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2019-07-20
«Vuoi il successo? Fai abortire la tua fidanzatina»
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Sei un adolescente la cui ragazza ha abortito? Niente paura, anzi rallegrati: farai più strada dei tuoi coetanei diventati genitori. È lo sconvolgente messaggio che trapela da un nuovo studio pubblicato sul Journal of Adolescent Health da cui, in sintesi, si evince che ai partner di ragazze che hanno abortito tocca un futuro educativo e finanziario migliore rispetto agli altri coetanei.
Nello specifico, i ricercatori hanno scoperto che i fidanzati di giovani reduci da un aborto sono laureati nel 22% dei casi, contro appena il 6% di quanti invece hanno scelto di diventare genitori.
Anche in termini di istruzione post secondaria la differenza è parsa netta, dal momento che quasi il 60% dei giovani che da adolescenti hanno visto la propria ragazza abortire hanno conseguito un titolo di quel livello, rispetto al 32% degli altri.
Benché la ricerca non sia risultata statisticamente significativa, gli autori non si sono risparmiati di evidenziare pure una differenza di reddito tra i giovani adulti che hanno segnalato l'esperienza di un aborto e quelli che sono diventati padri: i primi guadagnano in media circa 39.000 dollari annui, i secondi 33.000.
Evidenze alla luce delle quali Bethany Everett dell'università dello Utah, l'autrice principale dello studio citato - eloquentemente intitolato «Male abortion beneficiaries» - non si è risparmiata un commento surreale. «In un periodo in cui, negli Stati Uniti, assistiamo al diffondersi di leggi restrittive sull'aborto», ha infatti dichiarato la Everett, «dovremmo considerare anche le potenziali conseguenze dannose di queste restrizioni». Come a dire: attenti, cari politici pro life, a scoraggiare la soppressione prenatale, perché potreste concorrere alla diffusione dell'analfabetismo e dell'abbandono scolastico, se non perfino alla disoccupazione. Siamo evidentemente alle farneticazioni.
Del resto lo stesso studio, esaminato da vicino, presenta limiti enormi. Tanto per cominciare, non accosta le biografie dei maschi che hanno vissuto con la propria partner l'esperienza di un aborto con quanti, invece, da giovani non hanno ingravidato la propria ragazza, che logicamente sarebbe il solo confronto utile a mettere in luce gli eventuali «benefici maschili» dell'aborto in quanto tale.
C'è inoltre da dire che i ricercatori hanno riscontrato solo un'associazione tra aborti e livello di formazione raggiunto dai giovani adulti. Ma un'associazione non equivale sempre a un nesso di causalità. Altrimenti i maschi più istruiti dovrebbero essere quelli che hanno fatto abortire più volte la propria compagna, il che vorrebbe automaticamente dire che i professori universitari hanno tutti almeno un'esperienza di paternità mancata alle spalle. Un assurdo, ovviamente.
In terzo luogo, spulciando le sette pagine dello studio si scopre come gli stessi autori ammettano a denti stretti che il loro campione - pari a 597 uomini individuati nel National longitudinal study of adolescent to adult health, uno studio sugli adolescenti reclutati all'inizio degli anni Novanta e seguiti in età adulta - non consente alcuna conclusione generale. «Our sample may not be generalizable», sono le parole esatte.
Tutto questo, unitamente alla già ricordata e non significativa differenza di reddito tra i giovani padri e gli altri, fa capire come le parole della Everett sulle restrizioni dell'aborto siano da intendersi come una mera opinione, senza alcuna base scientifica.
Un quarto limite di questa ricerca concerne poi il suo ignorare una dimensione fondamentale: quella psicologica. Sì, perché l'aborto ha conseguenze anche sulla salute maschile. Ad attestarlo, numerose ricerche che hanno messo in luce il dolore, l'ansia, i profondi sensi di colpa nonché la depressione che colpiscono i padri mancati. Nel loro libro, Fatherhood aborted: the profound effects of abortion on men, gli studiosi Guy Condon e David Hazard arrivano a parlare addirittura, per l'uomo, di un trauma post abortivo, mentre lo psicologo Vincent Rue evidenzia che la sofferenza maschile per la paternità interrotta è poco esaminata ed è pure difficile da studiare perché gli uomini «sono più propensi a negare il loro dolore o a interiorizzare i loro sentimenti di perdita piuttosto che ad esprimerli apertamente».
Una quinta, enorme criticità di questa ricerca riguarda il fatto che - quand'anche il «beneficio maschile» per una paternità interrotta fosse provato, anche se provato non è affatto, anzi - essa non considera minimamente le conseguenze sulla donna, queste sì riscontrate da evidenze scientifiche che mostrano come l'aborto volontario faccia rima con maggiori rischi di isterectomia post partum, placenta previa, futuri aborti spontanei, depressione, abuso di sostanze, tumori al seno, mortalità materna e suicidi. Meglio andarci piano, insomma, prima di esaltare i presunti benefici dell'aborto.
Anche perché a ben vedere, al di là delle criticità fin qui esposte, quanto emerso nello studio della Everett sembra in realtà avere un'altra spiegazione. La minor istruzione dei padri adolescenti, infatti, più che la penalizzazione per un aborto non effettuato, rispecchia i maggiori - e ovvi - impegni del farsi una famiglia. Lo suggerisce un altro studio pubblicato nel 2012 sulla rivista «peer reviewed» Economic Inquiry, che ha riscontrato come la paternità in giovane età sia legata a matrimoni precoci e a ingressi anticipati nel mondo nel lavoro. In altre parole, non è l'aborto bensì l'irresponsabilità a determinare vantaggi. Vantaggi assai relativi, s'intende. Perché, come chiunque ha figli ben sa, quella della paternità è una gioia che non ha prezzo.
Asse gialloblù contro le parole «sessiste»
Il governo gialloblù, alla ricerca di una rinnovata coesione, sembra trovarla nel politicamente corretto e nella neolingua della parità di genere. L'esempio più lampante emerge, in tutta la sua forza, nella direttiva cofirmata dal ministro della Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno (Lega), e dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle Pari opportunità e ai giovani, Vincenzo Spadafora (M5s), rivolta a quanti lavorano nella Pubblica amministrazione. Un provvedimento che rischia di compromettere le libertà costituzionali (art. 21) e che mira ad affermare il l'obiettivo della «parità di risultato» in luogo del più corretto principio delle «pari opportunità».
Il documento predispone l'avvio di «azioni di sensibilizzazione e formazione di tutta la dirigenza sulle tematiche delle pari opportunità, sulla prevenzione e contrasto di ogni forma di discriminazione». Ma non è tutto: in ogni documento di lavoro - dalle relazioni alle circolari, dai decreti ai regolamenti - viene vivamente consigliato l'uso di «termini non discriminatori», a partire da «sostantivi o nomi collettivi che includano persone dei due generi». Sarà opportuno, quindi, scrivere «persone», anziché «uomini». In perfetto stile gender mainstreaming, la Bongiorno si è trasformata in una Boldrini d'altri tempi, scopiazzando un po' l'idea della rivoluzione di carte e badge che furono messi in circolazione a Montecitorio. Ma una società che voglia davvero permettere alle donne e agli uomini di avere le stesse possibilità ha bisogno di cambiare il normale uso delle parole? Cosa davvero può riequilibrare i rapporti di forza? Perché non aiutare sul posto di lavoro le mamme lavoratrici, considerandole proprio madri e donne come sono, e per questo bisognose di una conciliazione più felice di maternità e lavoro? Troppo facile, poco arcobaleno?
Sul piano operativo, ogni pubblica amministrazione dovrà inoltre promuovere la «formazione» e l'«aggiornamento» allo scopo di contribuire «allo sviluppo della cultura di genere, anche attraverso la promozione di stili di comportamento rispettosi», in linea appunto con i principi del gender mainstreaming tanto cari all'Unione Europea, che li ha messi a punto nel «Piano d'azione sul genere 2016-2020». Su questo punto emerge la contraddizione del programma politico della Lega, in bilico tra un «antieuropeismo di lotta» e un «europeismo di governo», tra l'auspicato ritorno all'Europa delle radici cristiane e dei principi non negoziabili e il cedimento ai diktat tecnocratici di Bruxelles che vogliono il gender (anche nascondendosi dietro il trasformismo delle parole). Un'ambiguità che desta preoccupazione e ci fa alzare sulla sedia.
A quanto riferisce l'Ansa, la direttiva sarebbe stata messa a punto prima del caso Sea Watch 3, in cui il vicepremier Matteo Salvini aveva definito «sbruffoncella» la comandante della nave della Ong tedesca, Carola Rackete. Un epiteto deplorato dallo stesso Spadafora, che aveva parlato di «pericolosa deriva sessista». Quest'affermazione del sottosegretario aveva suscitato «sorpresa» nel ministro Bongiorno, senza però pregiudicare la realizzazione definitiva del documento congiunto. Perché, per questa azione di governo, i due vanno d'amore e d'accordo?
Un prezzo da pagare nella tenuta della coalizione di governo è quindi l'imposizione di un'agenda all'insegna delle «quote rosa» e di un linguaggio che virtualmente annulla le differenze sessuali, affermando il gender neutral. Stabilire i paletti dei due terzi più un terzo per ciascuno sesso rischia così di anteporre l'appartenenza di genere alle reali competenze professionali di impiegati e dirigenti. Altrettanto dannosa o, come minimo, inutile è l'affermazione di terminologie presentate come «non discriminatorie»: scrivere «persone» al posto di «uomini» è una palese concessione al lessico gender fluid e all'ideologia ad esso sottesa.
Georges Bernanos, il famoso scrittore cattolico francese, lo aveva già annunciato: «Se si perde la battaglia delle parole, si perde la battaglia delle idee». Come volevasi dimostrare, la battaglia è in atto. E la vera «riforma» da fare non può essere lessicale, quella è un'illusione ottica oltre che perniciosa. Piuttosto deve partire da un'attenzione alle esigenze reali, che non possono non prendere in considerazione il mondo delle donne (quindi anche delle madri) lavoratrici, poste in primo piano nel Manifesto del Congresso mondiale delle famiglie di Verona. Una battaglia che, a più di tre mesi dalla chiusura del Congresso, noi del mondo pro family continuiamo a combattere alacremente.
Jacopo Coghe
Vicepresidente del Congresso mondiale delle famiglie
«Tra lavoro e famiglia scelgo i figli». La fuga dal posto di mamme e papà
Mentre proprio migliaia di italiani cercano di vincere il concorso per diventare navigator, con l'obiettivo di aiutare i disoccupati con il reddito di cittadinanza a trovare un lavoro, nel nostro Paese ogni anno altrettante migliaia di cittadini sono costretti a lasciarlo solo perché diventati genitori. Il fenomeno è in continua crescita e non riguarda più solo le donne. Nel corso del 2018 i neogenitori che, volontariamente o perché messi alle strette, hanno abbandonato il posto entro tre anni dalla nascita del bebè sono aumentati del 23%. Un'emorragia di professionalità, legata alle scelte familiari, che non accenna ad arginarsi. Basti pensare che nella sola Emilia Romagna sono stati più di 5.100 i lavoratori che lo scorso anno hanno scelto di rimanere a casa, due terzi di loro sono mamme.
I dati sono contenuti nella Relazione annuale per il 2018 sulle convalide di dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri nei primi tre anni di vita del figlio, elaborata dall'Ispettorato nazionale del lavoro. Emerge che la media nazionale è di circa 50.000 rinunce ogni anno. Un numero in costante crescita. Le convalide sono riferite soprattutto alle dimissioni volontarie e per giusta causa. Le risoluzioni consensuali sono invece solo la parte residuale.
Dal documento emerge che, soprattutto nel caso delle donne, il motivo principale che le spinge a rinunciare alla professione è la difficoltà a conciliare la vita professionale con la cura dei bambini. Innanzi tutto perché manca una rete parentale in grado di aiutare le neo mamme, ma anche perché i servizi per l'infanzia, per esempio nidi e baby sitter, nel nostro Paese pesano troppo sulle tasche delle famiglie.
E poi naturalmente ci sono le aziende: troppo spesso si rifiutano di concedere i part time o orari più flessibili, rendendo questa conciliazione quasi impossibile. Il problema affligge in gran parte il mondo femminile, ma sta crescendo il numero di uomini costretti a cambiare lavoro perché il datore è troppo rigido da questo punto di vista. Ecco perché in Italia maternità e paternità sono ancora considerati, a tutti gli effetti, veri e propri fermi lavorativi. L'Emilia Romagna è una delle tre Regioni, insieme con Lombardia e Veneto, con il maggior numero di dimissioni protette in Italia. La gran parte dei casi riguarda persone di nazionalità italiana (sono il 76%, con un aumento del 20% rispetto al 2017). Per quanto riguarda la fascia di età, la maggior parte dei casi riguarda persone comprese fra 34 e 44 anni. Quelle, insomma, che mettono su famiglia e decidono di prolificare. Si tratta molto spesso, nella metà dei casi, di lavoratori con un'anzianità di servizio minima, fino a tre anni. Inoltre, nel 58% dei casi le dimissioni avvengono in famiglie nelle quali c'è un solo figlio. Il settore produttivo maggiormente interessato da questo fenomeno è il terziario, nel quale si registra circa il 75% degli episodi. Questo perché si tratta di un comparto caratterizzato da maggiore presenza femminile.
«La maternità è ancora considerata un costo, in particolare per le piccole e medie imprese», spiega Sonia Alvisi, consigliera regionale dell'Emilia Romagna, «la normativa c'è, ma spesso non è sufficiente per sostenere i costi aziendali. Il governo dovrebbe lavorare su eventuali incentivi». Nel frattempo questa emorragia di professionalità va avanti, soprattutto al Nord. La ricerca ha infatti evidenziato che nelle Regioni settentrionali i casi registrati nel corso del 2018 sono stati 31.691 (il 64%), mentre al centro sono stati 9.055 (18%) e al Sud 8.705 (un altro 18%). In particolare proprio l'Emilia Romagna è fra le regioni più esposte, prima ci si sono solo la Lombardia (10.727 casi nel 2018 e 9.781 nel 2017) e il Veneto (7.720 casi nel 2018 e 5.954 nel 2017). Nel frattempo il nostro Paese invecchia sempre di più. Pochi giorni fa, come ha riportato La Verità, l'Istat ha reso noti i dati, allarmanti, sulla crisi della natalità in Italia. L'Istituto di statistica parla di «recessione demografica», mettendo il rilievo come le nuove nascite siano tornate ai ritmi del 1917-18, quelli insomma della Prima guerra mondiale. Con soli 439.000 neonati inscritti all'anagrafe nel 2018: ben 140.000 in meno rispetto a dieci anni fa. I numeri dell'Istat certificano una situazione drammatica: nel nostro Paese il 45% delle donne fra 18 anni e 45 non ha mai avuto un figlio, ma solo il 5% dichiara di non volerne. Per tutte le altre si tratta di una scelta forzata, perché mancano le possibilità, manca il lavoro. Basti pensare che in Italia circa metà della popolazione femminile non ha un'occupazione, e questa percentuale raggiunge il picco del 70% in alcune zone del Sud. Contemporaneamente le politiche messe in atto dal governo non sono considerate abbastanza efficaci: mancano incentivi per rilanciare l'occupazione femminile e investimenti per supportare le mamme che lavorano. E così l'Italia condanna sé stessa e essere sempre più un Paese per vecchi.
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Studio americano teorizza i benefici maschili dell'interruzione di gravidanza. Tutto per fermare i sostenitori delle leggi pro life.Giulia Bongiorno e Vincenzo Spadafora censurano i «termini discriminatori» nella Pa. Ma le donne si aiutano in altro modo.In Italia diventare genitori e prendersi cura dei bambini spesso significa ancora non potersi permettere un'occupazione. Nel 2018 le dimissioni volontarie dopo la nascita di un bebè sono aumentate del 23%.Lo speciale contiene tre articoli.Sei un adolescente la cui ragazza ha abortito? Niente paura, anzi rallegrati: farai più strada dei tuoi coetanei diventati genitori. È lo sconvolgente messaggio che trapela da un nuovo studio pubblicato sul Journal of Adolescent Health da cui, in sintesi, si evince che ai partner di ragazze che hanno abortito tocca un futuro educativo e finanziario migliore rispetto agli altri coetanei. Nello specifico, i ricercatori hanno scoperto che i fidanzati di giovani reduci da un aborto sono laureati nel 22% dei casi, contro appena il 6% di quanti invece hanno scelto di diventare genitori. Anche in termini di istruzione post secondaria la differenza è parsa netta, dal momento che quasi il 60% dei giovani che da adolescenti hanno visto la propria ragazza abortire hanno conseguito un titolo di quel livello, rispetto al 32% degli altri. Benché la ricerca non sia risultata statisticamente significativa, gli autori non si sono risparmiati di evidenziare pure una differenza di reddito tra i giovani adulti che hanno segnalato l'esperienza di un aborto e quelli che sono diventati padri: i primi guadagnano in media circa 39.000 dollari annui, i secondi 33.000.Evidenze alla luce delle quali Bethany Everett dell'università dello Utah, l'autrice principale dello studio citato - eloquentemente intitolato «Male abortion beneficiaries» - non si è risparmiata un commento surreale. «In un periodo in cui, negli Stati Uniti, assistiamo al diffondersi di leggi restrittive sull'aborto», ha infatti dichiarato la Everett, «dovremmo considerare anche le potenziali conseguenze dannose di queste restrizioni». Come a dire: attenti, cari politici pro life, a scoraggiare la soppressione prenatale, perché potreste concorrere alla diffusione dell'analfabetismo e dell'abbandono scolastico, se non perfino alla disoccupazione. Siamo evidentemente alle farneticazioni.Del resto lo stesso studio, esaminato da vicino, presenta limiti enormi. Tanto per cominciare, non accosta le biografie dei maschi che hanno vissuto con la propria partner l'esperienza di un aborto con quanti, invece, da giovani non hanno ingravidato la propria ragazza, che logicamente sarebbe il solo confronto utile a mettere in luce gli eventuali «benefici maschili» dell'aborto in quanto tale.C'è inoltre da dire che i ricercatori hanno riscontrato solo un'associazione tra aborti e livello di formazione raggiunto dai giovani adulti. Ma un'associazione non equivale sempre a un nesso di causalità. Altrimenti i maschi più istruiti dovrebbero essere quelli che hanno fatto abortire più volte la propria compagna, il che vorrebbe automaticamente dire che i professori universitari hanno tutti almeno un'esperienza di paternità mancata alle spalle. Un assurdo, ovviamente.In terzo luogo, spulciando le sette pagine dello studio si scopre come gli stessi autori ammettano a denti stretti che il loro campione - pari a 597 uomini individuati nel National longitudinal study of adolescent to adult health, uno studio sugli adolescenti reclutati all'inizio degli anni Novanta e seguiti in età adulta - non consente alcuna conclusione generale. «Our sample may not be generalizable», sono le parole esatte. Tutto questo, unitamente alla già ricordata e non significativa differenza di reddito tra i giovani padri e gli altri, fa capire come le parole della Everett sulle restrizioni dell'aborto siano da intendersi come una mera opinione, senza alcuna base scientifica.Un quarto limite di questa ricerca concerne poi il suo ignorare una dimensione fondamentale: quella psicologica. Sì, perché l'aborto ha conseguenze anche sulla salute maschile. Ad attestarlo, numerose ricerche che hanno messo in luce il dolore, l'ansia, i profondi sensi di colpa nonché la depressione che colpiscono i padri mancati. Nel loro libro, Fatherhood aborted: the profound effects of abortion on men, gli studiosi Guy Condon e David Hazard arrivano a parlare addirittura, per l'uomo, di un trauma post abortivo, mentre lo psicologo Vincent Rue evidenzia che la sofferenza maschile per la paternità interrotta è poco esaminata ed è pure difficile da studiare perché gli uomini «sono più propensi a negare il loro dolore o a interiorizzare i loro sentimenti di perdita piuttosto che ad esprimerli apertamente».Una quinta, enorme criticità di questa ricerca riguarda il fatto che - quand'anche il «beneficio maschile» per una paternità interrotta fosse provato, anche se provato non è affatto, anzi - essa non considera minimamente le conseguenze sulla donna, queste sì riscontrate da evidenze scientifiche che mostrano come l'aborto volontario faccia rima con maggiori rischi di isterectomia post partum, placenta previa, futuri aborti spontanei, depressione, abuso di sostanze, tumori al seno, mortalità materna e suicidi. Meglio andarci piano, insomma, prima di esaltare i presunti benefici dell'aborto. Anche perché a ben vedere, al di là delle criticità fin qui esposte, quanto emerso nello studio della Everett sembra in realtà avere un'altra spiegazione. La minor istruzione dei padri adolescenti, infatti, più che la penalizzazione per un aborto non effettuato, rispecchia i maggiori - e ovvi - impegni del farsi una famiglia. Lo suggerisce un altro studio pubblicato nel 2012 sulla rivista «peer reviewed» Economic Inquiry, che ha riscontrato come la paternità in giovane età sia legata a matrimoni precoci e a ingressi anticipati nel mondo nel lavoro. In altre parole, non è l'aborto bensì l'irresponsabilità a determinare vantaggi. Vantaggi assai relativi, s'intende. 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Un provvedimento che rischia di compromettere le libertà costituzionali (art. 21) e che mira ad affermare il l'obiettivo della «parità di risultato» in luogo del più corretto principio delle «pari opportunità». Il documento predispone l'avvio di «azioni di sensibilizzazione e formazione di tutta la dirigenza sulle tematiche delle pari opportunità, sulla prevenzione e contrasto di ogni forma di discriminazione». Ma non è tutto: in ogni documento di lavoro - dalle relazioni alle circolari, dai decreti ai regolamenti - viene vivamente consigliato l'uso di «termini non discriminatori», a partire da «sostantivi o nomi collettivi che includano persone dei due generi». Sarà opportuno, quindi, scrivere «persone», anziché «uomini». In perfetto stile gender mainstreaming, la Bongiorno si è trasformata in una Boldrini d'altri tempi, scopiazzando un po' l'idea della rivoluzione di carte e badge che furono messi in circolazione a Montecitorio. Ma una società che voglia davvero permettere alle donne e agli uomini di avere le stesse possibilità ha bisogno di cambiare il normale uso delle parole? Cosa davvero può riequilibrare i rapporti di forza? Perché non aiutare sul posto di lavoro le mamme lavoratrici, considerandole proprio madri e donne come sono, e per questo bisognose di una conciliazione più felice di maternità e lavoro? Troppo facile, poco arcobaleno? Sul piano operativo, ogni pubblica amministrazione dovrà inoltre promuovere la «formazione» e l'«aggiornamento» allo scopo di contribuire «allo sviluppo della cultura di genere, anche attraverso la promozione di stili di comportamento rispettosi», in linea appunto con i principi del gender mainstreaming tanto cari all'Unione Europea, che li ha messi a punto nel «Piano d'azione sul genere 2016-2020». Su questo punto emerge la contraddizione del programma politico della Lega, in bilico tra un «antieuropeismo di lotta» e un «europeismo di governo», tra l'auspicato ritorno all'Europa delle radici cristiane e dei principi non negoziabili e il cedimento ai diktat tecnocratici di Bruxelles che vogliono il gender (anche nascondendosi dietro il trasformismo delle parole). Un'ambiguità che desta preoccupazione e ci fa alzare sulla sedia. A quanto riferisce l'Ansa, la direttiva sarebbe stata messa a punto prima del caso Sea Watch 3, in cui il vicepremier Matteo Salvini aveva definito «sbruffoncella» la comandante della nave della Ong tedesca, Carola Rackete. Un epiteto deplorato dallo stesso Spadafora, che aveva parlato di «pericolosa deriva sessista». Quest'affermazione del sottosegretario aveva suscitato «sorpresa» nel ministro Bongiorno, senza però pregiudicare la realizzazione definitiva del documento congiunto. Perché, per questa azione di governo, i due vanno d'amore e d'accordo? Un prezzo da pagare nella tenuta della coalizione di governo è quindi l'imposizione di un'agenda all'insegna delle «quote rosa» e di un linguaggio che virtualmente annulla le differenze sessuali, affermando il gender neutral. Stabilire i paletti dei due terzi più un terzo per ciascuno sesso rischia così di anteporre l'appartenenza di genere alle reali competenze professionali di impiegati e dirigenti. Altrettanto dannosa o, come minimo, inutile è l'affermazione di terminologie presentate come «non discriminatorie»: scrivere «persone» al posto di «uomini» è una palese concessione al lessico gender fluid e all'ideologia ad esso sottesa. Georges Bernanos, il famoso scrittore cattolico francese, lo aveva già annunciato: «Se si perde la battaglia delle parole, si perde la battaglia delle idee». Come volevasi dimostrare, la battaglia è in atto. E la vera «riforma» da fare non può essere lessicale, quella è un'illusione ottica oltre che perniciosa. Piuttosto deve partire da un'attenzione alle esigenze reali, che non possono non prendere in considerazione il mondo delle donne (quindi anche delle madri) lavoratrici, poste in primo piano nel Manifesto del Congresso mondiale delle famiglie di Verona. Una battaglia che, a più di tre mesi dalla chiusura del Congresso, noi del mondo pro family continuiamo a combattere alacremente. Jacopo CogheVicepresidente del Congresso mondiale delle famiglie <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/vuoi-il-successo-fai-abortire-la-tua-fidanzatina-2639278903.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="tra-lavoro-e-famiglia-scelgo-i-figli-la-fuga-dal-posto-di-mamme-e-papa" data-post-id="2639278903" data-published-at="1765401616" data-use-pagination="False"> «Tra lavoro e famiglia scelgo i figli». La fuga dal posto di mamme e papà Mentre proprio migliaia di italiani cercano di vincere il concorso per diventare navigator, con l'obiettivo di aiutare i disoccupati con il reddito di cittadinanza a trovare un lavoro, nel nostro Paese ogni anno altrettante migliaia di cittadini sono costretti a lasciarlo solo perché diventati genitori. Il fenomeno è in continua crescita e non riguarda più solo le donne. Nel corso del 2018 i neogenitori che, volontariamente o perché messi alle strette, hanno abbandonato il posto entro tre anni dalla nascita del bebè sono aumentati del 23%. Un'emorragia di professionalità, legata alle scelte familiari, che non accenna ad arginarsi. Basti pensare che nella sola Emilia Romagna sono stati più di 5.100 i lavoratori che lo scorso anno hanno scelto di rimanere a casa, due terzi di loro sono mamme. I dati sono contenuti nella Relazione annuale per il 2018 sulle convalide di dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri nei primi tre anni di vita del figlio, elaborata dall'Ispettorato nazionale del lavoro. Emerge che la media nazionale è di circa 50.000 rinunce ogni anno. Un numero in costante crescita. Le convalide sono riferite soprattutto alle dimissioni volontarie e per giusta causa. Le risoluzioni consensuali sono invece solo la parte residuale. Dal documento emerge che, soprattutto nel caso delle donne, il motivo principale che le spinge a rinunciare alla professione è la difficoltà a conciliare la vita professionale con la cura dei bambini. Innanzi tutto perché manca una rete parentale in grado di aiutare le neo mamme, ma anche perché i servizi per l'infanzia, per esempio nidi e baby sitter, nel nostro Paese pesano troppo sulle tasche delle famiglie. E poi naturalmente ci sono le aziende: troppo spesso si rifiutano di concedere i part time o orari più flessibili, rendendo questa conciliazione quasi impossibile. Il problema affligge in gran parte il mondo femminile, ma sta crescendo il numero di uomini costretti a cambiare lavoro perché il datore è troppo rigido da questo punto di vista. Ecco perché in Italia maternità e paternità sono ancora considerati, a tutti gli effetti, veri e propri fermi lavorativi. L'Emilia Romagna è una delle tre Regioni, insieme con Lombardia e Veneto, con il maggior numero di dimissioni protette in Italia. La gran parte dei casi riguarda persone di nazionalità italiana (sono il 76%, con un aumento del 20% rispetto al 2017). Per quanto riguarda la fascia di età, la maggior parte dei casi riguarda persone comprese fra 34 e 44 anni. Quelle, insomma, che mettono su famiglia e decidono di prolificare. Si tratta molto spesso, nella metà dei casi, di lavoratori con un'anzianità di servizio minima, fino a tre anni. Inoltre, nel 58% dei casi le dimissioni avvengono in famiglie nelle quali c'è un solo figlio. Il settore produttivo maggiormente interessato da questo fenomeno è il terziario, nel quale si registra circa il 75% degli episodi. Questo perché si tratta di un comparto caratterizzato da maggiore presenza femminile. «La maternità è ancora considerata un costo, in particolare per le piccole e medie imprese», spiega Sonia Alvisi, consigliera regionale dell'Emilia Romagna, «la normativa c'è, ma spesso non è sufficiente per sostenere i costi aziendali. Il governo dovrebbe lavorare su eventuali incentivi». Nel frattempo questa emorragia di professionalità va avanti, soprattutto al Nord. La ricerca ha infatti evidenziato che nelle Regioni settentrionali i casi registrati nel corso del 2018 sono stati 31.691 (il 64%), mentre al centro sono stati 9.055 (18%) e al Sud 8.705 (un altro 18%). In particolare proprio l'Emilia Romagna è fra le regioni più esposte, prima ci si sono solo la Lombardia (10.727 casi nel 2018 e 9.781 nel 2017) e il Veneto (7.720 casi nel 2018 e 5.954 nel 2017). Nel frattempo il nostro Paese invecchia sempre di più. Pochi giorni fa, come ha riportato La Verità, l'Istat ha reso noti i dati, allarmanti, sulla crisi della natalità in Italia. L'Istituto di statistica parla di «recessione demografica», mettendo il rilievo come le nuove nascite siano tornate ai ritmi del 1917-18, quelli insomma della Prima guerra mondiale. Con soli 439.000 neonati inscritti all'anagrafe nel 2018: ben 140.000 in meno rispetto a dieci anni fa. I numeri dell'Istat certificano una situazione drammatica: nel nostro Paese il 45% delle donne fra 18 anni e 45 non ha mai avuto un figlio, ma solo il 5% dichiara di non volerne. Per tutte le altre si tratta di una scelta forzata, perché mancano le possibilità, manca il lavoro. Basti pensare che in Italia circa metà della popolazione femminile non ha un'occupazione, e questa percentuale raggiunge il picco del 70% in alcune zone del Sud. Contemporaneamente le politiche messe in atto dal governo non sono considerate abbastanza efficaci: mancano incentivi per rilanciare l'occupazione femminile e investimenti per supportare le mamme che lavorano. E così l'Italia condanna sé stessa e essere sempre più un Paese per vecchi.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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