2022-09-02
I vescovi vogliono più immigrati nei paesini
Trenta presuli dettano a Benevento il «programma elettorale» della Chiesa progressista: ripopolare i borghi quasi disabitati deportandovi stranieri venuti dall’altra parte del mondo e no all’autonomia regionale. In barba ai governatori che la chiedono.Scende in campo il partito dei vescovi. Così attenti a parole a «non invadere terreni altrui», gli alti prelati non riescono a regolare i freni e a meno di un mese dalle elezioni politiche trovano il modo di dare, ben poco surrettiziamente, indicazioni di voto. Non lo fanno additando partiti ma demonizzando temi scomodi, baluardi e punti fermi del centrodestra come la regolamentazione dei flussi migratori e l’autonomia differenziata delle Regioni. Sarà un caso, ma il sistema funziona da decenni: quando la sinistra dem chiama alle urne, i ministri della Chiesa dimenticano gli sgambetti etici subìti (matrimoni omosessuali, blasfemie da gay pride, pressioni per l’utero in affitto, suicidio assistito) e con un vago spirito autolesionistico rispondono allegramente «presente». Questa volta l’occasione è il summit della Conferenza episcopale a Benevento presieduta dal cardinale Matteo Maria Zuppi sul tema delle «Aree interne», quei piccoli territori italiani che costituiscono l’anima della tradizione, il tessuto connettivo del Paese e sono a rischio spopolamento. Invece di puntare il dito contro il globalismo indiscriminato che spinge i giovani ad andarsene e induce a classificare di Serie A i cittadini metropolitani e di Serie B gli altri, 30 vescovi hanno firmato un documento lunare nel quale si auspica che «per salvare i piccoli comuni, che tra emigrazione e crisi delle nascite rischiano di diventare paesi fantasma, la ricetta è aumentare i flussi dei migranti». Le tonache tornano al vecchio amore dell’accoglienza diffusa, cavallo di battaglia del ministro Luciana Lamorgese, sottolineano che i nuovi italiani «possono costituire un’opportunità per ravvivare molte realtà soggette a un decremento progressivo di popolazione» e chiedono «logiche inclusive, non di esclusione». Nell’illusione già amaramente sperimentata che i musulmani partecipino alle feste del santo patrono e all’incanto dei canestri. Per trasformare più agevolmente Clusone e Afragola in non-luoghi multicult come la stazione centrale di Milano, secondo la Cei è necessario che dalle urne esca vincente una classe politica in grado di fermare anche l’autonomia differenziata regionale. «Qualora entrasse in vigore», spiegano i vescovi «non farebbe altro che accrescere le diseguaglianze nel Paese; come comunità cristiana vogliamo crescere nella consapevolezza e nella partecipazione». Così facendo la Cei movimentista del cardinal Zuppi (organismo peraltro federato su base geografica) non solo invade terreni altrui con gli scarponi chiodati ma non si preoccupa di gettare nella spazzatura una riforma prevista dalla Costituzione (articolo 116), chiesta da nove regioni italiane e sulla quale si sono già pronunciate con referendum plebiscitari Lombardia e Veneto. L’autonomia differenziata potrebbe salvaguardare meglio proprio i territori che stanno a cuore alla Cei, ai quali verrebbero destinate attenzioni e risorse economiche in base alle esigenze, da istituzioni come le Regioni che conoscono profondamente le problematiche locali. Ora l’iter prevede una legge quadro, l’autonomia si aggiorna con l’inserimento della gestione territoriale del Pnrr, dello sviluppo energetico, della salvaguardia dell’ambiente. Ma i vescovi, a 25 giorni dalle elezioni, dicono sostanzialmente (e arbitrariamente) di no. Poiché controlli di legalità sui flussi migratori e autonomia sono capisaldi del centrodestra, una presa di posizione ecclesiastica così netta è sorprendente, somiglia a un intervento deliberato a fil di caviglia durante una partita decisiva.L’uscita avviene in un contesto del tutto straniante, mentre la crisi economica morde i cittadini italiani, costretti a fare i conti con i rincari esponenziali dell’energia e dei beni di prima necessità. E mentre a Roma il sindaco Roberto Gualtieri e il governatore Nicola Zingaretti prendono in mano le redini del Giubileo 2025 e fanno passerella con richieste, progetti e curve organizzative riguardo a un evento che ha al centro l’ancora formidabile calamita della cristianità che è il Vaticano. I temi bollenti in agenda sono altri, ma la Cei sembra pervasa dall’urgenza di dire la sua sull’autonomia dell’Emilia Romagna e della Toscana (due regioni rosse che l’hanno chiesta).La presa di posizione meramente politica giunge nel giorno in cui papa Francesco decide di parlare di valori non negoziabili, di volare alto e di marcare la differenza del suo incedere rispetto a quella dei 30 prelati, neanche fossero altrettanti candidati dem in libera uscita. Ricevendo in udienza i Padri di Schoenstatt in occasione del Capitolo generale, il pontefice mette il punto sull’indispensabilità della famiglia naturale. «Oggi sono molti i matrimoni in crisi, molti giovani tentati, molti anziani dimenticati, molti bambini sofferenti. Spesso la natura della famiglia è sotto attacco, questo procede di pari passo con il saccheggio dei valori umani, un saccheggio che stanno facendo selvaggiamente le colonizzazioni ideologiche di ogni tipo». Francesco difende la famiglia «attaccata da diverse ideologie che fanno vacillare le fondamenta che sostengono la personalità dell’essere umano e, in generale, dell’intera società. Inoltre in seno alle famiglie in molte occasioni si constata una distanza di comprensione fra gli anziani e i giovani». Concetti forti che ribadiscono l’agenda dei valori cristiani e confermano le architravi della società occidentale, in declino proprio perché non più in grado di proporle, valorizzarle e farne bandiera. È spiazzante notare che mentre lui parla per arricchire spiritualmente l’uomo, 30 vescovi da Benevento parlino per far contento Letta.
Francesco Zambon (Getty Images)
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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