
L'associazione non ha più il rinnovamento che veniva garantito dalla naja e c'è l'insidia del politicamente corretto, che porta a nascondere le storie di guerra. I nostri soldati, però, combattono in tutto il mondo.Il 12 maggio è stata la grande festa diffusa, ubiqua, nella città di Milano, dove gli alpini si sono dispersi meravigliati dal Duomo, incombente al loro passaggio, e dalla folla che non si assiepava come atteso sulle transenne, non per essere scarsa ma perché lunga era la via e largo il percorso, rispetto l'usuale, in cui si distribuiva. Finito il panegirico meritato si possono tirare le somme.La lunga marcia è stata segnata costantemente da Trentatré valore alpino, l'inno degli alpini solitamente suonato e non cantato, le cui parole recitano: «Difendi sempre la frontiera, e là sui confin tien sempre alta la bandiera». Che infatti erano, le bandiere, ben alte per tutto il percorso dando il senso fisico del corpo della patria difeso per terra, per mare e per cielo dalle penne nere nei ricordi storici degli striscioni che marcavano il succedersi dei gruppi: la mortale epopea in Russia, la battaglia Battaglia di Nikolajewka, il fronte greco, i fiumi Piave e il Tagliamento, il Monte Grappa e il Nero. Gli striscioni in marcia scandivano la storia del più antico corpo alpino militare attraverso gli episodi della Prima e Seconda guerra mondiale, quella raccontata dai canti delle serate nell'anno di caserma, una volta obbligatorio. Grandi ricordi per strada che stanno, ancora oggi, dando l'entusiasmo necessario ai portori di questi valori di patria e onestà, bene comune e semplice socialità, per andare avanti con lo spirito alpino che serve nelle città del mondo. Per fortuna nostra.Ma tutto questo non ci sarà più, presto: perché la questione anagrafica incombe, gli alpini invecchiano senza il rinnovamento che la naja garantiva loro, approvvigionandoli ogni anno di un contingente di entusiasti reduci. Ma soprattutto senza avere la capacità di cogliere le possibilità di rinnovamento che sono offerte all'Associazione nazionale alpini se fosse meno affezionata sia alla naja sia al politically correct.Come ho detto mi sono commosso, nell'ascoltare i canti, nel vedere le bandiere sventolanti, nel ripercorrere la storia. Ma anche mi sono chiesto perché tutto sia fermo ai ricordi della naja e alla storia che dimentica gli ultimi cinquant'anni di valore. Per un giovane che avesse partecipato alla festa, quell'associazione così raccontata sarebbe il ricordo nostalgico dei vecchi del loro presente: oggi il giovane la naja non la fa più e non sa che cosa sia, se non la bevuta del suo «vecchio», così come l'Ortigara e il Canino non sono simboli. Quando invece, quella medesima associazione, se non fosse per il mantenimento esclusivo della memoria, per lui giovane potrebbe essere il racconto di Luca Barisonzi, esempio di sopravvivenza vitale al ferimento grave nel 2011 in Afghanistan, con la divisa dell'8° reggimento alpini addosso. O di Manuel Fiorito e Luca Polsinelli, del 2° e del 9° reggimento alpini rispettivamente, ammazzati nel 2006 sempre in Afghanistan. La lista potrebbe continuare, per gli alpini e per tanti altri.Ma dove sono questi nostri soldati che il sangue l'hanno lasciato per le strade del mondo, per difendere quel medesimo Paese che aveva le frontiere una volta sulle Alpi oggi sui monti dell'Asia? È sempre sangue alpino. E si tratta sempre di guerre per l'Italia.Cercate un canto, cercate uno striscione nella grande sfilata che ricordi queste storie di guerra, esempi tra gli esempi, che possono essere additati ai giovani e a loro tanto vicini, perché presenti nella loro esperienza mediatizzata, da poter essere ricordati. Non troverete nulla di tutto questo, se non a fatica un reduce anonimizzato su una carrozzella elettrica tra un gruppo e l'altro «dei reduci di caserma», che morranno come alpini per vecchiaia senza aver predisposto quel cambio culturale che permetterà la sopravvivenza a un'associazione tra le più meritevoli, necessarie ed esemplari per questa Patria.Non si tratta solo di colpe personali, dovute all'innamoramento per la propria esperienza che, non essendo più patrimonio comune per altri, diventa eutanasia associativa. Si tratta anche di colpe collettive che si ritrovano nella impossibilità di riconoscere pubblicamente la guerra combattuta a Bala Morghab, a Shindand, a Farah e in tanti altri posti dove il sangue italiano si è assorbito nel silenzio della terra e dei media, politicamente corretti, per gli interessi politici che fanno la guerra, solo potendo negarne l'esistenza stessa, a parole.Il futuro degli alpini, il loro valore che si manifesta nel riconoscimento di necessità del loro sodalizio per il nostro Paese, si ritrova sia nell'affermazione delle radici antiche sia nell'esplicita, pubblica, orgogliosa, «ostentata» manifestazione dei virgulti di sangue che li rinforzano ieri e oggi, nelle nuove guerre, che come tali sono e si devono riconoscere, prima ancora che essere silenziosamente contrabbandate come operazioni di peace enforcing et similia. Viva gli alpini.
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Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.