2023-04-01
Veronelli, iniziatore della telecucina italiana
Luigi Veronelli (Getty Images)
Fu negli anni Settanta con il popolarissimo «A tavola alle 7», a fianco dell’attrice «cuoca» Ave Ninchi, che avvenne la definitiva consacrazione del giornalista nel pantheon degli esperti di enogastronomia. Sempre puntando a qualità del prodotto e al contesto.Ne ha ben descritto il Veronelli pensiero Alberto Capatti, storico della gastronomia e primo rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. «Gino è stato uno dei pochissimi che, nel pieno dell’euforia di uno sviluppo che si vedeva illimitato, ha avuto la capacità di guardare lontano, denunciando il peso schiacciante dell’industria agroalimentare e il rischio di estinzione senza ritorno di quel mondo infinitamente piccolo e antico che le stava di fronte». Ma non solo questo; Capatti riconobbe a Luigi Veronelli anche altro, tale da fare la differenza. Lo stile di un «lessicografo giocoliere che ha insegnato, oltre ad un metodo, un’etica che solo uno spirito libero poteva incarnare».Tra i maestri che affinarono la sua innata sensibilità l’indimenticato (e indimenticabile) Nuto Revelli, uno dei primi testimoni e quindi difensori della civiltà rurale, autore di due volumi straordinari. Il mondo dei vinti, testimonianze di vita contadina e L’anello forte. La donna, storie di vita contadina. Girando per le campagne langarole con l’amico Nuto, Gino annota nel suo diario «invidio il contadino quando rivolta la zolla. Con quel gesto conosce tutto. La tocca con le mani, la giudica, la conosce, la rispetta». Una lezione fondamentale, appresa sul campo, nel senso più vero del termine, così che «camminando la terra se ne colgono in anticipo gli umori della storia di cui essa è custode e che poi si possono riconoscere nei prodotti che da essa derivano». Siamo ancora nella metà degli anni Sessanta, le culture ambientaliste di là da venire, ma Veronelli vede già oltre. In Italia non si può applicare la legge dei grandi numeri, quella di massimizzare la produzione omologando ciò che, invece, è tradizione e diversità da sempre. «Ad ogni ora del giorno persuasori tutt’altro che occulti promuovono il fatto di consumare le stesse cose in ogni angolo del mondo proponendo l’uniformità dei gusti e annullando il mutare delle stagioni». Gino aveva le idee chiare. «L’Italia ha il privilegio di terre, clima, storia e uomini di impareggiabile possibilità. Bisogna far capire ai giovani che tradizione e cultura non sono un piedistallo, ma un ineguagliabile trampolino di lancio e sviluppo, anche economico». Seminatore del necessario riscatto. «Tu giovane, fai opera di eversione e sovversione e scegli la qualità». Le fondamenta del Made in Italy. Legato ai valori della tradizione, ma attento al mutare dei tempi. Oramai la televisione è entrata in tutte le case, dettando al tempo stesso usi e costumi della società. Gino sta sul pezzo e debutta a livello catodico. Nel 1971 conduce Colazione allo studio 7. Compagni di riflessioni golose Umberto Orsini e Delia Scala. Un rodaggio di sette puntate. Giusto per mettere a punto il successivo A tavola alle 7 che durerà ben cinque anni in divertente sinergia con in volto sorridente di Ave Ninchi. È un gioco di ruoli che coinvolge lo spettatore trasmettendo il Veronelli pensiero in forma pratica ed efficace. Mentre lui indossa i panni dell’esperto che rimprovera e punzecchia la massaia che gli fa da spalla è lei che, in realtà, conduce il gioco dimostrando come si possa gestire la cucina quotidiana con leggerezza e buon senso senza togliere nulla a qualità e tradizione. Di quel periodo Veronelli ne raccontò così a Paolo Forcolin. «Ave è una figura effervescente, piena di simpatia tanto che le donne non vedono in lei una potenziale rivale in cucina e gli uomini la considerano una specie di grande mamma». Con divertenti back stage che rivelerà poi Edgardo Sandoli, talentuoso ambasciatore della cucina toscana a Milano con Il Montalcino. «Ave si dichiarava astemia. Il vino non poteva berlo, tanto che al solo sentirne il profumo s’irrigidiva. Ci ammoniva che nessuno tentasse di “subornarla”, cioè di corromperla, perché se ne sarebbe subito accorta». Con quali conseguenze facile immaginare, visto la taglia generosa. Ma tra Edgardo e Gino l’accordo un po’ goliardico era tacito e conseguente. «Nelle puntate in cui cucinai assieme ad Ave non mancai mai di dare sostegno ai miei piatti con due dita di Brunello». Bucarono talmente lo schermo, Gino e Ave, che al carnevale di Parona gli dedicarono un carro. Qualche anno più tardi Veronelli fu protagonista di un’altra trasmissione passata alla storia: Viaggio sentimentale nell’Italia dei vini. Il titolo una citazione di un’opera di Laurence Sterne uscita due secoli prima, Viaggio sentimentale tra Italia e Francia, laddove si sottolineava la partecipazione emotiva del viaggiatore alla scoperta di luoghi, persone, esperienze che andava via via a conoscere e descrivere. Il battesimo enologico di Gino Veronelli, la cui cantina arrivò a custodire circa 70.000 bottiglie, avvenne per festeggiare la prima comunione, quando il papà gli fece assaggiare le due dita d’ordinanza, come di faceva un tempo, con l’ammonimento conseguente. «Dovete berlo con cura, c’è dentro la fatica di chi coltiva la vigna». Divenuto adulto Veronelli tradusse a modo suo questo insegnamento. «Il vino va guardato per conoscerne il colore, poi portato al naso per sentirne il profumo e solo dopo in bocca per gustarne il sapore». Sembra un elementare Watson applicato a dimensione enologica, in realtà germe di una riflessione conseguente a un altro insegnamento che gli aveva dato, negli anni Cinquanta, durante suoi percorsi in Borgogna, un grande enologo, Renè Angel: «Voi italiani avete uva d’oro e fate vini d’argento. Noi francesi abbiamo uve d’argento e facciamo vini d’oro». L’esordio della prima puntata lo vede salire in macchina, nella sua Bergamo, accompagnato dal canto di una ragazza contadina. Un viaggio senza frontiere in cui racconta, attraverso le meraviglie di Bacco, la migliore Italia. Come in Romagna «dove ne descrive la popolarità sanguigna e viscerale partecipando ad un matrimonio in una fattoria» o a Firenze, ospite della nobiltà toscana in casa Antinori. In Friuli è il primo a raccontare un Picolit che stava scomparendo, salvato dalla contessa Giuseppina Perusini Antonini. Si inebria dinanzi ad una verticale di Sassicaia dove Giacomo Tachis cita Seneca per descriverne le emozioni conseguenti. Aveva una venerazione per il monferrino Giacomo Bologna e le sue barbera tanto che «nel giudizio di un vino si deve tener presente la figura della persona che lo ha prodotto». Senza pregiudizi, anzi, con chiavi di lettura originali e romantiche. «I vini bianchi sono come la maggior parte delle femmine, vanno sollecitati» e, sempre stando nel distretto di Venere in chiave bacchica, mentre si discute sull’uso o meno della barrique, va ad intervistare il langarolo Enzo Cavallero: «La barrique sta al vino come il reggipetto sta ai seni femminili, sostiene i deboli e schiaccia i potenti». Si vola alto con gli abbinamenti enoletterari. «L’Adalgisa di Carlo Emilio Gadda la vedrei bene con il Duca Enrico (un siculo Nero d’Avola) e il Decamerone con lo Scaccomatto, un albana passito di Romagna, il Sauternes Italiano». Sempre coerente il nostro Gino, tanto da pubblicare la prima Guida ai Vini d’Italia, con testi, tra gli altri, di Giovanni Arpino, Giovanni Comisso, Paolo Monelli perché «bere un vino è come leggere un libro, guardare un quadro. Necessita di tempo e meditazione profonda per poterne poi scrivere con compiutezza». È da queste basi che prenderà il via, nel 1993, il Movimento turismo del vino cui seguirà, l’anno dopo, Cantine aperte, il miglior modo per far conoscere tra loro i produttori di resistenza enologica e i consumatori curiosi.
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