2022-04-07
Via le virostar, ecco le geopopstar. Storia e teorici della geopolitica
True
Andrea Margelletti (Ansa)
Considerata per anni una scienza nazista o fascista, oggi la geopolitica viene sdoganata. E scopriamo che, da più di un secolo, essa vede nelle zone ora contese tra Ucraina e Russia un perno della storia mondiale.Dalle virostar alle geopopstar. Il repentino cambio di paradigma globale, con il passaggio dall'emergenza pandemica a quella bellica, ha modificato le agende ma non la necessità, per chi fa informazione, di venire incontro alle esigenze di un pubblico smarrito che cerca il parere rassicurante degli esperti sul tema caldo del momento. Via i Bassetti, i Galli, i Pregliasco, quindi, dentro i Caracciolo, i Margelletti, i Fabbri. Basta con le varianti, gli indici di contagio, le curve pandemiche, ora tocca ai missili ipersonici, alla storia dell'Urss, alla composizione etnica del Donbass. In un caso come nell'altro, alla fredda competenza e alla mera esposizione di numeri e fatti si accompagna la capacità di istituire una narrazione che fa la fortuna dell'esperto. Si pensi solo alla rapida ascesa di Dario Fabbri, divenuto volto iconico di Limes e poi passato, con quello che è apparso quasi un colpo di calciomercato, al gruppo editoriale Domani, per cui ha iniziato a curare Scenari. Un passaggio che solo qualche anno fa sarebbe stato notato solo dagli addetti ai lavori e che oggi invece fa discutere.Ma che cos'è la geopolitica? E quando nasce? È vero che si tratta di una «scienza nazista»? La Treccani, pur avvertendo che non ne esiste una definizione univoca, parla di «una disciplina che studia i rapporti, le influenze, i condizionamenti e le limitazioni dei fattori geografici - fisici e umani - sulla politica, vale a dire su comportamenti, decisioni, percezioni e azioni dei vari attori geopolitici, siano essi gli Stati, le entità sovra- o sub-nazionali, o anche le grandi imprese industriali e commerciali». Si tratta, insomma, di una vera e propria «geografia politica», espressione peraltro spesso usata come sinonimo di geopolitica. La letteratura appare concorde nel ritenere che il termine geopolitica sia stato introdotto nel 1899 dallo svedese Rudolph Kjellen e l'espressione geografia politica si debba invece al tedesco Friedrich Ratzel, che ne parlò la prima volta nel 1897. In particolare, Kjellen considerava la geopolitica una delle cinque categorie necessarie per l'analisi politica degli Stati, le altre essendo la demopolitica, la sociopolitica, l'ecopolitica e la cratopolitica. Quanto a Ratzel, invece, bisogna ricordare che è a lui che dobbiamo il concetto di spazio vitale (Lebensraum), ossia la porzione di superficie terrestre occupata da una specie e in cui si trovano le condizioni ambientali ottimali che ne consentono la proliferazione. Come noto, il termine entrerà poi nel gergo nazionalsocialista per indicare il territorio di cui avrebbe avuto bisogno il popolo tedesco per svilupparsi pienamente, in particolar modo indicando nell'Est Europa il luogo in cui attingere lo spazio mancante.Erede di Ratzel, e più direttamente coinvolto con la parabola del Terzo Reich, fu invece Karl Hausofer, fondatore, nel 1924, della Zeitschrift für Geopolitik. Amico personale di Rudolf Hess, Hausofer incontrò varie volte Adolf Hitler, ma il suo coinvolgimento nel nazionalsocialismo è stato largamente esagerato. Il teorico tedesco definiva la strategia delle potenze marittime come Anakondapolitik, ossia politica dell’anaconda, perché riteneva che esse accerchiassero e strozzassero i Paesi continentali. Per rompere tale assedio bisognava dar vita all'alleanza tra i Paesi eurasiatici, cioè soprattutto tra Germania e Russia. Per Hausofer, la proiezione tedesca verso Est avrebbe dovuto essere all'insegna della diplomazia, non della conquista.Essendo un corollario della potenza, la geopolitica viene ovviamente studiata soprattutto nei Paesi potenti. Logico che essa dovesse avere un grande sviluppo nei Paesi anglosassoni. Uno dei pionieri della disciplina è considerato l'ammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan, il teorico del potere marittimo. Per Mahan, l’esercizio della potenza è efficace solo se consente il controllo delle vie acquatiche. Al britannico Halford John Mackinder dobbiamo invece un concetto ancora cruciale nell'attualità geopolitica, quella dell'Heartland, ovvero la zona centrale dell'Eurasia, detta l’«isola del mondo». Per Mackinder, l'Heartland è delimitato a Ovest dal Volga, a Est dal Fiume Azzurro, a Nord dall'Artico e a Sud dalle cime più occidentali dell'Himalaya. Famosa la sua frase: «Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland: chi controlla l’Heartland comanda l’Isola-Mondo: chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo». Da notare che, tra il 1919 e il 1920, Mackinder fu inviato a Odessa come alto commissario britannico per la Russia del Sud, il che la dice lunga sulla perdurante importanza delle zone oggi contese tra Russia e Ucraina. Tra i teorici anglosassoni della geopolitica non si può non citare, infine, Nicholas J. Spykman, secondo il quale, invece, l’equilibrio globale dipendeva dall’anello centrale peninsulare, o Rimland, ovvero la fascia marittima e costiera che circonda l'Eurasia.E l'Italia? La geopolitica italiana è essenzialmente legata a due figure, quelle di Giorgio Roletto ed Ernesto Massi, fondatori negli anni Trenta della Scuola italiana di Geopolitica e della pubblicazione Geopolitica. Rassegna mensile di geografia politica, economica, sociale, coloniale, edita tra il 1939 e il 1942. Anche in questo caso, nell'immaginario italiano, il nome della geopolitica resterà quindi legato alla parabola del fascismo, per essere poi messo in soffitta nel 1945 come un ferro vecchio della scienza, intrinsecamente legato all'imperialismo aggressivo. Almeno fino al 1993, quando la rivista Limes sdoganerà la geopolitica a sinistra, di questi argomenti in Italia non si parlerà più. Peccato che la logica di potenza non abbia smesso di guidare il mondo solo perché noi abbiamo smesso di occuparcene.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
Continua a leggereRiduci
Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
Continua a leggereRiduci