2024-10-15
Ucraina impantanata, Zuppi torna a Mosca
Il cardinale Matteo Zuppi e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov (Ansa)
Dopo la tregua con Zelensky, il Papa manda il capo della Cei a discutere con Lavrov sul ricongiungimento dei bambini «russificati». I due si stringono la mano a favore di camera: un timido passo (forse) verso la pace, cercata dagli alleati di Kiev e dai militari esausti.C’è una stretta di mano da far conoscere al mondo. Arriva da due delle diplomazie più criptiche del pianeta, quindi è un segnale. È quella fra il ministro degli Esteri Sergej Lavrov e il cardinal Matteo Zuppi, atterrato a Mosca in missione per conto di Papa Francesco. Un gesto reso pubblico per la prima volta dal Cremlino (nell’analogo vertice del giugno 2023 ci furono solo silenzi e battibecchi) che potrebbe significare una disponibilità di massima a compiere un timido passo verso la pace. Siamo ai prodromi delle premesse, ma in questa fase nulla può sfuggire nel linguaggio subliminale dei potenti e dei loro emissari.Lavrov e Zuppi si sono incontrati per discutere (notare la vaghezza lessicale) «di cooperazione nella sfera umanitaria nel contesto del conflitto in Ucraina» come spiega una nota del ministero degli Esteri russo, e il colloquio è avvenuto con uno «sviluppo costruttivo del dialogo tra Russia e Vaticano». Più esplicito il direttore della sala stampa vaticana, Matteo Bruni: «Il cardinal Zuppi ha iniziato una nuova visita a Mosca, nel quadro del compito affidatogli da Papa Francesco l’anno scorso, per incontrare le autorità e valutare ulteriori sforzi per favorire il ricongiungimento familiare dei bambini ucraini e lo scambio di prigionieri, in vista del raggiungimento della tanto sperata pace».Mentre sul fronte diplomatico le numerose missioni del presidente della Cei (a Kiev, Mosca, Washington, Pechino) non hanno prodotto risultati visibili, su quello umanitario sembra arrivato il tempo di una svolta sul destino dei bambini «russificati e rieducati» da Vladimir Putin e dei prigionieri di ambo le parti. In questa direzione un mese fa si era mosso anche il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, che aveva chiamato in causa la commissaria russa per i diritti umani Tatiana Molkalkova, a conferma che il varco aperto dal ritorno a casa dei bambini viene considerato strategico per mettere le basi al processo negoziale. In questo contesto, la speranza è che Zuppi riesca a incontrare anche il patriarca Kirill, molto vicino allo zar del Cremlino ma ancora lontano dalle ragioni dell’Occidente, per «portare avanti iniziative umanitarie e ricercare percorsi che possano condurre a una pace giusta». Il programma prevede un summit con il metropolita Antonij, presidente del dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne al Patriarcato. Meglio che niente.Ovviamente una foto non basta. In questa fase i segnali di stanchezza nei confronti della guerra arrivano soprattutto da Volodymyr Zelensky che ha visto impantanarsi l’offensiva di Kursk proprio mentre si avvicina il temuto inverno russo. Il premier ucraino ha dovuto effettuare personalmente un tour nelle capitali occidentali per chiedere con modalità da questua nuovi aiuti e nuove armi ad alleati tutt’altro che entusiasti. E dopo l’incontro con il pontefice ha dovuto garantire un cambio di passo verso la pace, concretizzato da un tweet emblematico: «In ottobre, novembre e dicembre abbiamo una reale possibilità di spingere la situazione verso la pace e una stabilità duratura. La situazione sul campo crea un’opportunità per un’azione decisiva che metta fine alla guerra non oltre il 2025».La dichiarazione rappresenta una frenata del bellicismo terminologico, determinata anche dagli scenari decisamente mutati a Washington, dove Joe Biden tramonta senza rimpianti dietro la linea dell’orizzonte; il presidente ha preferito annullare il vertice di Ramstein in Germania, dove Zelensky avrebbe dovuto presentare agli alleati l’ennesimo «piano per la vittoria». I possibili successori alla Casa Bianca hanno già fatto sapere nei comizi di non voler continuare la guerra: Donald Trump lo dice esplicitamente, Kamala Harris in modo più felpato (per non sconfessare l’ormai ex capo) ma senza tentennamenti. Anche in Europa la parola «guerra» non piace più ai leader, tranne che al muscolare e velleitario Emmanuel Macron. Interessante la partita a scacchi dei tedeschi: il cancelliere Olaf Scholz, alle prese con enormi difficoltà interne (recessione, Green deal contestatissimo) e in vista delle elezioni anticipate a marzo, spinge per un accordo con la Russia - anche separato - e potrebbe costringere la Nato a sollevare il piede dall’acceleratore. Fin qui si è opposto alla fornitura di missili a lungo raggio Taurus all’Ucraina, sarebbe contrario all’ingresso di Kiev nell’alleanza e preparerebbe (secondo Die Zeit) una telefonata a Putin prima del G20 di novembre a Rio de Janeiro. A questo proposito ha dichiarato che «Putin è pronto a parlare». L’esatto contrario di ciò che ha detto la sua ministra degli Esteri, Annalena Baerbock: «Putin non vuole più neppure sentirlo al telefono». Un cortocircuito superato dal portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, a conferma che l’opzione trattativa è diventata un fattore: «Berlino non ha proposto colloqui ma Mosca ha ripetutamente affermato di essere aperta a contatti».La partita a scacchi continua e non si nega siparietti di folclore. Come quello relativo all’attore americano Steven Seagal, ormai naturalizzato russo, che ha lanciato un film su Donbass (In nome della giustizia) e ha dichiarato di essere pronto «a morire per Putin». I veterani gli hanno assicurato il pieno sostegno e un fucile nel caso volesse andare a combattere in Ucraina. Cambierà idea.
Container in arrivo al Port Jersey Container Terminal di New York (Getty Images)
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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