2024-12-03
Pure Berlino piange. Volkswagen si ferma, sciopero a oltranza
Operai in piazza contro i tagli dell’azienda: «Sarà la battaglia contrattuale più dura di sempre». In crisi è un intero modello.Il modello tedesco è arrivato al capolinea. Mentre solo gli ultimi «samurai» difendono il tetto al debito pubblico - l’emendamento alla Costituzione, introdotto da Angela Merkel nel 2009, che limita il deficit strutturale di bilancio allo 0,35% del Pil - e, al contrario, sono sempre di più le voci che chiedono maggiori investimenti pubblici (perfino la Banca centrale), da ieri Volkswagen si trova ad affrontare uno sciopero a oltranza dei suoi lavoratori. Lo ha annunciato domenica Ig Metall, il sindacato dei metalmeccanici tedeschi (che rappresenta gran parte della forza lavoro della compagnia automobilistica), dopo che l’azienda ha rifiutato le sue proposte. «Se necessario, questa sarà la battaglia contrattuale collettiva più dura che Volkswagen abbia mai conosciuto», ha affermato il negoziatore del sindacato, Thorsten Gröger, il quale ha anche spiegato di ritenere il management «responsabile, al tavolo delle trattative, per la durata e l’intensità del confronto». Sul piatto ci sono 15.000 dipendenti che rischiano il licenziamento (il 2% del totale) e la chiusura di due o tre stabilimenti in Germania (sarebbe la prima volta nella storia). Il piano di ristrutturazione, secondo il quotidiano tedesco Handelsblatt, prevede una riduzione dei costi per quattro miliardi di euro, con un taglio del 10% agli stipendi e il congelamento dei salari per gli anni 2025 e 2026.Il gruppo Volkswagen, «l’auto del popolo» voluta da Adolf Hitler nel 1937, vale circa il 5% del Pil tedesco e in Germania conta dieci stabilimenti di produzione di automobili, per un totale di circa 300.000 dipendenti (di cui 120.000 del marchio VW). Intorno alla sede dell’azienda è stata costruita una città, Wolfsburg, che oggi conta circa 120.000 abitanti, ma esiste da meno di un secolo: è stata progettata nel 1938 dal governo nazionalsocialista per dare un’abitazione agli operai. Lo stato di salute di Volkswagen, dunque, riflette piuttosto bene quello dell’intera federazione.Concluso il periodo di dialogo sociale obbligatorio, e in seguito al rigetto delle controproposte dei sindacati ai piani di ristrutturazione, tutti i dipendenti del più grande produttore europeo di automobili sono stati chiamati a sospendere il lavoro a oltranza. «Volete uno scontro? Noi siamo pronti», recitano gli slogan portati in piazza ieri dai manifestanti. A Wolfsburg, la presidente del consiglio di fabbrica, Daniela Cavallo, ha pronunciato un discorso molto duro contro gli azionisti, le famiglie Porsche e Piëch, accusandoli di aver incassato miliardi di euro in dividendi mentre i lavoratori rischiano la chiusura degli stabilimenti e il licenziamento. L’azione sindacale, se non si riuscisse a trovare un accordo nei prossimi giorni, potrebbe assumere dimensioni notevoli, ma soprattutto marca una bella differenza rispetto a chi in Italia, quando chiudono le fabbriche, rilascia interviste a giornali i cui editori sono i proprietari delle fabbriche stesse. O indice scioperi in nome di un inesistente fascismo, invece che stare sul cuore del problema: gli stabilimenti che chiudono e la forza lavoro che ci rimette.Eppure, non è il caso di incensare i sindacati tedeschi, visto che il modello di crescita export-led (ossia trainato dalle esportazioni e dalla domanda estera) su cui si è basata l’economia tedesca fino a oggi richiede per sua stessa natura la compressione dei salari dei lavoratori. L’attacco frontale al costo del lavoro è iniziato nei primi anni 2000, ossia poco dopo l’introduzione della moneta unica, con le famose riforme Hartz. Esse prendono il nome da Peter Hartz, direttore delle risorse umane di Volkswagen fino al 2005 e consigliere di Gerhard Schröder, ultimo cancelliere tedesco socialista prima di Olaf Scholz, e precarizzarono il lavoro introducendo, tra i vari provvedimenti, i famigerati «mini job» (lavori pagati inizialmente non più di 450 euro al mese per un massimo di dieci ore a settimana). Così come il Jobs Act, in Italia, è stato promosso dal Pd (che oggi prova a ricostruirsi una verginità denunciando la stagnazione dei salari), allo stesso modo in Germania l’affondo finale portato al lavoro è arrivato per mano di esecutivi di sinistra. E, anche in questo caso, i sindacati non fecero granché per opporsi.Il motivo, d’altra parte, ce lo ha consegnato la storia. A luglio del 2005 Hartz fu costretto a dimettersi in seguito a uno scandalo che lo accusava di ammansire i rappresentati sindacali nel consiglio di fabbrica (il Betriebsrat), e in particolare il presidente Klaus Volkert, attraverso viaggi all’estero, escort e alberghi di lusso a spese dell’azienda, con tanto di Viagra prescritto dal servizio medico di Volkswagen. Hartz ammise la sua colpevolezza, patteggiò e venne condannato a due anni di prigione (scontati con la condizionale e 576.000 euro di multa). I lavoratori, invece, si tono tenuti i mini job.E ora se la devono vedere con la fine di un modello economico fallimentare, benché ai tempi osannato da alcuni (miopi) economisti nostrani. La fornitura di materie prime a basso costo dalla Russia è venuta meno con lo scoppio della guerra in Ucraina, gli Stati Uniti sono sempre meno disponibili a sostenere le economie estere attraverso ingenti deficit commerciali e le politiche europee, tra green e dazi verso la Cina, di certo non aiutano (benché Pechino rappresenti un raro caso di Paese verso cui la Germania si trova in deficit di bilancia commerciale). Vedremo se Berlino opterà per un lento suicidio o si avvierà per l’unica strada altrimenti percorribile: rilanciare gli investimenti pubblici e i consumi interni. Allora, forse, si potrà parlare senza ipocrisia di locomotiva d’Europa.