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2021-04-15
Zingaretti regala ai russi dati genetici degli italiani
(Jakub Porzycki/NurPhoto via Getty Images)
Regione Lazio, Spallanzani e istituto Gamaleya di Mosca firmano un accordo con l'intento di portare in Italia il vaccino Sputnik. I pilastri del documento si basano sulla collaborazione scientifica e lo scambio di materiali e conoscenza. Da un lato si vuole approfondire l'efficacia del vaccino sulle varianti e dall'altro avviare una sperimentazione su 600 volontari italiani che hanno già ricevuto la prima dose con Astrazeneca e sarebbero disposti a farsi iniettare, per la seconda, il siero russo. Dalle comunicazioni ufficiali si capisce che l'obiettivo è una pianificazione congiunta e una conduzione di studi clinici con l'impiego del vaccino Sputnik, nonché l'avvio della fase 4 in contesti reali. Fin qui, tutto può sembrare perfino interessante. In realtà, il pericolo sta nella controparte. I russi in cambio avranno l'accesso ai dati genetici tratti dalla biobanca dell'istituto Spallanzani.
Con le informazioni sensibili, Gamaleya potrà sviluppare e far crescere la seconda vita di Sputnik, incrociando gli effetti sulle varianti del virus. Già il 6 marzo si era compreso il potenziale rischio. Ma a confermare la scelta presa dalla Regione guidata da
Nicola Zingaretti è stata ieri La Repubblica che ha pubblicato un lungo articolo specificando che ai russi saranno cedute informazioni su ben 120 ceppi virali in cambio di campioni prelevati da chi ha ottenuto le fiale di Mosca. Il dramma è che in caso di controversie non ci sarà un giudizio.
Semplicemente si scioglierà l'accordo. E ai russi sarà rimasta questa enorme massa di informazioni sulla quale vale la pena porsi numerosi interrogativi. Ne va innanzitutto del tema del diritto dei data base delle biobanche e del rispetto della norma europea della Gdpr, il regolamento generale sulla protezione dei dati. Posto che lo Spallanzani abbia - immaginiamo certamente di sì - messo in piedi l'intera struttura secondo le norme Uniiso utili alla gestione dell'intero ciclo e abbia preventivamente fatto sapere a tutti i pazienti coinvolti l'intenzione di trasferire i loro dati, una volta che l'accordo politico diventerà un contratto vero e proprio si aprirà il vero scoglio. «Per attivare il trasferimento», spiega alla
Verità l'avvocato Giulia Aranguena, esperto di blockchain e di normative privacy, «bisogna calcolare le decisioni di adeguatezza della Commissione europea. Ai sensi dell'articolo 45 del Gdpr il trasferimento di dati personali verso un Paese terzo o un'organizzazione internazionale è ammesso se la Commissione ha deciso che il Paese terzo in questione garantisca un livello di protezione adeguato». Non è il caso della Russia che è stata definita dall'Ue una nazione che non garantisce adeguata privacy. In mancanza di una decisione ai sensi dell'articolo 45», prosegue Aranguena, «il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento può trasferire dati personali verso un Paese terzo solo se ha fornito garanzie adeguate e a condizione che gli interessati dispongano di diritti azionabili e mezzi di ricorso effettivi». Difficile immaginare che possa avvenire in territorio moscovita. Non solo. Nel mese di dicembre 2018, il Garante italiano ha emesso importanti provvedimenti per il mondo della ricerca scientifica sanitaria ed epidemiologica: regole deontologiche per i trattamenti nell'ambito del sistema statistico nazionale e da parte di enti di ricerca e prescrizioni contenute nelle autorizzazioni generali per trattare dati genetici e per il riuso dei dati sanitari. Ne segue che la Regione Lazio prima di regalare ai russi i dati degli italiani dovrà chiedere il parere al Garante. E non entriamo nei dettagli più complessi che un tale trasferimento imporrebbe. Ciò che deve fare alzare le antenne è però il contorno politico. Lo Spallanzani ha avviato, come La Verità, ha già raccontato, un accordo con Reithera nel marzo del 2020, utilizzando come primi finanziamenti fondi del Cnr. Obiettivo è sviluppare un vaccino a partire dal brevetto della società privata. Il gruppo ha atteso per mesi l'intervento di Invitalia di Domenico Arcuri. Arrivato solo lo scorso febbraio facendo perdere 9 mesi preziosi. Non solo. L'iniezione di liquidità non è minimamente sufficiente per sostenere l'intera fase 3. In pratica, il vaccino rischia di arrivare quando il mercato avrà già sieri di seconda generazione. La scorsa settimana i vertici dell'azienda hanno incontrato il nuovo commissario, il generale Francesco Figliuolo. Dall'incontro non è emersa la possibilità di usare lo stabilimento di Castel Romano per insaccare un vaccino terzo. È facile immaginare che adesso la Regione che vede svanire il vaccino italiano e la possibilità di avere una fabbrica in loco tenti il tutto per tutto con i russi. Ma non è accettabile. Per due motivi. Primo, i dati genetici degli italiani non si possono scambiare per nessun motivo. Secondo, come può una Regione prendere una decisione di tale importanza geopolitica? È vero che Mario Draghi ebbe a dire che se l'Ue non sarebbe stata in grado di opzionare vaccini avremmo potuto pensare pure allo Sputnik. Nel frattempo lo scenario è cambiato. Soltanto l'altro ieri i media americani riportavano una posizione informale della Casa Bianca. L'uso dello Sputnik da parte della Germania potrebbe avviare le sanzioni Usa. Proprio sicuri valga la pena offrire i dati genetici degli italiani, rischiare sanzioni senza la certezza di avere un vaccino aggiuntivo e dall'altra parte offrire a Zingaretti un ritorno politico?
L'ora peggiore per un flirt con Mosca. Gli Stati Uniti varano nuove sanzioni
Il caso dello Spallanzani scoppia in uno dei momenti forse meno opportuni dal punto di vista geopolitico. Nonostante Mario Draghi non abbia inizialmente assunto un atteggiamento di totale chiusura verso la Russia, la situazione sta adesso (almeno parzialmente) cambiando. Il premier si sta infatti sempre più allineando a Washington, soprattutto per disporre di una sponda nella difficile partita libica. E non è un mistero che, con l'arrivo di Joe Biden alla presidenza americana, la tensione tra Casa Bianca e Cremlino sia tornata progressivamente a salire. Giusto ieri, gli Stati Uniti hanno comminato delle sanzioni a Mosca, accusandola di spionaggio informatico ed influenza elettorale. Non solo: Washington è anche pronta ad espellere dieci diplomatici russi, tacciati di appartenere ai servizi di intelligence di Mosca. Il ministro degli Esteri russo, per tutta risposta, ha convocato l'ambasciatore americano in Russia, mentre il Cremlino ha annunciato misure ritorsive. Si aggiunga che, sempre in queste ore, l'ambasciatore russo a Londra, Andrey Kelin, è stato convocato dal ministero degli Esteri britannico in relazione all'operazione di hackeraggio SolarWinds, per la quale è stata accusata Mosca. Biden non ha mai amato Vladimir Putin: non soltanto lo ha aspramente criticato ai tempi della campagna elettorale ma, il mese scorso, è arrivato a definirlo un «assassino» durante un'intervista televisiva. In tutto questo, non vanno neppure dimenticate le turbolenze riesplose in Ucraina, con la Casa Bianca che si è nettamente schierata a fianco di Kiev. Insomma, le relazioni sono tesissime. E questo, nonostante Biden abbia proposto un incontro al presidente russo in un Paese terzo. Vedremo che cosa succederà in tal senso, ma almeno per ora un rasserenamento nei rapporti tra Washington e Mosca risulta fortemente improbabile. Anche perché il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha lasciato intendere ieri che un eventuale vertice bilaterale non risulterebbe comunque imminente.
Un contesto internazionale spinoso, che Draghi ovviamente non può permettersi di ignorare. Come detto, l'obiettivo principale del nostro premier è quello di avere l'amministrazione Biden dalla sua parte, per far tornare Roma protagonista in Libia: un obiettivo che potrebbe riuscire a conseguire. L'incaricato d'Affari presso l'ambasciata americana in Italia, Thomas Smitham, ha in tal senso recentemente affermato: «C'è sintonia tra l'amministrazione Biden e il governo Draghi. Possiamo lavorare insieme su tanti temi importanti». «La Libia», ha aggiunto, «è estremamente importante per l'Italia e Blinken e Di Maio hanno parlato nel loro incontro a Washington della necessità di collaborare di più su questo tema. La nostra posizione, comune con Roma, è che le forze straniere debbano lasciare il Paese». «Tra poche settimane arriverà qui il nostro ambasciatore in Libia per avere un colloquio con l'Italia su questo tema così importante», ha concluso.
Insomma, è chiaro che, avendo la questione libica come principale obiettivo, Draghi si stia allineando alla strategia americana. È d'altronde in questo quadro che vanno inserite le recenti turbolenze diplomatiche di Roma con Mosca (dettate dal caso di Walter Biot) e Ankara (sorte a causa del diverbio con Recep Tayyip Erdogan): non a caso, Russia e Turchia sono le principali protagoniste di quella spartizione libica a cui Biden vuole opporsi, per riportare il Paese nordafricano in un'orbita atlantica. Un'operazione, questa, in cui Washington sembra oggi voler puntare principalmente proprio sul governo Draghi. Certo: non è detto che il contesto internazionale non possa mutare in futuro e che, come accennato, Washington e Mosca non possano tornare a parlarsi (anche perché ci sono dossier che potrebbero avvicinare le due parti: dal nucleare iraniano all'Afghanistan). Tuttavia, almeno per ora, la questione dello Spallanzani rischia di entrare in rotta di collisione con la politica estera di Palazzo Chigi.
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Regione Lazio e Spallanzani cedono informazioni sui ceppi virali e sulle varianti nella trattativa sullo Sputnik, che fu messo a punto anche grazie alla spedizione militare moscovita autorizzata dai giallorossi. La notizia nel giorno delle nuove sanzioni degli Usa. E il Pd ha la faccia tosta di accusare la Lega d'intendersela con Vladimir Putin. Dal Donbass a Vladimir Putin definito «killer»: tra le due potenze la tensione è alle stelle. Lo speciale contiene due articoli. Regione Lazio, Spallanzani e istituto Gamaleya di Mosca firmano un accordo con l'intento di portare in Italia il vaccino Sputnik. I pilastri del documento si basano sulla collaborazione scientifica e lo scambio di materiali e conoscenza. Da un lato si vuole approfondire l'efficacia del vaccino sulle varianti e dall'altro avviare una sperimentazione su 600 volontari italiani che hanno già ricevuto la prima dose con Astrazeneca e sarebbero disposti a farsi iniettare, per la seconda, il siero russo. Dalle comunicazioni ufficiali si capisce che l'obiettivo è una pianificazione congiunta e una conduzione di studi clinici con l'impiego del vaccino Sputnik, nonché l'avvio della fase 4 in contesti reali. Fin qui, tutto può sembrare perfino interessante. In realtà, il pericolo sta nella controparte. I russi in cambio avranno l'accesso ai dati genetici tratti dalla biobanca dell'istituto Spallanzani. Con le informazioni sensibili, Gamaleya potrà sviluppare e far crescere la seconda vita di Sputnik, incrociando gli effetti sulle varianti del virus. Già il 6 marzo si era compreso il potenziale rischio. Ma a confermare la scelta presa dalla Regione guidata da Nicola Zingaretti è stata ieri La Repubblica che ha pubblicato un lungo articolo specificando che ai russi saranno cedute informazioni su ben 120 ceppi virali in cambio di campioni prelevati da chi ha ottenuto le fiale di Mosca. Il dramma è che in caso di controversie non ci sarà un giudizio. Semplicemente si scioglierà l'accordo. E ai russi sarà rimasta questa enorme massa di informazioni sulla quale vale la pena porsi numerosi interrogativi. Ne va innanzitutto del tema del diritto dei data base delle biobanche e del rispetto della norma europea della Gdpr, il regolamento generale sulla protezione dei dati. Posto che lo Spallanzani abbia - immaginiamo certamente di sì - messo in piedi l'intera struttura secondo le norme Uniiso utili alla gestione dell'intero ciclo e abbia preventivamente fatto sapere a tutti i pazienti coinvolti l'intenzione di trasferire i loro dati, una volta che l'accordo politico diventerà un contratto vero e proprio si aprirà il vero scoglio. «Per attivare il trasferimento», spiega alla Verità l'avvocato Giulia Aranguena, esperto di blockchain e di normative privacy, «bisogna calcolare le decisioni di adeguatezza della Commissione europea. Ai sensi dell'articolo 45 del Gdpr il trasferimento di dati personali verso un Paese terzo o un'organizzazione internazionale è ammesso se la Commissione ha deciso che il Paese terzo in questione garantisca un livello di protezione adeguato». Non è il caso della Russia che è stata definita dall'Ue una nazione che non garantisce adeguata privacy. In mancanza di una decisione ai sensi dell'articolo 45», prosegue Aranguena, «il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento può trasferire dati personali verso un Paese terzo solo se ha fornito garanzie adeguate e a condizione che gli interessati dispongano di diritti azionabili e mezzi di ricorso effettivi». Difficile immaginare che possa avvenire in territorio moscovita. Non solo. Nel mese di dicembre 2018, il Garante italiano ha emesso importanti provvedimenti per il mondo della ricerca scientifica sanitaria ed epidemiologica: regole deontologiche per i trattamenti nell'ambito del sistema statistico nazionale e da parte di enti di ricerca e prescrizioni contenute nelle autorizzazioni generali per trattare dati genetici e per il riuso dei dati sanitari. Ne segue che la Regione Lazio prima di regalare ai russi i dati degli italiani dovrà chiedere il parere al Garante. E non entriamo nei dettagli più complessi che un tale trasferimento imporrebbe. Ciò che deve fare alzare le antenne è però il contorno politico. Lo Spallanzani ha avviato, come La Verità, ha già raccontato, un accordo con Reithera nel marzo del 2020, utilizzando come primi finanziamenti fondi del Cnr. Obiettivo è sviluppare un vaccino a partire dal brevetto della società privata. Il gruppo ha atteso per mesi l'intervento di Invitalia di Domenico Arcuri. Arrivato solo lo scorso febbraio facendo perdere 9 mesi preziosi. Non solo. L'iniezione di liquidità non è minimamente sufficiente per sostenere l'intera fase 3. In pratica, il vaccino rischia di arrivare quando il mercato avrà già sieri di seconda generazione. La scorsa settimana i vertici dell'azienda hanno incontrato il nuovo commissario, il generale Francesco Figliuolo. Dall'incontro non è emersa la possibilità di usare lo stabilimento di Castel Romano per insaccare un vaccino terzo. È facile immaginare che adesso la Regione che vede svanire il vaccino italiano e la possibilità di avere una fabbrica in loco tenti il tutto per tutto con i russi. Ma non è accettabile. Per due motivi. Primo, i dati genetici degli italiani non si possono scambiare per nessun motivo. Secondo, come può una Regione prendere una decisione di tale importanza geopolitica? È vero che Mario Draghi ebbe a dire che se l'Ue non sarebbe stata in grado di opzionare vaccini avremmo potuto pensare pure allo Sputnik. Nel frattempo lo scenario è cambiato. Soltanto l'altro ieri i media americani riportavano una posizione informale della Casa Bianca. L'uso dello Sputnik da parte della Germania potrebbe avviare le sanzioni Usa. Proprio sicuri valga la pena offrire i dati genetici degli italiani, rischiare sanzioni senza la certezza di avere un vaccino aggiuntivo e dall'altra parte offrire a Zingaretti un ritorno politico? <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/zingaretti-regala-ai-russi-dati-genetici-degli-italiani-2652596597.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="l-ora-peggiore-per-un-flirt-con-mosca-gli-stati-uniti-varano-nuove-sanzioni" data-post-id="2652596597" data-published-at="1618514803" data-use-pagination="False"> L'ora peggiore per un flirt con Mosca. Gli Stati Uniti varano nuove sanzioni Il caso dello Spallanzani scoppia in uno dei momenti forse meno opportuni dal punto di vista geopolitico. Nonostante Mario Draghi non abbia inizialmente assunto un atteggiamento di totale chiusura verso la Russia, la situazione sta adesso (almeno parzialmente) cambiando. Il premier si sta infatti sempre più allineando a Washington, soprattutto per disporre di una sponda nella difficile partita libica. E non è un mistero che, con l'arrivo di Joe Biden alla presidenza americana, la tensione tra Casa Bianca e Cremlino sia tornata progressivamente a salire. Giusto ieri, gli Stati Uniti hanno comminato delle sanzioni a Mosca, accusandola di spionaggio informatico ed influenza elettorale. Non solo: Washington è anche pronta ad espellere dieci diplomatici russi, tacciati di appartenere ai servizi di intelligence di Mosca. Il ministro degli Esteri russo, per tutta risposta, ha convocato l'ambasciatore americano in Russia, mentre il Cremlino ha annunciato misure ritorsive. Si aggiunga che, sempre in queste ore, l'ambasciatore russo a Londra, Andrey Kelin, è stato convocato dal ministero degli Esteri britannico in relazione all'operazione di hackeraggio SolarWinds, per la quale è stata accusata Mosca. Biden non ha mai amato Vladimir Putin: non soltanto lo ha aspramente criticato ai tempi della campagna elettorale ma, il mese scorso, è arrivato a definirlo un «assassino» durante un'intervista televisiva. In tutto questo, non vanno neppure dimenticate le turbolenze riesplose in Ucraina, con la Casa Bianca che si è nettamente schierata a fianco di Kiev. Insomma, le relazioni sono tesissime. E questo, nonostante Biden abbia proposto un incontro al presidente russo in un Paese terzo. Vedremo che cosa succederà in tal senso, ma almeno per ora un rasserenamento nei rapporti tra Washington e Mosca risulta fortemente improbabile. Anche perché il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha lasciato intendere ieri che un eventuale vertice bilaterale non risulterebbe comunque imminente. Un contesto internazionale spinoso, che Draghi ovviamente non può permettersi di ignorare. Come detto, l'obiettivo principale del nostro premier è quello di avere l'amministrazione Biden dalla sua parte, per far tornare Roma protagonista in Libia: un obiettivo che potrebbe riuscire a conseguire. L'incaricato d'Affari presso l'ambasciata americana in Italia, Thomas Smitham, ha in tal senso recentemente affermato: «C'è sintonia tra l'amministrazione Biden e il governo Draghi. Possiamo lavorare insieme su tanti temi importanti». «La Libia», ha aggiunto, «è estremamente importante per l'Italia e Blinken e Di Maio hanno parlato nel loro incontro a Washington della necessità di collaborare di più su questo tema. La nostra posizione, comune con Roma, è che le forze straniere debbano lasciare il Paese». «Tra poche settimane arriverà qui il nostro ambasciatore in Libia per avere un colloquio con l'Italia su questo tema così importante», ha concluso. Insomma, è chiaro che, avendo la questione libica come principale obiettivo, Draghi si stia allineando alla strategia americana. È d'altronde in questo quadro che vanno inserite le recenti turbolenze diplomatiche di Roma con Mosca (dettate dal caso di Walter Biot) e Ankara (sorte a causa del diverbio con Recep Tayyip Erdogan): non a caso, Russia e Turchia sono le principali protagoniste di quella spartizione libica a cui Biden vuole opporsi, per riportare il Paese nordafricano in un'orbita atlantica. Un'operazione, questa, in cui Washington sembra oggi voler puntare principalmente proprio sul governo Draghi. Certo: non è detto che il contesto internazionale non possa mutare in futuro e che, come accennato, Washington e Mosca non possano tornare a parlarsi (anche perché ci sono dossier che potrebbero avvicinare le due parti: dal nucleare iraniano all'Afghanistan). Tuttavia, almeno per ora, la questione dello Spallanzani rischia di entrare in rotta di collisione con la politica estera di Palazzo Chigi.
Trump blocca il petrolio del Venezuela. Domanda elettrica, una questione di sicurezza nazionale. Le strategie della Cina per l’Artico. Auto 2035, l’Ue annacqua ma ormai il danno è fatto.
Dinanzi a tale insipienza strategica, i popoli non rimangono impassibili. Già alla vigilia del vertice dei 27, Politico aveva pubblicato i risultati di un sondaggio, secondo il quale sia in Francia sia in Germania sono aumentati quelli che vorrebbero «ridurre significativamente» il sostegno monetario all’Ucraina. I tedeschi che chiedono tagli drastici sono il 32%, percentuale cui va sommato il 14% di quanti si accontenterebbero di una qualsiasi stretta. Totale: 46%. I transalpini stufi di sborsare, invece, sono il 37% del totale. Per la Bild, l’opinione pubblica di Berlino è ancora più netta sull’opportunità di continuare a inviare armi al fronte: il 58% risponde di no. Infine, una rilevazione di Rtl e Ntv ha appurato che il 75% dei cittadini boccia l’operato del cancelliere Friedrich Merz, principale fautore della poi scongiurata «rapina» dei fondi di Mosca. Non è un caso che, stando almeno alle ricostruzioni del Consiglio Ue proposte da Repubblica, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni abbiano motivato le proprie riserve sul piano con la difficoltà di far digerire ai Parlamenti nazionali, quindi agli elettori, una mozza così azzardata. Lo scollamento permanente dalla realtà che caratterizza l’operato della Commissione, a quanto pare, risponde alla filosofia esposta da Sergio Mattarella a proposito del riarmo a tappe forzate: è impopolare, ma è necessario.
La disputa sulle sovvenzioni a Zelensky - e speriamo siano a Zelensky, ovvero al bilancio del Paese aggredito, anziché ai cessi d’oro dei suoi oligarchi corrotti - ha comunque generato pure un’altra forma di divaricazione: quella tra i fatti e le rappresentazioni mediatiche.
I fatti sono questi: Ursula von der Leyen, spalleggiata da Merz, ha subìto l’ennesimo smacco; l’Unione ha ripiegato all’unanimità sugli eurobond, sebbene Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca siano state esentate dagli obblighi contributivi, perché abbandonare i lavori senza alcun accordo, oppure con un accordo a maggioranza qualificata, sarebbe stato drammatico; alla fine, l’Europa si è condannata all’ennesimo salasso. E la rappresentazione?
La Stampa ieri è partita per Plutone: titolava sulla «svolta» del debito comune, descritta addirittura come un «compromesso storico». Il corrispondente da Bruxelles, Marco Bresolin, in verità ha usato toni più sobri, sottolineando la «grande delusione» di chi avrebbe voluto «punire la Russia» e riconoscendo il successo del premier belga, Bart De Wever, ostile all’impiego degli asset; mentre l’inviato, Francesco Malfetano, dava atto alla Meloni di aver pianificato «la sua mossa più efficace». Sul Corriere, il fiasco di Merz si è trasformato in una «vittoria a metà». Repubblica ha borbottato per la «trappola» tesa dal cancelliere e a Ursula. Ma Andrea Bonanni, in un editoriale, ha lodato l’esito «non scontato» del Consiglio. L’Europa, ha scritto, «era chiamata a sostituirsi a Washington per consentire a Kiev di continuare la resistenza contro l’attacco russo. Lo ha fatto. Doveva trovare i soldi. Li ha trovati ricorrendo ancora una volta a un prestito comune, come fece al tempo dell’emergenza Covid». Un trionfo. Le memorie del regimetto pandemico avranno giocato un ruolo, nel convincere le firme di largo Fochetti che, «stavolta», l’Ue abbia «battuto un colpo».
Un colpo dev’essere venuto ai leader continentali. Costoro, compiuto il giro di boa, forse si convinceranno a smetterla di sabotare le trattative. Prova ne sia la sveglia di Macron, che ha avvisato gli omologhi: se fallisce la mediazione Usa, tocca agli europei aprire un canale con Vladimir Putin. Tutto sommato, avere gli asset in ostaggio può servire a scongiurare l’incubo dell’Ue: sparire di scena.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
La soluzione del prestito dunque salva capra e cavoli, ovvero gli interessi di chi ritiene giusto dover alimentare con aiuti e armi la resistenza di Kiev e anche quelli di quanti temevano la reazione russa all’uso dei fondi. Una mediazione soddisfacente per tutti, dunque? Non esattamente, visto che la soluzione escogitata non è affatto gratis. Già: mentre i vertici della Ue si fanno i complimenti per aver raggiunto un’intesa, a non congratularsi dovrebbero essere i cittadini europei, perché l’accordo raggiunto non è gratis, ma graverà ancora una volta sulle tasche dei contribuenti. Lasciate perdere per un momento come e quando l’Ucraina sarà in grado di restituire il prestito che le verrà concesso. Se Kiev fosse un comune cittadino nessuna banca la finanzierebbe, perché agli occhi di qualsiasi istituto di credito non offrirebbe alcuna garanzia di restituzione del mutuo concesso. Per molti anni gli ucraini non saranno in grado di restituire ciò che ricevono. Dunque, i soldi che la Ue si prepara a erogare rischiano di essere a fondo perduto, cioè di non ritornare mai nelle tasche dei legittimi proprietari, cioè noi, perché il prestito non è garantito da Volodymyr Zelensky, in quanto il presidente ucraino non ha nulla da offrire in garanzia, ma dall’Europa, vale a dire da chi nel Vecchio continente paga le tasse.
Lasciate perdere che, con la corruzione che regna nel Paese, parte dei soldi che diamo a Kiev rischia di sparire nelle tasche di una serie di politici e burocrati avidi prima ancora di arrivare a destinazione. E cancelliamo pure dalla memoria le immagini dei cessi d’oro fatti installare dai collaboratori mano lesta del presidente ucraino: rubinetti, bidet, vasca e tutto il resto lo abbiamo pagato noi, con i nostri soldi. Il grande reset della realtà, per come si è fin qui palesata, tuttavia non può cancellare quello che ci aspetta.
Il prestito della Ue, come ogni finanziamento, non è gratis: quando voi fate il mutuo per la casa, oltre a rimborsare mese dopo mese parte del capitale, pagate gli interessi. Ma in questo caso il tasso non sarà a carico di chi riceve i soldi, come sempre capita, ma - udite, udite - di chi li garantisce, ovvero noi. Politico, sito indipendente, ha calcolato che ogni anno la Ue sarà costretta a sborsare circa 3 miliardi di interessi, non proprio noccioline. Chi pagherà? È ovvio: non sarà lo Spirito Santo, ma ancora noi. Dividendo la cifra per il numero di abitanti all’interno della Ue si capisce che ogni cittadino dovrà mettere mano al portafogli per 220 euro, neonati e minorenni inclusi. Se poi l’aliquota la si vuol applicare sopra una certa soglia di età, si arriva a 300.
Ecco, la pace sia con voi la pagheremo cara e probabilmente pagheremo cari anche i 90 miliardi concessi all’Ucraina, perché quasi certamente Kiev non li restituirà mai e toccherà a noi, intesi come Ue, farcene carico. Piccola noticina: com’è che, quando servivano soldi per rilanciare l’economia e i salari, Bruxelles era contraria e adesso, se c’è da far debito per sostenere l’Ucraina, invece è favorevole? Il mistero delle scelte Ue continua. Ma soprattutto, si capisce che alla base di ogni decisione, a differenza di ciò che ci hanno raccontato per anni, non ci sono motivazioni economiche, ma solo politiche.
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