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2021-11-17
Le ombre cinesi spaventano Biden. Il Dragone vince su clima e Taiwan
Il dialogo tra Joe Biden e Xi Jinping (Ansa)
La Casa Bianca sta ammorbidendo la sua linea nei confronti di Pechino. È questo, in estrema sintesi, il succo dell'incontro virtuale intercorso lunedì sera tra il presidente americano, Joe Biden, e il suo omologo cinese, Xi Jinping. È infatti innanzitutto dai toni che tira aria di distensione. «Sembra che sia nostra responsabilità, come leader di Cina e Stati Uniti, garantire che la competizione tra i nostri Paesi non si trasformi in un conflitto, intenzionale o meno. Solo una concorrenza semplice e diretta», ha dichiarato Biden in apertura. «Mi sembra», ha proseguito, «che dobbiamo stabilire un guardrail di buon senso, essere chiari e onesti dove non siamo d'accordo e lavorare insieme dove i nostri interessi si intersecano, specialmente su questioni globali vitali come il cambiamento climatico». Xi, dal canto suo, si è detto «molto felice» di poter rivedere Biden, da lui definito un «vecchio amico».
Il disgelo non è tuttavia solo una questione di toni, ma anche di contenuti. È pur vero che, nel corso del colloquio di oltre tre ore, il presidente americano abbia espresso delle preoccupazioni in materia di diritti umani, con particolare riferimento ai dossier di Hong Kong, Tibet e Xinjiang. Tuttavia, l'inquilino della Casa Bianca ha di fatto teso la mano al Dragone su due punti fondamentali. In primis Biden ha ribadito l'ancoraggio americano alla politica dell'«unica Cina» e al Taiwan Relations Act: una norma che consente agli Stati Uniti di fornire armi a Taipei ma che non li obbliga a entrare in guerra in sua difesa. Ricordiamo che, durante un dibattito televisivo il mese scorso, il presidente americano si fosse detto pronto a difendere militarmente l'isola in caso di attacco: una posizione che aveva irritato Pechino e che – guarda caso – era stata velocemente smentita dalla stessa Casa Bianca. Ebbene, nonostante nel colloquio dell'altro ieri Biden abbia espresso preoccupazione per Taipei, il rinnovato ossequio alla politica dell'«unica Cina» rappresenta una vittoria rilevante per Pechino. Tanto più che la «risoluzione storica» approvata di recente dal plenum del Partito comunista cinese (Pcc) ha definito la riunificazione di Taiwan alla Cina come «una missione storica e un impegno incrollabile».
Il secondo fronte di dialogo riguarda poi il cambiamento climatico. È del resto proprio su questo dossier che Washington sta principalmente cercando di rilanciare la cooperazione con Pechino. Non va trascurato infatti che il vertice di lunedì sia stato fissato a seguito della Dichiarazione congiunta tra Stati Uniti e Cina, siglata la settimana scorsa a Glasgow in occasione della Cop26. Un documento che è stato favorevolmente salutato da gran parte della stampa, ma che – a ben vedere – è foriero di significativi rischi. Non soltanto infatti ha un contenuto vago e privo di impegni concreti sul fronte ambientale per la Cina. Ma, in termini geopolitici, allenta anche la pressione statunitense su Pechino in una fase delicata sia per Taiwan che per lo Xinjiang. Si tratta, in altre parole, di un documento che sancisce la vittoria della linea di John Kerry: l'attuale inviato speciale statunitense per il clima è infatti un noto fautore dell'approccio morbido nei confronti della Repubblica popolare. Un approccio che, nelle sue intenzioni, dovrebbe favorire la cooperazione ambientale tra Washington e Pechino. Peccato però che alla Cop26 il Dragone si sia sfilato dagli accordi più importanti e che la condizione degli uiguri continui a rivelarsi un tema urgente. Non è un caso che, in patria, Kerry sia stato più volte accusato dai repubblicani di anteporre indebitamente la collaborazione climatica alla tutela dei diritti umani.
Insomma, sembra proprio che la Casa Bianca scelga la via della cooperazione con Pechino in una fase in cui non si registrano oggettivamente le condizioni per un disgelo. La mano tesa di Biden rischia infatti soltanto di rafforzare una Cina sempre più aggressiva (si veda il caso della pressione militare su Taiwan) e restia ad accettare vincoli internazionali. D'altronde, non si tratta di un limite nuovo per l'attuale presidente: era infatti lo scorso giugno, quando cercò di avviare un'improvvisa distensione con Vladimir Putin, rimuovendo le sanzioni al gasdotto Nord Stream 2 ma senza ottenere di fatto nulla in cambio.
Al di là di una debolezza politica interna che si ripercuote sulla sua credibilità internazionale, Biden sconta cattive doti da negoziatore, oltre al fatto di risultare troppo prevedibile. Un fattore, questo, di estrema problematicità in un mondo sempre più caotico, specialmente quando si ha a che fare con un interlocutore privo di scrupoli come il Pcc. Per spiazzare e mettere sotto pressione gli avversari, l'approccio più efficace dovrebbe semmai essere quello della cosiddetta «teoria del pazzo» di nixoniana memoria. Ora, secondo quanto rivelato ieri dal Washington Post, la Casa Bianca starebbe per annunciare un boicottaggio diplomatico delle olimpiadi che si terranno a Pechino il prossimo febbraio: una mossa che, se confermata, rappresenterebbe un segnale importante, ma che – da sola – non basterebbe. Per affrontare adeguatamente la minaccia cinese, l'assoluta priorità di Biden dovrebbe infatti essere quella di sbarazzarsi della «linea Kerry» e delle sue pericolose ambiguità. Limitarsi agli atti simbolici non è sufficiente.
Militari presi a sassate dai migranti
Il getto dei cannoni ad acqua dei soldati polacchi si abbatte sui migranti stipati al confine tra Bielorussia e Polonia. Mentre il presidente Lukashenko, dopo avere alzato il tiro nei giorni scorsi, cerca di smorzare i toni e di assicurare di non essere in cerca di scontri che, anzi, andrebbero a suo parere evitati, la realtà parla di animi ormai esacerbati e di una situazione sempre più compromessa ogni giorno che passa. Al valico di Kuznica-Bruzgi, dove migliaia di migranti sono a rischio di morire di freddo anche senza l'aiuto dell'acqua dei cannoni, la prova di forza tra Minsk e Varsavia va avanti senza ripensamenti. Lukashenko continua imperterrito ad illudere i migranti sulla possibilità di entrare in Europa e la Polonia ribadisce e conferma ancora una volta che la costruzione del muro al confine, che coprirà almeno la metà della frontiera, verrà avviata a dicembre e terminerà al massimo a gennaio del 2022 nel silenzio-assenso dell'Ue. Nel frattempo, a dividere la massa umana usata dalla Bielorussia come arma della guerra ibrida nel cuore dell'Europa da un sogno che in realtà è un incubo, resiste un alto filo spinato dove ieri la violenza è cresciuta. Alla sassaiola partita da parte dei migranti esasperati, le forze di sicurezza polacche hanno risposto anche coi lacrimogeni.
I corposi pacchetti di sanzioni confezionati dalla Ue per Lukashenko sembrano al momento lettera morta e, in ogni caso, non spaventano più di tanto il loro destinatario. L'Alto rappresentante per la politica estera Ue, Joseph Borrell, ha tentato anche un approccio più «soft» attraverso il colloquio col ministro degli Esteri bielorusso, Vladimir Makei. La doppia faccia della Bielorussia sembra però trasparire dallo scarno risultato dell'incontro. «La Bielorussia ha garantito che fornirà sostegno e accetterà l'accesso delle organizzazioni dell'Onu per l'aiuto ai rifugiati ma il ministro bielorusso ha declinato ogni responsabilità per le persone che si trovano lì», ha fatto sapere Borrell.
Il gioco di Lukashenko, che continua a far transitare migranti ai confini europei e a metterne la vita a rischio deve, secondo i vertici Ue, giungere ad una conclusione. «Sono persone che non potranno venire in Europa ma non potranno morire congelate. Dobbiamo aiutarle», ha affermato Borrell. Su chi debba assumersi la responsabilità di porre fine ad una crisi umanitaria apparentemente ingestibile, l'elenco è ampio: «Le organizzazioni umanitarie, lo Stato bielorusso, la Polonia, che ha offerto supporto umanitario». In tutto questo, l'Europa sta già predisponendo ed ufficializzerà nei prossimi giorni l'ennesimo pacchetto di sanzioni al quale collabora ancora una volta il dipartimento di Stato Usa, per colpire i responsabili dello sfruttamento dei migranti. In attesa del nuovo elenco di sanzioni, il presidente francese Macron ha parlato con Putin, visto che la Russia è al momento uno dei maggiori alleati di Lukashenko, mostrando preoccupazione per la strumentalizzazione dei flussi migratori. Laconica la risposta di Mosca, che ha rispedito al mittente le accuse di complicità: «Ue e Bielorussia dovrebbero discutere in modo diretto dei problemi in corso», ha suggerito Putin «ed occuparsi del trattamento estremamente crudele dei rifugiati da parte delle guardie di frontiera polacche».
L'Europa, ormai alle strette, tenta il tutto per tutto, giocandosi la carta del «Fondo per asilo, migrazione e integrazione», destinando allo stesso 1,1 miliardi di euro nel bilancio Ue 2022. Altri soldi verranno stanziati per la protezione del confine con la Bielorussia, per rafforzare la cooperazione sulla gestione delle frontiere esterne, per la difesa a sostegno dell'autonomia strategica e della sicurezza europea. Né l'approccio più duro, né quelli più diplomatici sembrano, però, in grado di sbloccare la situazione.
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Il presidente Usa abbandona Taipei al suo destino: gli Stati Uniti rinunciano a difenderla se sarà invasa. Passa la linea Kerry: la tutela dell'ambiente più importante dei diritti umani. E Xi ringrazia l'«amico Joe».Scontri al confine tra Polonia e Bielorussia, i soldati rispondono con i lacrimogeni. Borrell gela i clandestini: «Nessuno entrerà in Europa». Putin attacca Varsavia.Lo speciale contiene due articoli.La Casa Bianca sta ammorbidendo la sua linea nei confronti di Pechino. È questo, in estrema sintesi, il succo dell'incontro virtuale intercorso lunedì sera tra il presidente americano, Joe Biden, e il suo omologo cinese, Xi Jinping. È infatti innanzitutto dai toni che tira aria di distensione. «Sembra che sia nostra responsabilità, come leader di Cina e Stati Uniti, garantire che la competizione tra i nostri Paesi non si trasformi in un conflitto, intenzionale o meno. Solo una concorrenza semplice e diretta», ha dichiarato Biden in apertura. «Mi sembra», ha proseguito, «che dobbiamo stabilire un guardrail di buon senso, essere chiari e onesti dove non siamo d'accordo e lavorare insieme dove i nostri interessi si intersecano, specialmente su questioni globali vitali come il cambiamento climatico». Xi, dal canto suo, si è detto «molto felice» di poter rivedere Biden, da lui definito un «vecchio amico».Il disgelo non è tuttavia solo una questione di toni, ma anche di contenuti. È pur vero che, nel corso del colloquio di oltre tre ore, il presidente americano abbia espresso delle preoccupazioni in materia di diritti umani, con particolare riferimento ai dossier di Hong Kong, Tibet e Xinjiang. Tuttavia, l'inquilino della Casa Bianca ha di fatto teso la mano al Dragone su due punti fondamentali. In primis Biden ha ribadito l'ancoraggio americano alla politica dell'«unica Cina» e al Taiwan Relations Act: una norma che consente agli Stati Uniti di fornire armi a Taipei ma che non li obbliga a entrare in guerra in sua difesa. Ricordiamo che, durante un dibattito televisivo il mese scorso, il presidente americano si fosse detto pronto a difendere militarmente l'isola in caso di attacco: una posizione che aveva irritato Pechino e che – guarda caso – era stata velocemente smentita dalla stessa Casa Bianca. Ebbene, nonostante nel colloquio dell'altro ieri Biden abbia espresso preoccupazione per Taipei, il rinnovato ossequio alla politica dell'«unica Cina» rappresenta una vittoria rilevante per Pechino. Tanto più che la «risoluzione storica» approvata di recente dal plenum del Partito comunista cinese (Pcc) ha definito la riunificazione di Taiwan alla Cina come «una missione storica e un impegno incrollabile». Il secondo fronte di dialogo riguarda poi il cambiamento climatico. È del resto proprio su questo dossier che Washington sta principalmente cercando di rilanciare la cooperazione con Pechino. Non va trascurato infatti che il vertice di lunedì sia stato fissato a seguito della Dichiarazione congiunta tra Stati Uniti e Cina, siglata la settimana scorsa a Glasgow in occasione della Cop26. Un documento che è stato favorevolmente salutato da gran parte della stampa, ma che – a ben vedere – è foriero di significativi rischi. Non soltanto infatti ha un contenuto vago e privo di impegni concreti sul fronte ambientale per la Cina. Ma, in termini geopolitici, allenta anche la pressione statunitense su Pechino in una fase delicata sia per Taiwan che per lo Xinjiang. Si tratta, in altre parole, di un documento che sancisce la vittoria della linea di John Kerry: l'attuale inviato speciale statunitense per il clima è infatti un noto fautore dell'approccio morbido nei confronti della Repubblica popolare. Un approccio che, nelle sue intenzioni, dovrebbe favorire la cooperazione ambientale tra Washington e Pechino. Peccato però che alla Cop26 il Dragone si sia sfilato dagli accordi più importanti e che la condizione degli uiguri continui a rivelarsi un tema urgente. Non è un caso che, in patria, Kerry sia stato più volte accusato dai repubblicani di anteporre indebitamente la collaborazione climatica alla tutela dei diritti umani. Insomma, sembra proprio che la Casa Bianca scelga la via della cooperazione con Pechino in una fase in cui non si registrano oggettivamente le condizioni per un disgelo. La mano tesa di Biden rischia infatti soltanto di rafforzare una Cina sempre più aggressiva (si veda il caso della pressione militare su Taiwan) e restia ad accettare vincoli internazionali. D'altronde, non si tratta di un limite nuovo per l'attuale presidente: era infatti lo scorso giugno, quando cercò di avviare un'improvvisa distensione con Vladimir Putin, rimuovendo le sanzioni al gasdotto Nord Stream 2 ma senza ottenere di fatto nulla in cambio.Al di là di una debolezza politica interna che si ripercuote sulla sua credibilità internazionale, Biden sconta cattive doti da negoziatore, oltre al fatto di risultare troppo prevedibile. Un fattore, questo, di estrema problematicità in un mondo sempre più caotico, specialmente quando si ha a che fare con un interlocutore privo di scrupoli come il Pcc. Per spiazzare e mettere sotto pressione gli avversari, l'approccio più efficace dovrebbe semmai essere quello della cosiddetta «teoria del pazzo» di nixoniana memoria. Ora, secondo quanto rivelato ieri dal Washington Post, la Casa Bianca starebbe per annunciare un boicottaggio diplomatico delle olimpiadi che si terranno a Pechino il prossimo febbraio: una mossa che, se confermata, rappresenterebbe un segnale importante, ma che – da sola – non basterebbe. Per affrontare adeguatamente la minaccia cinese, l'assoluta priorità di Biden dovrebbe infatti essere quella di sbarazzarsi della «linea Kerry» e delle sue pericolose ambiguità. Limitarsi agli atti simbolici non è sufficiente.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/-cina-usa-bielorussia-europa-2655749776.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="militari-presi-a-sassate-dai-migranti" data-post-id="2655749776" data-published-at="1637139406" data-use-pagination="False"> Militari presi a sassate dai migranti Il getto dei cannoni ad acqua dei soldati polacchi si abbatte sui migranti stipati al confine tra Bielorussia e Polonia. Mentre il presidente Lukashenko, dopo avere alzato il tiro nei giorni scorsi, cerca di smorzare i toni e di assicurare di non essere in cerca di scontri che, anzi, andrebbero a suo parere evitati, la realtà parla di animi ormai esacerbati e di una situazione sempre più compromessa ogni giorno che passa. Al valico di Kuznica-Bruzgi, dove migliaia di migranti sono a rischio di morire di freddo anche senza l'aiuto dell'acqua dei cannoni, la prova di forza tra Minsk e Varsavia va avanti senza ripensamenti. Lukashenko continua imperterrito ad illudere i migranti sulla possibilità di entrare in Europa e la Polonia ribadisce e conferma ancora una volta che la costruzione del muro al confine, che coprirà almeno la metà della frontiera, verrà avviata a dicembre e terminerà al massimo a gennaio del 2022 nel silenzio-assenso dell'Ue. Nel frattempo, a dividere la massa umana usata dalla Bielorussia come arma della guerra ibrida nel cuore dell'Europa da un sogno che in realtà è un incubo, resiste un alto filo spinato dove ieri la violenza è cresciuta. Alla sassaiola partita da parte dei migranti esasperati, le forze di sicurezza polacche hanno risposto anche coi lacrimogeni. I corposi pacchetti di sanzioni confezionati dalla Ue per Lukashenko sembrano al momento lettera morta e, in ogni caso, non spaventano più di tanto il loro destinatario. L'Alto rappresentante per la politica estera Ue, Joseph Borrell, ha tentato anche un approccio più «soft» attraverso il colloquio col ministro degli Esteri bielorusso, Vladimir Makei. La doppia faccia della Bielorussia sembra però trasparire dallo scarno risultato dell'incontro. «La Bielorussia ha garantito che fornirà sostegno e accetterà l'accesso delle organizzazioni dell'Onu per l'aiuto ai rifugiati ma il ministro bielorusso ha declinato ogni responsabilità per le persone che si trovano lì», ha fatto sapere Borrell. Il gioco di Lukashenko, che continua a far transitare migranti ai confini europei e a metterne la vita a rischio deve, secondo i vertici Ue, giungere ad una conclusione. «Sono persone che non potranno venire in Europa ma non potranno morire congelate. Dobbiamo aiutarle», ha affermato Borrell. Su chi debba assumersi la responsabilità di porre fine ad una crisi umanitaria apparentemente ingestibile, l'elenco è ampio: «Le organizzazioni umanitarie, lo Stato bielorusso, la Polonia, che ha offerto supporto umanitario». In tutto questo, l'Europa sta già predisponendo ed ufficializzerà nei prossimi giorni l'ennesimo pacchetto di sanzioni al quale collabora ancora una volta il dipartimento di Stato Usa, per colpire i responsabili dello sfruttamento dei migranti. In attesa del nuovo elenco di sanzioni, il presidente francese Macron ha parlato con Putin, visto che la Russia è al momento uno dei maggiori alleati di Lukashenko, mostrando preoccupazione per la strumentalizzazione dei flussi migratori. Laconica la risposta di Mosca, che ha rispedito al mittente le accuse di complicità: «Ue e Bielorussia dovrebbero discutere in modo diretto dei problemi in corso», ha suggerito Putin «ed occuparsi del trattamento estremamente crudele dei rifugiati da parte delle guardie di frontiera polacche». L'Europa, ormai alle strette, tenta il tutto per tutto, giocandosi la carta del «Fondo per asilo, migrazione e integrazione», destinando allo stesso 1,1 miliardi di euro nel bilancio Ue 2022. Altri soldi verranno stanziati per la protezione del confine con la Bielorussia, per rafforzare la cooperazione sulla gestione delle frontiere esterne, per la difesa a sostegno dell'autonomia strategica e della sicurezza europea. Né l'approccio più duro, né quelli più diplomatici sembrano, però, in grado di sbloccare la situazione.
Il direttore di Limes, Lucio Caracciolo (Imagoeconomica)
«A tutto c’è un Limes». E i professoroni se ne sono andati sbattendo la porta, accompagnati dal generale con le stellette e dall’eco della marcetta militare mediatica tutta grancassa e tromboni, a sottolineare come fosse democratica e dixie la ritirata strategica da quel covo di «putiniani sfegatati». La vicenda con al centro la guerra in Ucraina merita un approfondimento perché è paradigmatica di una polarizzazione che non lascia scampo a chi semplicemente intende approfondire i fatti. Nell’era del pensiero igienista, ogni contatto con il nemico e ogni lettura (anche critica) dei testi che egli produce sono considerati contaminanti.
Già la narrazione lascia perplessi e l’uscita dei martiri da un consiglio scientifico che vede nelle sue file Enrico Letta, Romano Prodi, Andrea Riccardi, Angelo Panebianco, Federico Fubini (atlantisti di ferro più che compagni di merende dello zar) indebolisce le ragioni dei transfughi. Se poi si aggiunge che in cima al comitato dei saggi della rivista campeggia il nome di Rosario Aitala - il giudice della Corte penale internazionale che due anni fa firmò un mandato di cattura per Vladimir Putin - ecco che le motivazioni del commando in doppiopetto si scaricano in fretta come le batterie dell’auto full electric guidata da Ursula von der Leyen.
Eppure Federico Argentieri (studioso di affari europei), Franz Gustincich (giornalista e fotografo), Giorgio Arfaras (economista) e Vincenzo Camporini (ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica) hanno preso la porta e hanno salutato Lucio Caracciolo con parole stizzite per «incompatibilità con la linea politica». Avvertivano una «nube tossica» aleggiare su Limes. Evidentemente non sopportavano che ogni dieci analisi filo-occidentali ce ne fossero un paio dedicate alle ragioni russe. Un’accusa pretestuosa al mensile di geopolitica più importante d’Italia e a uno storico direttore che in 30 anni si è guadagnato prestigio e indipendenza pur rimanendo nell’alveo del grande fiume navigabile (e spesso limaccioso) della sinistra culturale.
«Io quelli che se ne sono andati non li ho mai visti. Chi ci accusa di essere filorusso non ha mai sfogliato la rivista», ha dichiarato il giornalista Mirko Mussetti a Radio Cusano Campus. Dietro le rumorose dimissioni ci sarebbero cause tutt’altro che culturali, forse di opportunità. Arfaras è marito della giornalista russa naturalizzata italiana Anna Zafesova, studiosa del putinismo, firma della Stampa e voce di Radio Radicale. Il generale Camporini ha solidi interessi politici: già candidato di + Europa, è passato con Carlo Calenda e ha tentato invano la scalata all’Europarlamento. Oggi è responsabile della difesa dell’eurolirica Azione. La tempistica della fibrillazione è sospetta e chiama in causa anche le strategie editoriali. Limes fa parte del gruppo Gedi messo in vendita (in blocco o come spezzatino) da John Elkann; la rivista è solida, quindi obiettivo di qualcuno che potrebbe avere interesse a destabilizzarne la catena di comando.
Ieri Caracciolo ha replicato ai transfughi sottolineando che «la notizia è largamente sopravvalutata». Lo è anche in chiave numerica, visto che i consiglieri (fra scientifici e redazionali) sono un esercito: 106, ben più dei giornalisti che lavorano. Parlando con Il Fatto Quotidiano, il direttore ha aggiunto: «Noi siamo una rivista di geopolitica. Occorre analizzare i conflitti e ascoltare tutte le voci, anche le più lontane. Non possiamo metterci da una parte contro l’altra ma essere aperti a punti di vista diversi. Pubblicare non significa condividere il punto di vista dell’uno o dell’altro».
Argentieri lo ha messo sulla graticola con un paio di motivazioni surreali: avrebbe sbagliato a prevedere l’invasione russa nel febbraio 2022 («Non la faranno mai») e continua a colorare la Crimea come territorio russo sulle mappe, firmate dalla formidabile Laura Canali. Caracciolo non si scompone: «Avevo detto che se Putin avesse invaso l’Ucraina avrebbe fatto una follia. Pensavo che non l’avrebbe fatta, ho sbagliato, mi succede. Non capisco perché a distanza di tempo questo debba provocare le dimissioni». Capitolo cartina: «Chiunque sbarchi a Sebastopoli si accorge che si trova in Russia e non in Ucraina; per dichiarazione dello stesso Zelensky gli ucraini non sono in grado di recuperare quei territori».
Gli analisti lavorano sullo stato di fatto, non sui desiderata dei «Volenterosi» guidati da Bruxelles, ai quali i media italiani hanno srotolato i tradizionali tappetini. E ancora convinti come Napoleone e Hitler che la Russia vada sconfitta sul campo. Se Limes non ha creduto che Putin si curava con il sangue di bue; che uno degli eserciti più potenti del mondo combatteva con le pale; che Mosca era ridotta a usare i microchip delle lavatrici per far volare i missili, il problema non è suo ma di chi si è appiattito sulla retorica dopo aver studiato la Storia sui «Classici Audacia» a fumetti. Nel febbraio del 2024 Limes titolava: «Stiamo perdendo la guerra». Aveva ragione, notizia ruvidamente fattuale. La disinformazione da nube tossica aleggia altrove.
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Il nuovo numero di Polizia Moderna con Annalisa Bucchieri, Cristina Di Lucente assistente Capo coordinatore. Mauro Valeri ispettore, Cristiano Morabito Sovrintendente capo tecnico coordinatore.
Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni ed Elly Schlein (Ansa)
E ieri questo enorme divario si è fatto sentire ancor più forte in Aula. Il campo largo, ormai pieno di buche e pozzanghere, si è sfasciato anche sulla politica estera. In vista del Consiglio europeo il presidente del Consiglio ha tenuto le sue comunicazioni. La maggioranza si è presentata compatta con una risoluzione unica. Le opposizioni avevano cinque testi. Più che un campo largo, un campo sparso.
Divisi su tutti i dossier internazionali. Le distanze tra M5s e Pd sono abissali. Il dato politico è lampante: Avs, Più Europa, Azione, Italia viva, Pd, M5s sono sempre più come l’armata Brancaleone. Ognun per sé, nessun per tutti.
In tema di Ucraina, Pd e M5s sono spaccati sugli aiuti a Kiev. La Schlein vuole che continuino, mentre Conte ne chiede la sospensione. E poi ancora il Pd (area riformista) spinge per l’utilizzo degli asset russi congelati (210 miliardi) in aiuto a Kiev, il M5s dice no e anzi chiede di sospendere le sanzioni contro Putin. Schlein e Conte litigano anche su Trump. Il M5s spinge per il «piano Trump» per la pace in Ucraina. La risposta di Schlein? «La pace per Kiev non sia delegata a una telefonata Trump-Putin».
Ma risultano divisi anche Avs, Italia viva e Azione. Il partito di Calenda è il più filo ucraino e chiede che Ue e Italia restino al fianco del popolo ucraino per una pace giusta. Avs si accoda al M5s e propone lo stop agli aiuti militari per Zelensky. Ogni sostegno economico, politico e militare all’Ucraina, anche con l’utilizzo degli asset russi, è invece la posizione di Più Europa, condivisa con Italia viva e Azione.
Poi il Medio Oriente. Nella risoluzione Pd c’è la richiesta di riconoscere lo Stato di Palestina e sospendere il memorandum tra Italia e Israele. M5s e Avs accusano di genocidio il governo israeliano ignorando l’antisemitismo dilagante.
Terzo tema, il piano di riarmo europeo. Il Pd dice no al potenziamento degli eserciti nazionali e sì al piano della difesa comune europea. Avs e M5s bocciano la difesa comune europea. Italia viva e Azione appoggiano la linea europea sul riarmo.
Infine, che il campo largo sia solo un’illusione lo dimostra anche il caso di Alessandra Moretti finita nell’inchiesta Qatargate. Il Parlamento europeo vota a favore della revoca dell’immunità all’europarlamentare del Pd. Grazie al M5s che dà in pasto la compagna dem al temutissimo sistema giudiziario belga.
L’alleanza tra Pd e M5s è un vero bluff e l’intervento di Giuseppe Conte ad Atreju lo ha sottoscritto. «Non siamo alleati con nessuno». Tradotto: capotavola è dove mi siedo io. Altro che campo largo, abbiamo capito che lui giocherà da solo. E lo stesso farà la Schlein. Ad Atreju, come anche ieri in aula, Conte si è ripreso la scena. Ha lanciato la sfida al Pd ormai malconcio, privo di una direzione politica e incapace di imporsi come baricentro dell’opposizione.
Ieri abbiamo definitivamente capito che il campo largo non esiste. Conte non ci sta ad essere comandato da una segretaria del Pd ancora politicamente acerba, comunicativamente incapace e schiacciata dalle correnti del suo stesso partito. I sondaggi dicono che perfino molti elettori del Pd lo preferirebbero come candidato premier e lui ci crede. Il campo largo per lui è una gabbia dalla quale uscire.
Anche se in maniera piuttosto discutibile, è comunque stato per due volte premier. E tanto gli basta per sentirsi ancora il leader. In politica estera parte molto avvantaggiato rispetto alla Schlein che non conosce nessuno. Ha già un rapporto privilegiato con l’amministrazione Trump e con le cancellerie europee, che la Schlein isolazionista non sa neppure dove si trovino.
La realtà racconta di un centrodestra compatto e di una sinistra che si logora giorno dopo giorno in una guerra intestina per la leadership dell’opposizione. Una sinistra che si interroga su chi comandi, con «alleati» che si smentiscono continuamente. Nel centrodestra è tutto chiaro, da sempre: se si vince, il leader del partito che prende più voti fa il premier. Nel centrosinistra, invece, è un caos, come al solito.
Tutti balleranno da soli, come stanno già facendo, un valzer che ricorda l’ultimo ballo sul Titanic.
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Con Elena Tessari, grande "donna del vino", raccontiamo una storia di eccellenza italiana. Con qualche consiglio per il Natale che arriva.