti, ossia particolarmente sensibili alla «golden hour», il periodo limite tra l’insorgenza della patologia ed il trattamento ospedaliero specialistico (infarto, ictus, politrauma, ostetricia, neonatologia, pediatria). Questa progressione appena descritta è contenuta nel testo della «Carta di Riva», sottoscritta dalle principali associazioni ed enti del settore dell’emergenza-urgenza italiane. Nel testo è contenuto quello che dovrebbe rappresentare il futuro e gli standard dell’emergenza extraospedaliera, con il superamento definitivo della residua frammentarietà a livello regionale con l’obiettivo di fornire ai pazienti una qualità assistenziale e gli strumenti per attuarla uniforme e sempre più efficiente. Si riallaccia al discorso di Andreucci una figura clinica che fu tra i promotori e poi i fautori della grande rivoluzione del numero unico per l’emergenza: il professor Mario Costa, oggi presidente di Siems (Società Italiana dell’Emergenza Sanitaria) e già fondatore e direttore della Centrale Operativa Ares 118 di Roma, oltre che cattedratico e organico all’ospedale L.Spallanzani. Raggiunto telefonicamente da «La Verità», ci spiega subito come la grande sfida delle centrali e del numero unico in Italia fosse stata prima di tutto una battaglia culturale, antitetica all’impostazione del mondo sanitario nei confronti dell’aspetto dell’intervento extraospedaliero. «Fino all’avvento del 118 - spiega il medico - l’emergenza sanitaria extraospedaliera era poco o nulla considerata, in quanto dominava l’idea che tutto ciò che era parte del soccorso fosse da svolgere tra le mura dell’ospedale». Questa situazione, dominante per decenni, impedì la necessaria allocazione di risorse economiche per lo sviluppo del sistema riflettendosi necessariamente sul numero di vite salvate, con un bilancio evidentemente negativo. Quella del professor Costa e dei suoi colleghi fu una battaglia contro un muro che pareva all’epoca incrollabile, e fu chiaro dall’inizio che per abbatterlo bisognasse partire dalle fondamenta, da un cambiamento di prospettiva che, oltre che medico, riguardava l’aspetto amministrativo della sanità italiana. Partire da zero fu obbligatorio, per cercare di cambiare quella mentalità che produceva a cascata una fortissima frammentazione territoriale, spesso delegata a enti e associazioni volontarie non coordinate tra loro e dalla scarsa preparazione professionale. L’idea di Costa e dei promotori dell’attuale sistema si traduceva in una visione diametralmente opposta a quella dominante. «Il sistema - prosegue Costa - si basava su una sequenza portante che prevedeva una serie di passaggi precedentemente ignorati: analisi della chiamata di emergenza, invio del mezzo idoneo più competitivo». Pare scontato oggi, allora non lo era affatto, basti pensare che come descritto sopra non era chiaro neppure il numero da comporre in casa di emergenza, che quasi cambiava da comune a comune. Il secondo strato del muro, spiega Costa, «è stato quello della formazione professionale degli operatori. Ai tempi anche in Università non esisteva la specializzazione medica dedicata alla rianimazione extraospedaliera, una caratteristica allora esclusiva del mondo anglosassone». Ma creare il sistema 118 significava molto di più, perché la sfida era medica, ma anche tecnologica. « Oltre al completamento di una serie di esigenze gestionali - spiega Costa- c’era la questione tecnica del funzionamento del numero unico: l’uso della radio e delle comunicazioni standardizzate, tutti gli aspetti informatici per la gestione dei dati relativi alle chiamate e al paziente e alla distribuzione sul territorio dei mezzi di soccorso e relativo personale». I mezzi di soccorso, nel sistema nuovo, non erano più soltanto quelli forniti dalle associazioni volontarie, ma anche mezzi di soccorso avanzato (le automediche e infermieristiche) gestite direttamente dalla Centrale e dislocate nei vari ospedali. Oltre al soccorso via terra, c’era da gestire anche il servizio di elisoccorso, su cui operava il personale medico e infermieristico dipendente dal sistema regionale emergenza-urgenza, mentre velivolo e piloti venivano forniti da società gestite secondo il sistema dei capitolati. Un lavoro immane, che prevedeva anche l’avanzamento e la valorizzazione professionale delle figure del soccorso extraospedaliero, tra cui quella dell’infermiere professionale. Nel sistema centralizzato l’Ip diventa un perno attorno a cui ruota il sistema, dalla gestione dei farmaci (il primo in ordine cronologico fu l’ossigeno che fino ad allora non era regolamentato) fino ai salvavita e alle operazioni di gestione della Centrale operativa, alla logistica di mezzi e materiale sanitario da gestire al termine di ogni missione. Un passo da gigante, quello del 1992. Ma - ricorda il professor Costa - «non ancora concluso. Le sfide future riguardano una più diffusa standardizzazione nel rispetto delle realtà regionali, dei protocolli condivisi, della tecnologia sempre più importante e efficace nelle operazioni di soccorso. Che possa mettere d’accordo la decisione politica con le esigenze del territorio. A totale beneficio della popolazione». La tecnologia è quel supporto che nel caso del 118 ha fatto la differenza. Ha permesso ai professionisti di mettere in pratica in maniera sempre più efficace le proprie capacità in medicina dell’emergenza. Basti pensare all’evoluzione dei sistemi radio, telefonici e soprattutto della geolocalizzazione, che oggi è presente in ogni smartphone disponibile al pubblico. Il sistema informatico del 118 ha tratto grandissimo vantaggio, sia in termini di localizzazione dell’evento che nella gestione dei mezzi di emergenza disponibili sul territorio, sia di base che avanzati. Questa tecnologia è oggi presente anche nelle centrali operative del Numero Unico di emergenza 112, recepito e applicato secondo direttiva europea. All’inizio accolto freddamente, visto dai detrattori come un doppione del 118 si è dimostrato dopo la sperimentazione in alcune regioni d’Italia uno strumento efficace. Centralizzando a sé tutte le chiamate di emergenza (Forze dell’ordine, Vigili del fuoco, Soccorso sanitario) con la possibilità di risposta entro pochi secondi ha garantito un’ulteriore ottimizzazione delle tempistiche di intervento, liberando risorse fondamentali per la gestione dell’emergenza. Una percentuale sensibile delle migliaia di chiamate giornaliere al 118 e agli altri numeri di pubblico soccorso erano inadeguate o non pertinenti (come richieste di informazioni, domande su farmaci o medici di famiglia, non-urgenze o addirittura scherzi telefonici). Queste chiamate impegnavano necessariamente un tecnico di centrale togliendo temporaneamente una risorsa, o trattavano questioni in cui l’invio del mezzo di soccorso non si sarebbe reso necessario. E ancora, passi da gigante sono state fatte nelle comunicazioni radio tra centrale e mezzi (sia delle associazioni volontarie e Cri che le automediche del 118). Un esempio su tutti è il sistema adottato da Areu (Agenzia Regionale Emergenza Urgenza) in Lombardia. La struttura diretta oggi dal dottor Alberto Zoli adotta un sistema di codici radio protetti (sistema Tetra) che mettono in contatto in tempo reale la Centrale e le ambulanze, dotate di un terminale radio simile a un tablet. Qui gli estremi dell’intervento, il codice di gravità e la localizzazione appaiono contemporaneamente alla compilazione della scheda da parte del tecnico di Centrale, che seguirà il mezzo per tutto il servizio. Dall’altra parte l’equipaggio, tramite questo tipo di soluzione tecnologica, può comunicare immediatamente i parametri vitali del paziente e altre notizie fondamentali al tipo di trattamento e all’ospedalizzazione nella struttura ospedaliera più indicata. Un sistema che ha permesso di risparmiare preziosissimi minuti (e che ha risparmiato di conseguenza molte vite). Proprio il dottor Zoli, in un recente incontro con i media, ha elencato i numeri dell’attività del 112 lombardo ai tempi del covid, uno stress test senza precedenti per il sistema emergenza-urgenza. Dai dati raccolti da Areu sul numero 112 (introdotto in Lombardia in via sperimentale già nel 2010) nell'anno 2021 le centrali operative regionali hanno ricevuto 4.417.537 chiamate, per una media giornaliera di 12.103 richieste. Il calcolo del tempo di attesa per la risposta di un operatore ha dato un risultato strabiliante: 4,5 secondi di attesa media. La rubrica telefonica, il cartoncino con i numeri delle croci locali, il numero dell'ospedale e il telefono fisso sono un ricordo. Lontano trent'anni.
(Totaleu)
Lo ha detto il ministro a margine del consiglio per gli Affari interni, riguardo ai centri di rimpatrio in Albania.
Il sindaco di New York Zohran Mamdani (Ansa)
L’uomo che ha portato il comunismo nel cuore di New York, sfruttando anche il phisique du rôle terzomondista e una certa retorica populista, ha già annunciato che lascerà il suo modesto appartamento con affitto controllato per la lussuosa residenza ufficiale del sindaco a Manhattan. La decisione è stata annunciata ieri con un post su Instagram, insieme a una foto di una replica in miniatura della villa. «La settimana scorsa abbiamo visto la nostra nuova casa!», ha detto.
Il democratico, che entrerà in carica il primo gennaio, si trasferirà nello stesso mese alla Gracie Mansion, una casa di 1.000 metri quadrati costruita nel 1799 nell’elegante Upper East Side, sulle rive dell’East River, immersa in un parco verdeggiante, che divenne la residenza ufficiale del sindaco nel 1942. Un atto dovuto? Non proprio. Non vi è infatti alcun obbligo per i sindaci di risiedere lì, sebbene la maggior parte di loro abbia risieduto nella villa, con la notevole eccezione di Michael Bloomberg (2002-2013). In una dichiarazione, Mamdani ha affermato che lui e sua moglie, l’illustratrice Rama Duwaji, hanno preso questa decisione principalmente per motivi di «sicurezza» e che stanno «lasciando a malincuore il bilocale» che la coppia condivide ad Astoria, un quartiere popolare del Queens con una numerosa popolazione di immigrati.
«Ci mancheranno molte cose del nostro appartamento di Astoria. Preparare la cena fianco a fianco nella nostra cucina, condividere un sonnolento viaggio in ascensore con i nostri vicini la sera, sentire musica e risate risuonare attraverso le pareti dell’appartamento», ha scritto, con una retorica strappa like.
Mamdani ha fatto del costo della vita un tema centrale della sua campagna, promettendo in particolare alloggi più accessibili. Il fatto che lui stesso vivesse in uno di questi appartamenti, al costo di 2.300 dollari al mese, ha attirato le critiche dei suoi oppositori, che ritengono che il suo stipendio da 142.000 dollari da membro dell’Assemblea dello Stato di New York e il reddito della moglie permettessero alla coppia di stabilirsi in un appartamento al di fuori di tale quadro normativo. «Anche quando non vivrò più ad Astoria, Astoria continuerà a vivere in me e nel lavoro che svolgo», ha promesso. Non ha infine rinunciato a un altro sermone sociale da campagna elettorale: «La mia priorità, da sempre, è servire le persone che chiamano questa città casa. Sarò il sindaco dei cuochi di Steinway, dei bambini che si dondolano al Dutch Kills Playground, dei passeggeri dell’autobus che aspettano il Q101». Solo che da adesso li vedrà col binocolo dal suo ampio terrazzo.
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Vediamo i dettagli: per quel che riguarda i rimpatri, la modifica del regolamento sul concetto di «Paese terzo sicuro» consentirà agli Stati europei di respingere una richiesta di asilo senza entrare nel merito della singola pratica, ma dichiarando la domanda stessa come «irricevibile» già al momento della presentazione se il richiedente avrebbe potuto ottenere asilo in un altro Paese considerato sicuro. Gli Stati potranno applicare il concetto di Paese terzo sicuro sulla base di tre elementi: l’esistenza di un legame tra il richiedente asilo e il Paese terzo; se il richiedente ha transitato attraverso il Paese terzo prima di raggiungere l’Ue; se esiste un accordo con un Paese terzo sicuro che garantisce che la domanda di asilo sarà esaminata. Il Consiglio ha finalmente messo nero su bianco la lista dei Paesi di origine da considerare sicuri: oltre a quelli candidati a far parte dell’Unione, troviamo anche Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia. Ricorderete tutti che alcuni magistrati italiani hanno bloccato il rimpatrio di immigrati provenienti da Egitto e Bangladesh, perché considerati non sicuri: ora la nuova lista dovrebbe mettere fine a ogni dubbio. «Abbiamo un afflusso molto elevato di migranti irregolari», ha spiegato il ministro per l’Immigrazione della Danimarca, Rasmus Stoklund, il cui Paese detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, «e i paesi europei sono sotto pressione. Migliaia di persone annegano nel Mar Mediterraneo o subiscono abusi lungo le rotte migratorie, mentre i trafficanti di esseri umani guadagnano fortune. Ciò dimostra che l’attuale sistema crea strutture di incentivi malsane e un forte fattore di attrazione, difficili da eliminare. La Danimarca e la maggior parte degli Stati membri dell’Ue si sono battuti per l’esame delle domande di asilo in paesi terzi sicuri, al fine di eliminare gli incentivi a intraprendere viaggi pericolosi verso l’Ue».
In sostanza, gli Stati europei potranno realizzare centri per l’esame delle domande di asilo nei Paesi di partenza o di transito dei migranti, bloccando chi non ha i requisiti ancora prima che inizi il viaggio. «Sugli hub per i rimpatri», ha sottolineato Magnus Brunner, commissario Ue per gli Affari interni e la Migrazione, «si tratta di negoziati tra gli Stati membri e poi con i Paesi terzi. Sarebbe positivo, naturalmente, se più parti unissero le forze. Penso ai Paesi Bassi, che stanno discutendo con l’Uganda. La Germania ha già aderito ai colloqui. Così come l’Italia e l’Albania».
A margine dell’intesa, tuttavia, arriva anche la notizia meno piacevole di un accordo con Italia e Grecia che permetterà a Berlino di riconsegnare tutti i migranti che sono arrivati nei due Paesi, sono stati lì registrati e poi hanno scelto di trasferirsi in Germania. Lo ha riferito ieri il quotidiano tedesco Bild spiegando che le norme dovrebbero essere operative a partire da giugno 2026.
«Ottimo lavoro! Le misure di solidarietà stanno dando il via all’attuazione del Patto su migrazione e asilo. E tutte adottate in tempi record. Il Patto, insieme alle proposte sul rimpatrio e sui Paesi sicuri, rivede la nostra politica migratoria. È molto di più: solidarietà. Sicurezza. Responsabilità. Ed efficienza», ha scritto e su X la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Sempre Brunner ha inoltre commentato: «Direi che oggi, con queste riforme, stiamo mettendo in ordine la casa europea e queste riforme che abbiamo concordato oggi sono la base per avere una politica migratoria in atto nell’interesse degli europei. Questo è importante, garantire che abbiamo il controllo su chi può entrare nell’Ue, chi può rimanere e chi deve lasciare di nuovo l’Unione Europea».
Inevitabilmente soddisfatto il ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi: «La svolta che il governo italiano ha chiesto in materia di migrazione c’è stata, finalmente abbiamo ottenuto una lista europea di Paesi di origine sicuri, riformato completamente il concetto di Paese terzo sicuro e ci avviamo a realizzare un sistema europeo per i rimpatri realmente efficace. In un momento decisivo per le politiche europee, ha prevalso l’approccio italiano. Gli Stati membri potranno finalmente applicare le procedure accelerate di frontiera (così come previsto dal protocollo Italia-Albania) e a questo si aggiunge l’importante novità che i ricorsi giudiziari non avranno più effetto sospensivo automatico della decisione di rimpatrio. Inoltre», aggiunge, «la definizione di una lista europea dei Paesi terzi sicuri, dove compaiono oltre ai Paesi candidati alla adesione anche Paesi quali Egitto, Tunisia e Bangladesh è in linea con i provvedimenti già adottati dall’Italia». «Accogliamo con grande soddisfazione», commenta Carlo Fidanza, capodelegazione di Fdi-Ecr al Parlamento europeo, «l’accordo. È un risultato che conferma quanto l’Italia guidata abbia fornito una linea chiara e coerente all’Europa sull’immigrazione».
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Il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
«Il discorso di Vance a Monaco e i numerosi tweet del presidente Trump sono diventati ufficialmente dottrina statunitense. E come tali, dobbiamo riconoscerlo e agire di conseguenza», riflette il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, nel suo intervento all’Institute Jacques Delors. «Cosa significa? Abbiamo bisogno di qualcosa di più di una semplice energia rinnovata. Dobbiamo lavorare insieme per costruire un’Europa che comprenda che i rapporti tra gli Alleati e le alleanze del secondo dopoguerra sono cambiati. Sappiamo già che Europa e Stati Uniti non condividono la stessa visione dell’ordine internazionale».
Costa, in buona sostanza, accusa Washington di non avere rispetto: «Gli alleati non minacciano l’interferenza nella vita politica. Nella vita politica interna di questi alleati, ci si rispetta, si rispetta la sovranità gli uni degli altri. Sicuramente molti europei non condividono la stessa visione degli americani su diversi temi ed è naturale che loro non condividano la nostra; quello che non possiamo accettare è questa la minaccia di interferenza nella vita politica dell’Europa». Quindi chiosa: «Gli Stati Uniti non possono sostituirsi ai cittadini europei per scegliere quali siano i partiti buoni e quelli cattivi. Gli Stati Uniti non possono sostituirsi all’Europa sulla visione che abbiamo della libertà di espressione, e su questo bisogna essere chiari», ha aggiunto. «La nostra storia ci ha insegnato che non esiste libertà di espressione senza libertà di informazione. E la libertà di informazione esiste solo quanto più c’è rispetto per il pluralismo. E così non esiste mai libertà di informazione se c’è il monopolio di una sola piattaforma. E non ci sarà libertà di espressione se la libertà di informazione dei cittadini viene sacrificata per difendere gli interessi degli oligarchi tecnologici degli Stati Uniti». Il riferimento è diretto a Elon Musk, che nelle ore precedenti aveva paragonato l’Unione europea al Terzo Reich su X.
Insomma, Costa non l’ha presa bene, ma non è il solo. Anche buona parte dei dem italiani sono sulla stessa lunghezza d’onda. Filippo Sensi , senatore del Pd, ha persino invocato una manifestazione su modello di quella che fu di Michele Serra. «Sarebbe ora, stavolta in Campidoglio per raggiungere il Colosseo illuminato dalla bandiera dell’Unione. Per dire dove siamo, chi siamo, per cosa vale la pena di combattere. Chi ci sta?». Anche la segretaria del Pd Elly Schlein coglie l’occasione. Più per attaccare il governo che per sventolare europeismo. «Questa convergenza nell’attacco all’Ue dimostra quanto sia reale il rischio che denunciamo da mesi. O l’Europa fa un salto in avanti di integrazione politica oppure rischia di essere schiacciata e messa al margine dalle grandi potenze che la circondano e che trovano un obiettivo comune nell’indebolirla. L’Europa sarà federale o non sarà» chiarisce convinta. Poi l’affondo al governo: «Non può far finta di nulla ammiccando in modo subalterno agli attacchi di Trump. La strategia di Putin e anche di Trump è evidente: dividerci, per renderci più vulnerabili singolarmente. E purtroppo trovano sponda in alcuni governi nazionalisti europei. Il governo Meloni non si presti a questo gioco e non si faccia utilizzare per andare contro anche agli stessi interessi dei cittadini italiani».
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