2025-03-16
Subalterni, divisi e spariti dai dibattiti. I dem rasi al suolo dall’uragano Trump
Gavin Newson e Chuck Shumer (Getty Images)
L’aiutino del democratico Schumer per evitare lo shutdown apre la faida tra i progressisti. Che ancora non si sono ripresiUna domanda si aggira tra gli americani. Ma il Partito democratico che fine ha fatto? Dopo il tracollo elettorale di novembre, l’Asinello è andato completamente in testacoda. E la sua crisi, anziché lenirsi, sembra si stia facendo sempre più grave. L’ultimo esempio di questa catastrofe politica è di giovedì scorso. Ma andiamo con ordine. Questa settimana, il Senato statunitense si è trovato a dibattere su un disegno di legge che, sostenuto dai repubblicani, mirava al finanziamento del governo federale. Si trattava di una norma che, se non fosse stata approvata entro sabato, avrebbe innescato lo shutdown: il blocco, cioè, delle attività federali non essenziali. Buona parte dei parlamentari dem era decisa a opporsi, dicendosi pronta ad accettare lo scenario di uno shutdown, pur di fermare il disegno di legge, auspicato dal Partito repubblicano e da Donald Trump. Eppure, giovedì, si è verificata una svolta inattesa.Il capogruppo dei senatori dem, Chuck Schumer, ha annunciato che non avrebbe sostenuto una mozione ostruzionistica volta a bloccare il provvedimento: una posizione che il diretto interessato ha giustificato in nome del pragmatismo. «Sebbene il disegno di legge sia pessimo, la possibilità di uno shutdown ha conseguenze per l’America che sono molto, molto peggiori. Di sicuro, il disegno di legge repubblicano è un’opzione terribile. Non è pulito, è profondamente partigiano. Non affronta molte delle esigenze di questo Paese. Ma credo che consentire a Donald Trump di prendere ancora più potere tramite uno shutdown sia un’opzione molto peggiore», ha detto, scatenando le ire di ampi settori del suo stesso partito. Addirittura, il leader della minoranza dem alla Camera, Hakeem Jeffries, si è esplicitamente rifiutato di dire se abbia ancora fiducia nelle capacità di leadership di Schumer, il quale ha ricevuto critiche anche dalla deputata dem, Alexandria Ocasio-Cortez. Una spaccatura, quella dei dem, che alla fine ha favorito i repubblicani. La mossa di Schumer ha infatti portato un totale di dieci senatori democratici a non sostenere la mozione ostruzionistica che avrebbe bloccato il disegno di legge: ciò ha quindi spianato la strada al provvedimento che, venerdì, è stato alla fine approvato definitivamente in Senato. Insomma, quella che potremmo battezzare la «crisi dello shutdown» ha esplicitato le profonde divisioni che caratterizzano attualmente il Partito democratico: uno schieramento che, dopo la debacle di novembre, sembra aver perso completamente la bussola. Al di là dei dissidi intestini, l’Asinello è quasi totalmente assente dal dibattito pubblico: sembra incapace di offrire delle prospettive politiche solide e coerenti su tutti i principali dossier che sono oggi al centro dei riflettori a Washington: dai dazi alla crisi ucraina, passando per quella mediorientale. Basti pensare che la vera opposizione al Doge, guidato da Elon Musk, non sta arrivando dai dem ma dai giudici.D’altronde, che la confusione regni sovrana nel Partito democratico è dimostrato anche dall’assenza di una linea unitaria nei confronti delle politiche woke, che sono state severamente punite dagli elettori lo scorso novembre. Vari esponenti dell’Asinello hanno infatti iniziato a prendere le distanze da quella linea ideologica deleteria e controproducente. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato il governatore della California, Gavin Newsom, che si è schierato contro la partecipazione di atleti trans alle competizioni sportive femminili. Storico paladino progressista, Newsom è significativamente considerato uno dei papabili candidati alle primarie presidenziali dem del 2028.D’altronde, questo caos generale non stupisce più di tanto. Per otto anni, il Partito democratico è rimasto sotto il ferreo controllo di un establishment politico che, imponendo scelte meccanicamente dall’alto, ha impedito un adeguato ricambio generazionale e di idee. I principali colpevoli di questa situazione sono gli Obama, i Clinton e Nancy Pelosi: tutte figure che hanno una concezione vagamente dinastica della gestione di un partito. Un altro colpevole è l’establishment mediatico americano che, se da una parte ha storicamente spalleggiato i dem durante le contese elettorali, dall’altra li ha spesso spinti a privilegiare posizioni politiche autoreferenziali e senza contatto con la realtà. Non è un caso che, negli ultimi otto anni, l’ala dem della Rust Belt sia stata quasi sempre sacrificata a quella «californiana». Agli interessi dei colletti blu di Michigan, Wisconsin e Pennsylvania sono, in altre parole, state preferite le stramberie liberal, caldeggiate dai ceti urbani altolocati delle due coste. Non ci si può quindi stupire del fatto che, a novembre, il voto operaio sia andato a Trump. Un Trump che, piaccia o meno, ha ormai del tutto marginalizzato i democratici nel dibattito pubblico. La dialettica politica negli Stati Uniti è infatti quasi totalmente assorbita dal campo repubblicano. Un esempio eclatante di questa situazione lo abbiamo avuto alla fine dell’anno scorso, quando Musk invocò un incremento dei visti per i lavoratori altamente specializzati: una proposta che alla fine fu fatta propria anche dall’attuale presidente americano, ma che aveva comunque suscitato le critiche di una parte di quel mondo trumpista che si dice più attenta alla tutela dei lavoratori d’Oltreatlantico (che si tratti di colletti blu o di colletti bianchi). Ed è sempre nel campo repubblicano che si sta svolgendo la dialettica tra il settore ipertecnologico, rappresentato principalmente da Musk, e il mondo della working class, che trova un punto di riferimento soprattutto in JD Vance. E i dem? In subbuglio totale, sempre più inconsistenti, presi da lotte intestine e crisi d’identità ideologiche. Di questo passo, rischiano di impiegare 12 anni prima di tornare alla Casa Bianca (come già accadde loro, dopo la vittoria di Ronald Reagan nel 1980). Grande, insomma, è la confusione sotto il cielo. Ma la situazione, per l’Asinello, è tutt’altro che eccellente.
Jose Mourinho (Getty Images)