2022-05-05
L’«uomo dimenticato» vota Vance (e Trump)
J.D. Vance e Donald Trump (Ansa)
L’outsider ed ex nemico di The Donald domina le primarie repubblicane per il Senato in Ohio. A farlo vincere sono stati l’appoggio a sorpresa dell’ex presidente e quello dei colletti blu dello Stato della Rust belt, in preda a una grave crisi e abbandonati dai dem.Sparigliare le carte, prendendo in contropiede gli avversari ed evitando ortodossie ideologiche stantie: è questa la strategia con cui Donald Trump conquistò la Casa Bianca nel 2016 e che lo portò a sfiorare la riconferma quattro anni più tardi. Ebbene, proprio tale strategia è riemersa in tutta la sua evidenza martedì, quando a vincere le primarie repubblicane dell’Ohio per il Senato è stato J.D. Vance: l’autore del bestseller Elegia americana era sceso in campo a luglio come un outsider, ottenendo l’endorsement dello stesso Trump. Un endorsement che ha stupito parecchi nel Partito repubblicano, visto che l’ex presidente ha preferito Vance al Tesoriere ultraconservatore dello Stato, Josh Mandel. Uno stupore, accentuato dal fatto che, in passato, l’autore di Elegia americana non aveva risparmiato critiche a Trump, arrivando addirittura a ipotizzare, nel 2016, di votare per Hillary Clinton. La vittoria di Vance mette, quindi, in luce alcuni elementi di estrema importanza. Innanzitutto, essa dimostra la forza politica dell’ex presidente all’interno del Partito repubblicano: nelle ultime settimane, svariate testate avevano d’altronde interpretato queste primarie come un test di leadership per lo stesso Trump. In secondo luogo, questa vittoria mostra come l’ex presidente resti fedele alla sua impostazione di sempre, incentrata sulla polemica contro le cristallizzazioni dell’establishment e sul periodico «bombardamento del quartier generale»: un fattore che, piaccia o meno, ha conferito nuova linfa vitale, in questi anni, all’elefantino. Il che non significa, sia ben chiaro, opportunismo privo di valori politici. Significa, semmai, allontanare il pericolo delle sclerotizzazioni ideologiche, per rendere il partito appetibile a quote elettorali trasversali. Tra l’altro, come accennato, questa vittoria rappresenta anche una prova di maturità per lo stesso Trump, che ha puntato su un candidato efficace, mettendo da parte ostilità e rancori personali per le sue posizioni passate. «Questa persona ha detto delle cazzate su di me. Lo ha fatto», aveva detto Trump, parlando qualche giorno fa vicino a Columbus. «Ma sapete una cosa? Lo hanno fatto anche tutti gli altri. In effetti, se avessi ragionato secondo quello standard, non credo che avrei mai appoggiato nessuno nel Paese [...]. Voglio scegliere qualcuno che vincerà e quest’uomo vincerà». Il bene del partito, insomma, deve venire prima delle ripicche personali, come già mostrò Richard Nixon, quando, dopo le primarie repubblicane del 1968, tese la mano a Henry Kissinger, che poco tempo prima lo aveva pesantemente criticato. Tuttavia, al di là delle considerazioni meramente elettorali, la vittoria di Vance evidenzia anche un aspetto politico molto più profondo. Il suo libro, Elegia americana, è infatti un drammatico affresco della situazione in cui versano i colletti blu della Rust belt, sempre più preda di una profonda crisi sociale, culturale ed economica. Proprio a quel mondo si è sempre rivolto Trump, soprattutto quando, nel suo discorso per la vittoria nel 2016, dichiarò: «Gli uomini e le donne dimenticati del nostro Paese non saranno più dimenticati». Un’espressione, quella dell’«uomo dimenticato», che era stata del resto utilizzata nel 1932 da Franklin D. Roosevelt nel pieno della Grande depressione. Che parte significativa dei colletti blu sia ancora con Trump è testimoniato anche dalle ultime Presidenziali, quando l’allora inquilino della Casa banca riconquistò l’Ohio e, pur perdendo d’un soffio in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, prese in ciascuno di questi Stati circa 200.000 voti in più rispetto a quattro anni prima. Neanche a dirlo, il mondo liberal non ha perdonato a Vance il suo passaggio al Partito repubblicano. A luglio, l’accademico harvardiano Tom Nichols pubblicò un articolo su The Atlantic intitolato «Il crollo morale di JD Vance», definendo lo scrittore «un clown spregevole» e uno «stronzo», per poi rinfacciargli i finanziamenti ottenuti dal miliardario Peter Thiel. Era invece lo scorso gennaio, quando il Washington Post Magazine titolò «La radicalizzazione di JD Vance». È chiaro che in questo astio non è implicita soltanto l’accusa di apostasia politica, c’è dell’altro: ovvero l’inconfessabile consapevolezza, da parte del progressismo americano, di aver totalmente voltato le spalle ai dimenticati della globalizzazione. Quando mise i dazi alla Cina, Trump si prendeva gli strali degli accademici, ma pensava alla tutela dei colletti blu del Michigan. Joe Biden, al contrario, riceveva fior di finanziamenti elettorali da Wall street e dalla Silicon valley: quella Silicon valley che degli operai della Rust belt se n’è sempre infischiata e che invece con la Cina gli affari voleva (e vuole) farli. Sarà un caso, ma Biden ha messo nel cassetto il decoupling, mentre Axios riferiva recentemente che pezzi importanti della sua amministrazione vogliono revocare o alleggerire i dazi anticinesi. No, il problema non è il populismo (che nella storia americana vanta una lunga e onorevole tradizione). Il problema è un Partito democratico scollegato dalla realtà, oltre che sempre più asserragliato nei facoltosi e autoreferenziali centri delle grandi città. Tutto questo, mentre, nell’indifferenza della grande stampa, Biden è affaccendato nel creare inquietanti commissioni dal sapore orwelliano contro la disinformazione e nell’esercitare pressioni sulla Corte suprema, violando così il principio di separazione dei poteri. È anche da qui che passa la riscossa dei repubblicani. E, da questo punto di vista, la vittoria di Vance è un segnale da non sottovalutare.
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