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2021-11-17
Le ombre cinesi spaventano Biden. Il Dragone vince su clima e Taiwan
Il dialogo tra Joe Biden e Xi Jinping (Ansa)
La Casa Bianca sta ammorbidendo la sua linea nei confronti di Pechino. È questo, in estrema sintesi, il succo dell'incontro virtuale intercorso lunedì sera tra il presidente americano, Joe Biden, e il suo omologo cinese, Xi Jinping. È infatti innanzitutto dai toni che tira aria di distensione. «Sembra che sia nostra responsabilità, come leader di Cina e Stati Uniti, garantire che la competizione tra i nostri Paesi non si trasformi in un conflitto, intenzionale o meno. Solo una concorrenza semplice e diretta», ha dichiarato Biden in apertura. «Mi sembra», ha proseguito, «che dobbiamo stabilire un guardrail di buon senso, essere chiari e onesti dove non siamo d'accordo e lavorare insieme dove i nostri interessi si intersecano, specialmente su questioni globali vitali come il cambiamento climatico». Xi, dal canto suo, si è detto «molto felice» di poter rivedere Biden, da lui definito un «vecchio amico».
Il disgelo non è tuttavia solo una questione di toni, ma anche di contenuti. È pur vero che, nel corso del colloquio di oltre tre ore, il presidente americano abbia espresso delle preoccupazioni in materia di diritti umani, con particolare riferimento ai dossier di Hong Kong, Tibet e Xinjiang. Tuttavia, l'inquilino della Casa Bianca ha di fatto teso la mano al Dragone su due punti fondamentali. In primis Biden ha ribadito l'ancoraggio americano alla politica dell'«unica Cina» e al Taiwan Relations Act: una norma che consente agli Stati Uniti di fornire armi a Taipei ma che non li obbliga a entrare in guerra in sua difesa. Ricordiamo che, durante un dibattito televisivo il mese scorso, il presidente americano si fosse detto pronto a difendere militarmente l'isola in caso di attacco: una posizione che aveva irritato Pechino e che – guarda caso – era stata velocemente smentita dalla stessa Casa Bianca. Ebbene, nonostante nel colloquio dell'altro ieri Biden abbia espresso preoccupazione per Taipei, il rinnovato ossequio alla politica dell'«unica Cina» rappresenta una vittoria rilevante per Pechino. Tanto più che la «risoluzione storica» approvata di recente dal plenum del Partito comunista cinese (Pcc) ha definito la riunificazione di Taiwan alla Cina come «una missione storica e un impegno incrollabile».
Il secondo fronte di dialogo riguarda poi il cambiamento climatico. È del resto proprio su questo dossier che Washington sta principalmente cercando di rilanciare la cooperazione con Pechino. Non va trascurato infatti che il vertice di lunedì sia stato fissato a seguito della Dichiarazione congiunta tra Stati Uniti e Cina, siglata la settimana scorsa a Glasgow in occasione della Cop26. Un documento che è stato favorevolmente salutato da gran parte della stampa, ma che – a ben vedere – è foriero di significativi rischi. Non soltanto infatti ha un contenuto vago e privo di impegni concreti sul fronte ambientale per la Cina. Ma, in termini geopolitici, allenta anche la pressione statunitense su Pechino in una fase delicata sia per Taiwan che per lo Xinjiang. Si tratta, in altre parole, di un documento che sancisce la vittoria della linea di John Kerry: l'attuale inviato speciale statunitense per il clima è infatti un noto fautore dell'approccio morbido nei confronti della Repubblica popolare. Un approccio che, nelle sue intenzioni, dovrebbe favorire la cooperazione ambientale tra Washington e Pechino. Peccato però che alla Cop26 il Dragone si sia sfilato dagli accordi più importanti e che la condizione degli uiguri continui a rivelarsi un tema urgente. Non è un caso che, in patria, Kerry sia stato più volte accusato dai repubblicani di anteporre indebitamente la collaborazione climatica alla tutela dei diritti umani.
Insomma, sembra proprio che la Casa Bianca scelga la via della cooperazione con Pechino in una fase in cui non si registrano oggettivamente le condizioni per un disgelo. La mano tesa di Biden rischia infatti soltanto di rafforzare una Cina sempre più aggressiva (si veda il caso della pressione militare su Taiwan) e restia ad accettare vincoli internazionali. D'altronde, non si tratta di un limite nuovo per l'attuale presidente: era infatti lo scorso giugno, quando cercò di avviare un'improvvisa distensione con Vladimir Putin, rimuovendo le sanzioni al gasdotto Nord Stream 2 ma senza ottenere di fatto nulla in cambio.
Al di là di una debolezza politica interna che si ripercuote sulla sua credibilità internazionale, Biden sconta cattive doti da negoziatore, oltre al fatto di risultare troppo prevedibile. Un fattore, questo, di estrema problematicità in un mondo sempre più caotico, specialmente quando si ha a che fare con un interlocutore privo di scrupoli come il Pcc. Per spiazzare e mettere sotto pressione gli avversari, l'approccio più efficace dovrebbe semmai essere quello della cosiddetta «teoria del pazzo» di nixoniana memoria. Ora, secondo quanto rivelato ieri dal Washington Post, la Casa Bianca starebbe per annunciare un boicottaggio diplomatico delle olimpiadi che si terranno a Pechino il prossimo febbraio: una mossa che, se confermata, rappresenterebbe un segnale importante, ma che – da sola – non basterebbe. Per affrontare adeguatamente la minaccia cinese, l'assoluta priorità di Biden dovrebbe infatti essere quella di sbarazzarsi della «linea Kerry» e delle sue pericolose ambiguità. Limitarsi agli atti simbolici non è sufficiente.
Militari presi a sassate dai migranti
Il getto dei cannoni ad acqua dei soldati polacchi si abbatte sui migranti stipati al confine tra Bielorussia e Polonia. Mentre il presidente Lukashenko, dopo avere alzato il tiro nei giorni scorsi, cerca di smorzare i toni e di assicurare di non essere in cerca di scontri che, anzi, andrebbero a suo parere evitati, la realtà parla di animi ormai esacerbati e di una situazione sempre più compromessa ogni giorno che passa. Al valico di Kuznica-Bruzgi, dove migliaia di migranti sono a rischio di morire di freddo anche senza l'aiuto dell'acqua dei cannoni, la prova di forza tra Minsk e Varsavia va avanti senza ripensamenti. Lukashenko continua imperterrito ad illudere i migranti sulla possibilità di entrare in Europa e la Polonia ribadisce e conferma ancora una volta che la costruzione del muro al confine, che coprirà almeno la metà della frontiera, verrà avviata a dicembre e terminerà al massimo a gennaio del 2022 nel silenzio-assenso dell'Ue. Nel frattempo, a dividere la massa umana usata dalla Bielorussia come arma della guerra ibrida nel cuore dell'Europa da un sogno che in realtà è un incubo, resiste un alto filo spinato dove ieri la violenza è cresciuta. Alla sassaiola partita da parte dei migranti esasperati, le forze di sicurezza polacche hanno risposto anche coi lacrimogeni.
I corposi pacchetti di sanzioni confezionati dalla Ue per Lukashenko sembrano al momento lettera morta e, in ogni caso, non spaventano più di tanto il loro destinatario. L'Alto rappresentante per la politica estera Ue, Joseph Borrell, ha tentato anche un approccio più «soft» attraverso il colloquio col ministro degli Esteri bielorusso, Vladimir Makei. La doppia faccia della Bielorussia sembra però trasparire dallo scarno risultato dell'incontro. «La Bielorussia ha garantito che fornirà sostegno e accetterà l'accesso delle organizzazioni dell'Onu per l'aiuto ai rifugiati ma il ministro bielorusso ha declinato ogni responsabilità per le persone che si trovano lì», ha fatto sapere Borrell.
Il gioco di Lukashenko, che continua a far transitare migranti ai confini europei e a metterne la vita a rischio deve, secondo i vertici Ue, giungere ad una conclusione. «Sono persone che non potranno venire in Europa ma non potranno morire congelate. Dobbiamo aiutarle», ha affermato Borrell. Su chi debba assumersi la responsabilità di porre fine ad una crisi umanitaria apparentemente ingestibile, l'elenco è ampio: «Le organizzazioni umanitarie, lo Stato bielorusso, la Polonia, che ha offerto supporto umanitario». In tutto questo, l'Europa sta già predisponendo ed ufficializzerà nei prossimi giorni l'ennesimo pacchetto di sanzioni al quale collabora ancora una volta il dipartimento di Stato Usa, per colpire i responsabili dello sfruttamento dei migranti. In attesa del nuovo elenco di sanzioni, il presidente francese Macron ha parlato con Putin, visto che la Russia è al momento uno dei maggiori alleati di Lukashenko, mostrando preoccupazione per la strumentalizzazione dei flussi migratori. Laconica la risposta di Mosca, che ha rispedito al mittente le accuse di complicità: «Ue e Bielorussia dovrebbero discutere in modo diretto dei problemi in corso», ha suggerito Putin «ed occuparsi del trattamento estremamente crudele dei rifugiati da parte delle guardie di frontiera polacche».
L'Europa, ormai alle strette, tenta il tutto per tutto, giocandosi la carta del «Fondo per asilo, migrazione e integrazione», destinando allo stesso 1,1 miliardi di euro nel bilancio Ue 2022. Altri soldi verranno stanziati per la protezione del confine con la Bielorussia, per rafforzare la cooperazione sulla gestione delle frontiere esterne, per la difesa a sostegno dell'autonomia strategica e della sicurezza europea. Né l'approccio più duro, né quelli più diplomatici sembrano, però, in grado di sbloccare la situazione.
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Il presidente Usa abbandona Taipei al suo destino: gli Stati Uniti rinunciano a difenderla se sarà invasa. Passa la linea Kerry: la tutela dell'ambiente più importante dei diritti umani. E Xi ringrazia l'«amico Joe».Scontri al confine tra Polonia e Bielorussia, i soldati rispondono con i lacrimogeni. Borrell gela i clandestini: «Nessuno entrerà in Europa». Putin attacca Varsavia.Lo speciale contiene due articoli.La Casa Bianca sta ammorbidendo la sua linea nei confronti di Pechino. È questo, in estrema sintesi, il succo dell'incontro virtuale intercorso lunedì sera tra il presidente americano, Joe Biden, e il suo omologo cinese, Xi Jinping. È infatti innanzitutto dai toni che tira aria di distensione. «Sembra che sia nostra responsabilità, come leader di Cina e Stati Uniti, garantire che la competizione tra i nostri Paesi non si trasformi in un conflitto, intenzionale o meno. Solo una concorrenza semplice e diretta», ha dichiarato Biden in apertura. «Mi sembra», ha proseguito, «che dobbiamo stabilire un guardrail di buon senso, essere chiari e onesti dove non siamo d'accordo e lavorare insieme dove i nostri interessi si intersecano, specialmente su questioni globali vitali come il cambiamento climatico». Xi, dal canto suo, si è detto «molto felice» di poter rivedere Biden, da lui definito un «vecchio amico».Il disgelo non è tuttavia solo una questione di toni, ma anche di contenuti. È pur vero che, nel corso del colloquio di oltre tre ore, il presidente americano abbia espresso delle preoccupazioni in materia di diritti umani, con particolare riferimento ai dossier di Hong Kong, Tibet e Xinjiang. Tuttavia, l'inquilino della Casa Bianca ha di fatto teso la mano al Dragone su due punti fondamentali. In primis Biden ha ribadito l'ancoraggio americano alla politica dell'«unica Cina» e al Taiwan Relations Act: una norma che consente agli Stati Uniti di fornire armi a Taipei ma che non li obbliga a entrare in guerra in sua difesa. Ricordiamo che, durante un dibattito televisivo il mese scorso, il presidente americano si fosse detto pronto a difendere militarmente l'isola in caso di attacco: una posizione che aveva irritato Pechino e che – guarda caso – era stata velocemente smentita dalla stessa Casa Bianca. Ebbene, nonostante nel colloquio dell'altro ieri Biden abbia espresso preoccupazione per Taipei, il rinnovato ossequio alla politica dell'«unica Cina» rappresenta una vittoria rilevante per Pechino. Tanto più che la «risoluzione storica» approvata di recente dal plenum del Partito comunista cinese (Pcc) ha definito la riunificazione di Taiwan alla Cina come «una missione storica e un impegno incrollabile». Il secondo fronte di dialogo riguarda poi il cambiamento climatico. È del resto proprio su questo dossier che Washington sta principalmente cercando di rilanciare la cooperazione con Pechino. Non va trascurato infatti che il vertice di lunedì sia stato fissato a seguito della Dichiarazione congiunta tra Stati Uniti e Cina, siglata la settimana scorsa a Glasgow in occasione della Cop26. Un documento che è stato favorevolmente salutato da gran parte della stampa, ma che – a ben vedere – è foriero di significativi rischi. Non soltanto infatti ha un contenuto vago e privo di impegni concreti sul fronte ambientale per la Cina. Ma, in termini geopolitici, allenta anche la pressione statunitense su Pechino in una fase delicata sia per Taiwan che per lo Xinjiang. Si tratta, in altre parole, di un documento che sancisce la vittoria della linea di John Kerry: l'attuale inviato speciale statunitense per il clima è infatti un noto fautore dell'approccio morbido nei confronti della Repubblica popolare. Un approccio che, nelle sue intenzioni, dovrebbe favorire la cooperazione ambientale tra Washington e Pechino. Peccato però che alla Cop26 il Dragone si sia sfilato dagli accordi più importanti e che la condizione degli uiguri continui a rivelarsi un tema urgente. Non è un caso che, in patria, Kerry sia stato più volte accusato dai repubblicani di anteporre indebitamente la collaborazione climatica alla tutela dei diritti umani. Insomma, sembra proprio che la Casa Bianca scelga la via della cooperazione con Pechino in una fase in cui non si registrano oggettivamente le condizioni per un disgelo. La mano tesa di Biden rischia infatti soltanto di rafforzare una Cina sempre più aggressiva (si veda il caso della pressione militare su Taiwan) e restia ad accettare vincoli internazionali. D'altronde, non si tratta di un limite nuovo per l'attuale presidente: era infatti lo scorso giugno, quando cercò di avviare un'improvvisa distensione con Vladimir Putin, rimuovendo le sanzioni al gasdotto Nord Stream 2 ma senza ottenere di fatto nulla in cambio.Al di là di una debolezza politica interna che si ripercuote sulla sua credibilità internazionale, Biden sconta cattive doti da negoziatore, oltre al fatto di risultare troppo prevedibile. Un fattore, questo, di estrema problematicità in un mondo sempre più caotico, specialmente quando si ha a che fare con un interlocutore privo di scrupoli come il Pcc. Per spiazzare e mettere sotto pressione gli avversari, l'approccio più efficace dovrebbe semmai essere quello della cosiddetta «teoria del pazzo» di nixoniana memoria. Ora, secondo quanto rivelato ieri dal Washington Post, la Casa Bianca starebbe per annunciare un boicottaggio diplomatico delle olimpiadi che si terranno a Pechino il prossimo febbraio: una mossa che, se confermata, rappresenterebbe un segnale importante, ma che – da sola – non basterebbe. Per affrontare adeguatamente la minaccia cinese, l'assoluta priorità di Biden dovrebbe infatti essere quella di sbarazzarsi della «linea Kerry» e delle sue pericolose ambiguità. Limitarsi agli atti simbolici non è sufficiente.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/-cina-usa-bielorussia-europa-2655749776.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="militari-presi-a-sassate-dai-migranti" data-post-id="2655749776" data-published-at="1637139406" data-use-pagination="False"> Militari presi a sassate dai migranti Il getto dei cannoni ad acqua dei soldati polacchi si abbatte sui migranti stipati al confine tra Bielorussia e Polonia. Mentre il presidente Lukashenko, dopo avere alzato il tiro nei giorni scorsi, cerca di smorzare i toni e di assicurare di non essere in cerca di scontri che, anzi, andrebbero a suo parere evitati, la realtà parla di animi ormai esacerbati e di una situazione sempre più compromessa ogni giorno che passa. Al valico di Kuznica-Bruzgi, dove migliaia di migranti sono a rischio di morire di freddo anche senza l'aiuto dell'acqua dei cannoni, la prova di forza tra Minsk e Varsavia va avanti senza ripensamenti. Lukashenko continua imperterrito ad illudere i migranti sulla possibilità di entrare in Europa e la Polonia ribadisce e conferma ancora una volta che la costruzione del muro al confine, che coprirà almeno la metà della frontiera, verrà avviata a dicembre e terminerà al massimo a gennaio del 2022 nel silenzio-assenso dell'Ue. Nel frattempo, a dividere la massa umana usata dalla Bielorussia come arma della guerra ibrida nel cuore dell'Europa da un sogno che in realtà è un incubo, resiste un alto filo spinato dove ieri la violenza è cresciuta. Alla sassaiola partita da parte dei migranti esasperati, le forze di sicurezza polacche hanno risposto anche coi lacrimogeni. I corposi pacchetti di sanzioni confezionati dalla Ue per Lukashenko sembrano al momento lettera morta e, in ogni caso, non spaventano più di tanto il loro destinatario. L'Alto rappresentante per la politica estera Ue, Joseph Borrell, ha tentato anche un approccio più «soft» attraverso il colloquio col ministro degli Esteri bielorusso, Vladimir Makei. La doppia faccia della Bielorussia sembra però trasparire dallo scarno risultato dell'incontro. «La Bielorussia ha garantito che fornirà sostegno e accetterà l'accesso delle organizzazioni dell'Onu per l'aiuto ai rifugiati ma il ministro bielorusso ha declinato ogni responsabilità per le persone che si trovano lì», ha fatto sapere Borrell. Il gioco di Lukashenko, che continua a far transitare migranti ai confini europei e a metterne la vita a rischio deve, secondo i vertici Ue, giungere ad una conclusione. «Sono persone che non potranno venire in Europa ma non potranno morire congelate. Dobbiamo aiutarle», ha affermato Borrell. Su chi debba assumersi la responsabilità di porre fine ad una crisi umanitaria apparentemente ingestibile, l'elenco è ampio: «Le organizzazioni umanitarie, lo Stato bielorusso, la Polonia, che ha offerto supporto umanitario». In tutto questo, l'Europa sta già predisponendo ed ufficializzerà nei prossimi giorni l'ennesimo pacchetto di sanzioni al quale collabora ancora una volta il dipartimento di Stato Usa, per colpire i responsabili dello sfruttamento dei migranti. In attesa del nuovo elenco di sanzioni, il presidente francese Macron ha parlato con Putin, visto che la Russia è al momento uno dei maggiori alleati di Lukashenko, mostrando preoccupazione per la strumentalizzazione dei flussi migratori. Laconica la risposta di Mosca, che ha rispedito al mittente le accuse di complicità: «Ue e Bielorussia dovrebbero discutere in modo diretto dei problemi in corso», ha suggerito Putin «ed occuparsi del trattamento estremamente crudele dei rifugiati da parte delle guardie di frontiera polacche». L'Europa, ormai alle strette, tenta il tutto per tutto, giocandosi la carta del «Fondo per asilo, migrazione e integrazione», destinando allo stesso 1,1 miliardi di euro nel bilancio Ue 2022. Altri soldi verranno stanziati per la protezione del confine con la Bielorussia, per rafforzare la cooperazione sulla gestione delle frontiere esterne, per la difesa a sostegno dell'autonomia strategica e della sicurezza europea. Né l'approccio più duro, né quelli più diplomatici sembrano, però, in grado di sbloccare la situazione.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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