2024-09-15
Ecco perché i cattolici sono più vicini a Trump
Oltre il 20% degli abitanti statunitensi è di confessione cattolica (Getty)
Ha fatto particolare scalpore l’intervento di papa Francesco nella campagna elettorale americana. L’altro ieri, il pontefice ha criticato Donald Trump per le sue politiche restrittive in materia migratoria e Kamala Harris per il suo sostegno all’aborto. «Ambedue sono contro la vita, sia quello che butta via i migranti sia quella che uccide i bambini», ha dichiarato. «Si deve scegliere il male minore. Chi è il male minore? Quella signora o quel signore? Non so», ha aggiunto.
Ora, tralasciando l’equiparazione sul piano morale tra il sostegno all’aborto e la difesa di politiche migratorie restrittive, le dichiarazioni del Pontefice offrono due spunti di analisi: uno relativo alla politica interna americana e uno di carattere geopolitico. Secondo il Pew research center, negli Stati Uniti si contano circa 52 milioni di adulti che si riconoscono come cattolici: il 20% della popolazione totale. Non di rado, chi riesce a ottenere la maggioranza del voto cattolico alle presidenziali è poi capace di arrivare alla Casa Bianca. Si pensi a George W. Bush nel 2004, Barack Obama nel 2008, Trump nel 2016 e Joe Biden (per quanto d’un soffio) nel 2020.
C’è, quindi, da chiedersi come siano attualmente schierati gli elettori cattolici. Secondo un sondaggio Ewtn News condotto a fine agosto, il 50% degli elettori fedeli alla Chiesa di Roma sosterrebbe la Harris, il 43% il tycoon e un 6% risulterebbe indeciso. Un quadro diverso emerge, invece, da una rilevazione del Pew research center, condotta a cavallo tra agosto e settembre: secondo tale rilevazione, Trump sarebbe avanti nel voto cattolico con il 52% dei consensi contro il 47% della Harris.
Va poi detto che, comunque la si pensi, Trump è oggettivamente più vicino dell’avversaria al mondo dei fedeli alla Chiesa di Roma. Ha nominato due giudici cattolici alla Corte suprema, come Brett Kavanaugh e Amy Coney Barret. Senza trascurare che il suo attuale vice, J.D. Vance, si è convertito al cattolicesimo nel 2019, scegliendo come santo patrono Agostino d’Ippona. È pur vero che una parte degli elettori più religiosamente motivati ha storto il naso, quando, a luglio, l’ex presidente ha espunto dal programma del Partito repubblicano la proposta di vietare l’aborto a livello federale. Tuttavia è altrettanto vero che, sull’interruzione di gravidanza, la Harris sposa delle posizioni assai più radicali.
Storicamente spalleggiata dall’organizzazione pro-choice Planned parenthood, la vicepresidente ha sempre tenuto una linea energicamente abortista. Inoltre, durante il dibattito televisivo di martedì, si è rifiutata di chiarire in modo esplicito se sostenga o meno delle limitazioni all’interruzione di gravidanza. In più, il suo vice, Tim Walz, ha firmato l’anno scorso una legge statale che, secondo l’Associated press, ha lasciato il Minnesota «sostanzialmente senza restrizioni sull’aborto in nessuna fase della gravidanza». Tutto questo, senza dimenticare che, da senatrice, la Harris contestò la nomina di un giudice federale in quanto appartenente ai Cavalieri di Colombo: storica associazione cattolica americana, di cui avevano fatto parte anche eminenti esponenti del Partito democratico, come John F. Kennedy. D’altronde, secondo il sondaggista d’area repubblicana Patrick Ruffini, le attuali difficoltà della Harris in Pennsylvania potrebbero essere, almeno in parte, dettate proprio dalla freddezza dei cattolici locali nei suoi confronti.
Ma c’è anche un altro elemento da considerare. Il Papa, come abbiamo visto, ha criticato Trump sull’immigrazione. Va, però, ricordato che, a giugno scorso, l’amministrazione Biden-Harris ha firmato un ordine esecutivo che bloccava, temporaneamente e a certe condizioni, l’ingresso dei richiedenti asilo attraverso la frontiera meridionale degli Stati Uniti: una norma che fu aspramente criticata dal presidente della Commissione sull’immigrazione della Conferenza episcopale Usa, il vescovo Mark Seitz, che accusò l’attuale Casa Bianca di «disprezzo per le fondamentali protezioni umanitarie e per la legge statunitense sull’asilo». Seitz è stato posto alla guida della diocesi di El Paso dallo stesso papa Francesco nel maggio 2013.
Infine, alla base dell’eclatante presa di posizione del Pontefice, si scorgono anche motivazioni di ordine geopolitico. Non è un mistero che, con il suo recente viaggio asiatico, il Papa abbia voluto (anche) strizzare l’occhio alla Cina: non è forse un caso che questo viaggio sia stato salutato positivamente, il 3 settembre, dal Global Times (organo di stampa che fa capo al Pcc). «La Cina per me è un desiderio, nel senso che io vorrei visitare la Cina, perché è un grande Paese; io ammiro la Cina, rispetto la Cina», ha detto venerdì il Pontefice, durante il tragitto di ritorno da Singapore. «È un Paese con una cultura millenaria, una capacità di dialogo, di capirsi tra loro che va oltre i diversi sistemi di governo che ha avuto. Credo che la Cina sia una promessa e una speranza per la Chiesa. La collaborazione si può fare, e per i conflitti certamente. In questo momento, il cardinale Zuppi si muove in questo senso e ha rapporti anche con la Cina», ha aggiunto.
È notorio come, soprattutto con l’accordo sino-vaticano sui vescovi (da lui rivendicato l’altro ieri), il Papa abbia avviato un progressivo avvicinamento a Pechino: una distensione malvista dagli ambienti ratzingeriani e da Washington ma fortemente caldeggiata sia dalla Compagnia di Gesù che dalla Comunità di Sant’Egidio (da cui Matteo Zuppi proviene). Senza trascurare che, l’anno scorso, il Pontefice ha elevato a cardinale il vescovo gesuita di Hong Kong, Stephen Chow: una delle principali figure che mantiene i rapporti tra la Santa Sede e la Repubblica popolare. Di contro, il Papa non ha mai risparmiato stoccate, anche nel recente passato, agli Usa e alla stessa Chiesa statunitense. Ecco che, forse, con le sue parole sulla campagna americana, Francesco ha voluto lanciare un messaggio di (ulteriore) vicinanza geopolitica a Pechino.
Dalla Pennsylvania assist a Donald. Nulli i voti postali con la data errata
I repubblicani tirano un sospiro di sollievo in Pennsylvania. L’altro ieri, la Corte suprema dello Stato ha stabilito che le schede elettorali arrivate per posta con data errata non potranno essere conteggiate il prossimo novembre. La decisione ha di fatto ribaltato la sentenza di un tribunale inferiore che, alcune settimane fa, aveva definito incostituzionale cassare le schede postali erroneamente datate.
«Questo rende il voto postale nel keystone State meno soggetto a frodi. Continueremo a lottare e vinceremo!», ha esultato il presidente del Comitato nazionale repubblicano, Michael Whatley, che ha parlato di «enorme vittoria per l’integrità elettorale». «La sentenza procedurale di oggi è una battuta d’arresto per gli elettori della Pennsylvania, ma continueremo a lottare per loro», ha invece commentato l’organizzazione progressista American civil liberties union, riferendosi al fatto che la Corte suprema ha stabilito che quella inferiore non avesse competenza sulla questione.
Come che sia, la sentenza di venerdì è significativa, anche perché quest’anno la Pennsylvania è destinata a rivelarsi uno Stato particolarmente cruciale: forse ancora di più rispetto al 2016 e al 2020. In questo momento, secondo la media sondaggistica di Real clear politics, il vantaggio della Harris in loco è di appena lo 0,2%: a metà settembre 2020, Biden era avanti di oltre quattro punti, mentre Hillary Clinton, nello stesso periodo del 2016, di oltre sei punti. La Harris, in Pennsylvania, ha tre problemi: i colletti blu, i cattolici e l’estrema sinistra filopalestinese.
Venerdì sera, la candidata dem è stata interrotta, durante un comizio a Wilkes-Barre, da alcuni manifestanti pro Pal. Un problema, questo, che il vicepresidente ha anche in Michigan. Non a caso, l’altro ieri il suo vice, Tim Walz, si è rivolto agli arabo-americani di questo Stato, sostenendo che la Harris sia favorevole a un accordo per il cessate il fuoco e alla soluzione dei due Stati. Nel frattempo, la difesa dell’aborto continua a essere uno dei punti centrali della strategia elettorale della dem. Da giorni, la sua campagna sta conducendo un tour con un pullman su cui è scritto a caratteri cubitali «Combattere per la libertà riproduttiva»: un tour che ha fatto ultimamente tappa soprattutto in Virginia. È stato, intanto, reso noto che gli ex presidenti, Barack Obama e Bill Clinton, faranno campagna per la Harris nelle ultime settimane prima del voto.
Donald Trump, dal canto suo, ha aperto alla possibilità di un altro dibattito televisivo con la rivale. Quando gli è stato chiesto se abbia intenzione di tornare sulla sua decisione di non accettare un nuovo confronto, ha lasciato intendere che potrebbe dire di sì, se fosse «dell’umore giusto». Frattanto continua a tener banco la questione di Springfield (in Ohio). Il candidato repubblicano ha promesso rimpatri di massa degli immigrati haitiani presenti, mentre Joe Biden e Walz lo hanno criticato per le sue recenti affermazioni, secondo cui quegli stessi immigrati mangerebbero i gatti. Ricordiamo che Springfield ha meno di 60.000 abitanti e che, negli ultimi anni, ha dovuto accogliere tra i 15.000 e i 20.000 migranti haitiani a causa delle politiche di ricollocamento dell’amministrazione Biden-Harris. Una situazione che ha creato pressione sui servizi cittadini e preoccupazione tra la popolazione: a parlarne fu, a luglio, lo stesso sindaco della cittadina, Rob Rue.
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L’invito del Pontefice a scegliere «il male minore» non segue l’orientamento dell’elettorato Usa. Il tycoon ha come vice un convertito e sull’aborto non ha posizioni radicali come Kamala Harris. Dietro a quelle parole, però, c’è un ulteriore messaggio di apertura verso la Cina.In Pennsylvania la sentenza della Corte suprema fa esultare i repubblicani: «Stop alle frodi».Lo speciale contiene due articoli Ha fatto particolare scalpore l’intervento di papa Francesco nella campagna elettorale americana. L’altro ieri, il pontefice ha criticato Donald Trump per le sue politiche restrittive in materia migratoria e Kamala Harris per il suo sostegno all’aborto. «Ambedue sono contro la vita, sia quello che butta via i migranti sia quella che uccide i bambini», ha dichiarato. «Si deve scegliere il male minore. Chi è il male minore? Quella signora o quel signore? Non so», ha aggiunto.Ora, tralasciando l’equiparazione sul piano morale tra il sostegno all’aborto e la difesa di politiche migratorie restrittive, le dichiarazioni del Pontefice offrono due spunti di analisi: uno relativo alla politica interna americana e uno di carattere geopolitico. Secondo il Pew research center, negli Stati Uniti si contano circa 52 milioni di adulti che si riconoscono come cattolici: il 20% della popolazione totale. Non di rado, chi riesce a ottenere la maggioranza del voto cattolico alle presidenziali è poi capace di arrivare alla Casa Bianca. Si pensi a George W. Bush nel 2004, Barack Obama nel 2008, Trump nel 2016 e Joe Biden (per quanto d’un soffio) nel 2020.C’è, quindi, da chiedersi come siano attualmente schierati gli elettori cattolici. Secondo un sondaggio Ewtn News condotto a fine agosto, il 50% degli elettori fedeli alla Chiesa di Roma sosterrebbe la Harris, il 43% il tycoon e un 6% risulterebbe indeciso. Un quadro diverso emerge, invece, da una rilevazione del Pew research center, condotta a cavallo tra agosto e settembre: secondo tale rilevazione, Trump sarebbe avanti nel voto cattolico con il 52% dei consensi contro il 47% della Harris.Va poi detto che, comunque la si pensi, Trump è oggettivamente più vicino dell’avversaria al mondo dei fedeli alla Chiesa di Roma. Ha nominato due giudici cattolici alla Corte suprema, come Brett Kavanaugh e Amy Coney Barret. Senza trascurare che il suo attuale vice, J.D. Vance, si è convertito al cattolicesimo nel 2019, scegliendo come santo patrono Agostino d’Ippona. È pur vero che una parte degli elettori più religiosamente motivati ha storto il naso, quando, a luglio, l’ex presidente ha espunto dal programma del Partito repubblicano la proposta di vietare l’aborto a livello federale. Tuttavia è altrettanto vero che, sull’interruzione di gravidanza, la Harris sposa delle posizioni assai più radicali.Storicamente spalleggiata dall’organizzazione pro-choice Planned parenthood, la vicepresidente ha sempre tenuto una linea energicamente abortista. Inoltre, durante il dibattito televisivo di martedì, si è rifiutata di chiarire in modo esplicito se sostenga o meno delle limitazioni all’interruzione di gravidanza. In più, il suo vice, Tim Walz, ha firmato l’anno scorso una legge statale che, secondo l’Associated press, ha lasciato il Minnesota «sostanzialmente senza restrizioni sull’aborto in nessuna fase della gravidanza». Tutto questo, senza dimenticare che, da senatrice, la Harris contestò la nomina di un giudice federale in quanto appartenente ai Cavalieri di Colombo: storica associazione cattolica americana, di cui avevano fatto parte anche eminenti esponenti del Partito democratico, come John F. Kennedy. D’altronde, secondo il sondaggista d’area repubblicana Patrick Ruffini, le attuali difficoltà della Harris in Pennsylvania potrebbero essere, almeno in parte, dettate proprio dalla freddezza dei cattolici locali nei suoi confronti.Ma c’è anche un altro elemento da considerare. Il Papa, come abbiamo visto, ha criticato Trump sull’immigrazione. Va, però, ricordato che, a giugno scorso, l’amministrazione Biden-Harris ha firmato un ordine esecutivo che bloccava, temporaneamente e a certe condizioni, l’ingresso dei richiedenti asilo attraverso la frontiera meridionale degli Stati Uniti: una norma che fu aspramente criticata dal presidente della Commissione sull’immigrazione della Conferenza episcopale Usa, il vescovo Mark Seitz, che accusò l’attuale Casa Bianca di «disprezzo per le fondamentali protezioni umanitarie e per la legge statunitense sull’asilo». Seitz è stato posto alla guida della diocesi di El Paso dallo stesso papa Francesco nel maggio 2013.Infine, alla base dell’eclatante presa di posizione del Pontefice, si scorgono anche motivazioni di ordine geopolitico. Non è un mistero che, con il suo recente viaggio asiatico, il Papa abbia voluto (anche) strizzare l’occhio alla Cina: non è forse un caso che questo viaggio sia stato salutato positivamente, il 3 settembre, dal Global Times (organo di stampa che fa capo al Pcc). «La Cina per me è un desiderio, nel senso che io vorrei visitare la Cina, perché è un grande Paese; io ammiro la Cina, rispetto la Cina», ha detto venerdì il Pontefice, durante il tragitto di ritorno da Singapore. «È un Paese con una cultura millenaria, una capacità di dialogo, di capirsi tra loro che va oltre i diversi sistemi di governo che ha avuto. Credo che la Cina sia una promessa e una speranza per la Chiesa. La collaborazione si può fare, e per i conflitti certamente. In questo momento, il cardinale Zuppi si muove in questo senso e ha rapporti anche con la Cina», ha aggiunto.È notorio come, soprattutto con l’accordo sino-vaticano sui vescovi (da lui rivendicato l’altro ieri), il Papa abbia avviato un progressivo avvicinamento a Pechino: una distensione malvista dagli ambienti ratzingeriani e da Washington ma fortemente caldeggiata sia dalla Compagnia di Gesù che dalla Comunità di Sant’Egidio (da cui Matteo Zuppi proviene). Senza trascurare che, l’anno scorso, il Pontefice ha elevato a cardinale il vescovo gesuita di Hong Kong, Stephen Chow: una delle principali figure che mantiene i rapporti tra la Santa Sede e la Repubblica popolare. Di contro, il Papa non ha mai risparmiato stoccate, anche nel recente passato, agli Usa e alla stessa Chiesa statunitense. Ecco che, forse, con le sue parole sulla campagna americana, Francesco ha voluto lanciare un messaggio di (ulteriore) vicinanza geopolitica a Pechino.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/usa-cattolici-vicini-a-trump-2669206941.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dalla-pennsylvania-assist-a-donald-nulli-i-voti-postali-con-la-data-errata" data-post-id="2669206941" data-published-at="1726347887" data-use-pagination="False"> Dalla Pennsylvania assist a Donald. Nulli i voti postali con la data errata I repubblicani tirano un sospiro di sollievo in Pennsylvania. L’altro ieri, la Corte suprema dello Stato ha stabilito che le schede elettorali arrivate per posta con data errata non potranno essere conteggiate il prossimo novembre. La decisione ha di fatto ribaltato la sentenza di un tribunale inferiore che, alcune settimane fa, aveva definito incostituzionale cassare le schede postali erroneamente datate. «Questo rende il voto postale nel keystone State meno soggetto a frodi. Continueremo a lottare e vinceremo!», ha esultato il presidente del Comitato nazionale repubblicano, Michael Whatley, che ha parlato di «enorme vittoria per l’integrità elettorale». «La sentenza procedurale di oggi è una battuta d’arresto per gli elettori della Pennsylvania, ma continueremo a lottare per loro», ha invece commentato l’organizzazione progressista American civil liberties union, riferendosi al fatto che la Corte suprema ha stabilito che quella inferiore non avesse competenza sulla questione. Come che sia, la sentenza di venerdì è significativa, anche perché quest’anno la Pennsylvania è destinata a rivelarsi uno Stato particolarmente cruciale: forse ancora di più rispetto al 2016 e al 2020. In questo momento, secondo la media sondaggistica di Real clear politics, il vantaggio della Harris in loco è di appena lo 0,2%: a metà settembre 2020, Biden era avanti di oltre quattro punti, mentre Hillary Clinton, nello stesso periodo del 2016, di oltre sei punti. La Harris, in Pennsylvania, ha tre problemi: i colletti blu, i cattolici e l’estrema sinistra filopalestinese. Venerdì sera, la candidata dem è stata interrotta, durante un comizio a Wilkes-Barre, da alcuni manifestanti pro Pal. Un problema, questo, che il vicepresidente ha anche in Michigan. Non a caso, l’altro ieri il suo vice, Tim Walz, si è rivolto agli arabo-americani di questo Stato, sostenendo che la Harris sia favorevole a un accordo per il cessate il fuoco e alla soluzione dei due Stati. Nel frattempo, la difesa dell’aborto continua a essere uno dei punti centrali della strategia elettorale della dem. Da giorni, la sua campagna sta conducendo un tour con un pullman su cui è scritto a caratteri cubitali «Combattere per la libertà riproduttiva»: un tour che ha fatto ultimamente tappa soprattutto in Virginia. È stato, intanto, reso noto che gli ex presidenti, Barack Obama e Bill Clinton, faranno campagna per la Harris nelle ultime settimane prima del voto. Donald Trump, dal canto suo, ha aperto alla possibilità di un altro dibattito televisivo con la rivale. Quando gli è stato chiesto se abbia intenzione di tornare sulla sua decisione di non accettare un nuovo confronto, ha lasciato intendere che potrebbe dire di sì, se fosse «dell’umore giusto». Frattanto continua a tener banco la questione di Springfield (in Ohio). Il candidato repubblicano ha promesso rimpatri di massa degli immigrati haitiani presenti, mentre Joe Biden e Walz lo hanno criticato per le sue recenti affermazioni, secondo cui quegli stessi immigrati mangerebbero i gatti. Ricordiamo che Springfield ha meno di 60.000 abitanti e che, negli ultimi anni, ha dovuto accogliere tra i 15.000 e i 20.000 migranti haitiani a causa delle politiche di ricollocamento dell’amministrazione Biden-Harris. Una situazione che ha creato pressione sui servizi cittadini e preoccupazione tra la popolazione: a parlarne fu, a luglio, lo stesso sindaco della cittadina, Rob Rue.
Steve Witkoff (Ansa)
Il consigliere presidenziale russo, Yuri Ushakov, ha, sì, definito l’incontro «utile, costruttivo e molto concreto», ma ha anche precisato che resta «molto lavoro da fare». «Non siamo certo più lontani dalla pace», ha poi specificato. «Siamo riusciti a concordare alcuni punti, altri hanno suscitato critiche, ma l’essenziale è che si sia svolta una discussione costruttiva e che le parti abbiano dichiarato la loro volontà di proseguire negli sforzi», ha continuato, pur sottolineando che sulla questione dei territori «non è ancora stata scelta alcuna soluzione di compromesso», nonostante «alcune proposte americane possano essere discusse». «Apprezziamo la volontà politica del presidente Trump di continuare a cercare soluzioni. Siamo tutti pronti a incontrarci tutte le volte che sarà necessario per raggiungere una soluzione pacifica», ha dichiarato, dal canto suo, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che ha anche accusato gli europei di «rifiutare» il dialogo con Mosca, per poi sostenere che Putin non avrebbe respinto in toto il piano di pace americano.
«Quello che stiamo cercando di capire è se è possibile porre fine alla guerra in un modo che protegga il futuro dell’Ucraina e che entrambe le parti possano accettare», ha affermato, martedì sera, il segretario di Stato americano, Marco Rubio, commentando il colloquio svoltosi al Cremlino. «Penso che abbiamo fatto qualche progresso, ma non siamo ancora arrivati al traguardo», ha aggiunto, per poi specificare: «Solo Putin può porre fine a questa guerra da parte russa». Ricordiamo che, ieri, Rubio, oltre a parlarsi telefonicamente con Antonio Tajani sulla mediazione statunitense in Ucraina, non ha preso parte alla riunione dei ministri degli Esteri della Nato, facendosi rappresentare dal suo vice. Un’assenza a suo modo significativa che il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Mark Rutte, ha comunque cercato di minimizzare, affermando: «Non leggiamo più di quanto non ci sia». «C’è solo una persona al mondo che è in grado di sbloccare la situazione quando si tratta della guerra in Ucraina, ed è il presidente americano Donald J. Trump» ha anche detto, puntando così a rinsaldare le relazioni transatlantiche. Relazioni tuttavia un po’ scricchiolanti: secondo Politico, ieri, al vertice Nato, il vicesegretario di Stato americano, Christopher Landau, ha criticato gli europei per aver allentato i loro legami con l’industria della difesa statunitense.
Nel frattempo, sempre ieri, è saltato l’incontro che avrebbe dovuto tenersi a Bruxelles tra Witkoff e Volodymyr Zelensky. «Dopo Bruxelles, Rustem Umerov e Andrii Hnatov inizieranno i preparativi per un incontro con gli inviati del presidente Trump negli Stati Uniti», ha dichiarato, poco dopo la notizia, il presidente ucraino. «I rappresentanti ucraini informeranno i loro colleghi in Europa su quanto emerso dai contatti avvenuti ieri a Mosca da parte americana e discuteranno anche della componente europea della necessaria architettura di sicurezza», ha aggiunto. Una doccia fredda sull’Ucraina è frattanto arrivata dal presidente finlandese, Alexander Stubb. «La realtà è che anche noi finlandesi dobbiamo prepararci al momento in cui la pace sarà ristabilita e che tutte le condizioni per una pace giusta di cui abbiamo tanto parlato negli ultimi quattro anni hanno poche possibilità di essere soddisfatte», ha affermato.
È in questo quadro ingarbugliato che Emmanuel Macron continua a cercare di ritagliarsi il ruolo di anti-Trump. Il presidente francese si è recato a Pechino, dove, secondo la Bbc, ha intenzione di discutere della crisi ucraina con Xi Jinping, per cercare di convincerlo a fare pressione su Putin. Si tratta, in sostanza, della stessa strategia portata avanti per anni dall’amministrazione Biden, che però non ha avuto alcun effetto concreto. È d’altronde tutto da dimostrare che Pechino auspichi realmente una conclusione del conflitto ucraino. Se all’inizio dell’invasione si era presentato come l’uomo del dialogo con Mosca, dal 2024 l’inquilino dell’Eliseo si è riscoperto falco antirusso (pur non disdegnando di mandare, lo scorso maggio, l’ambasciatore francese all’insediamento presidenziale di Putin). Adesso, nel suo iperattivismo inconcludente, Macron sta tentando di aprire un non meglio precisato percorso diplomatico parallelo a quello della Casa Bianca, tenendo la mano al rivale sistemico degli Usa: il che rischia di portare indirettamente a nuove fibrillazioni tra Washington e Bruxelles.
In tutto questo, ieri, al vertice della Nato, il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha discusso con gli omologhi di Bulgaria e Romania dei recenti attacchi ucraini nel Mar Nero. Attacchi che, lunedì, Tayyip Erdogan aveva severamente criticato, affermando: «Non possiamo in nessun caso accettare questi attacchi, che minacciano la sicurezza della navigazione, dell’ambiente e della vita nella nostra zona economica esclusiva». Un’irritazione, quella di Ankara, che potrebbe avere impatti negativi sulla posizione negoziale di Zelensky, che già deve gestire le difficoltà legate al caso Yermak. Fidan ha inoltre reso noto che il presidente turco continua a essere in contatto con Putin. «La cosa principale è che i negoziati continuino e che si trovi una via di mezzo. Credo che Witkoff, che attualmente sta mediando, possa svolgere un ruolo positivo. Ha sufficienti competenze», ha affermato.
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Giuseppe Cavo Dragone (Ansa)
Al di là del merito delle dichiarazioni, che si riferivano esplicitamente alla cybersicurezza, rimane un fatto che Cavo Dragone - accostando le tre parole «Nato», «Russia» e «attacco preventivo» - ha finito per generare un vespaio di polemiche. Mosca, naturalmente, non l’ha presa bene: «Riteniamo che la dichiarazione di Giuseppe Cavo Dragone sui potenziali attacchi preventivi contro la Russia sia un passo estremamente irresponsabile, che dimostra la volontà dell’Alleanza di continuare a muoversi verso un’escalation», ha dichiarato Maria Zakharova, la portavoce del ministero degli Esteri russo. Che poi ha definito le parole dell’ammiraglio «un tentativo deliberato di minare gli sforzi volti a trovare una via d’uscita alla crisi ucraina».
Anche in Italia, del resto, l’intervista di Cavo Dragone ha suscitato malumori bipartisan: dalle forze di maggioranza a quelle di opposizione, tutti i partiti hanno espresso perplessità sull’opportunità di rilasciare dichiarazioni tanto forti, o comunque fraintendibili. Lo stesso Antonio Tajani, atlantista doc, interpellato a caldo sulle parole del presidente del comitato militare della Nato, aveva detto: «Quello che conta non sono le dichiarazioni, ma il lavoro». Non esattamente una difesa a spada tratta.
Sarà anche per questo che Cavo Dragone, sentito ieri dall’Ansa, ha provato ad aggiustare il tiro: «Nell’intervista al Financial Times, così come in altre dichiarazioni, ho fatto riferimento specificamente alle minacce ibride di cui siamo quotidianamente oggetto, evidenziando come sia importante e necessario mantenere un approccio flessibile e assertivo, senza alimentare ovviamente processi escalatori», ha detto l’ammiraglio. Che poi ha aggiunto: «La Nato, come sempre ribadito, rimane infatti un’alleanza difensiva».
Queste dichiarazioni, peraltro, sono seguite all’incontro che Cavo Dragone ha avuto con Tajani a margine della ministeriale Nato: «Gli ho ribadito il mio giudizio, credo di aver ben interpretato le sue parole senza strumentalizzarle», ha sottolineato il ministro degli Esteri. «Non ci ho trovato nulla di strano, nulla di anomalo, nulla in contrasto con i principi della Nato. Mi pare che sia tutto concluso. Gli ho ribadito la mia stima, la mia solidarietà, perché mi pare che stia svolgendo molto bene il suo ruolo».
Più piccato è stato, invece, il commento di Giorgia Meloni: «È una fase in cui bisogna misurare molto bene le parole», ha detto ieri il premier a margine di un vertice in Bahrein. «Bisogna evitare tutto quello che può far surriscaldare gli animi. L’ammiraglio Cavo Dragone stava parlando di cybersicurezza. Io l’ho letta così: la Nato è un’organizzazione difensiva, oltre a difenderci dobbiamo fare anche meglio prevenzione. Attenzione anche a come si leggono parole che bisogna anche essere molto attenti a pronunciare», ha concluso la leader di Fratelli d’Italia.
Insomma, va bene essere «proattivi», come sostiene l’ammiraglio, ma certe strategie sarebbe opportuno non sbandierarle ai quattro venti. Del resto, così la pensa anche Baiba Braze, il ministro degli Esteri lettone: «Certe cose è meglio farle, e non dirle. Gli Alleati hanno capacità di attacco informatico e, se necessario, possono essere impiegate, ma nessuno ne parlerà ad alta voce».
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Carlo Melato dialoga con il critico musicale Alberto Mattioli sulle attese suscitate dal titolo scelto dal Piermarini per il 7 dicembre: Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk. Un capolavoro che ha sofferto la censura staliniana e che dev’essere portato al grande pubblico, anche televisivo, scommettendo sulla sua potenza e non sul boom di ascolti
Giorgia Meloni (Getty Images)
Le parole sono importanti. E infatti Giorgia Meloni, che dal Bahrein, dov’era l’unica europea invitata al Vertice del Golfo, ha assicurato che entro fine anno arriverà il decreto per l’Ucraina, ha parlato di «inviare aiuti». Non armi. Ha citato, semmai, i «generatori di corrente», con i quali sopperire ai blackout provocati dai bombardamenti russi.
La misura non entrerà nel Consiglio dei ministri di oggi, ma il suo slittamento, ha minimizzato il premier, è solo «una questione logistica». Di qui al 31 dicembre ci sarà «più di un cdm» utile. E approvare il decreto, che coprirà per un anno intero le forniture a Kiev, «non vuol dire lavorare contro la pace». In ogni caso, ha chiarito Meloni, «finché c’è una guerra aiuteremo l’Ucraina a potersi difendere da un aggressore».
Anche qui, la scelta del lessico ha un peso. Dopo le tensioni con la Lega, che hanno portato al rinvio della norma, il partito di Matteo Salvini ha delineato un compromesso: niente armi a lungo raggio per la resistenza. Ne ha discusso il capogruppo dei senatori del Carroccio, Massimiliano Romeo, a Ping pong, su Rai Radio 1. «In questa fase», ha spiegato, «serve un provvedimento che guardi alle garanzie di sicurezza dell’Ucraina nell’ambito del piano di pace degli Stati Uniti. Una semplice proroga rischia di non essere allineata al percorso negoziale». È il medesimo concetto che avrebbe espresso Salvini in un colloquio con il presidente del Consiglio.
Facciamo due più due: se i leghisti s’impuntano sui missili a lunga gittata, significa che l’Italia ne ha già donati in passato. Il segreto di Pulcinella, custodito dal Copasir, al quale il governo illustra in forma riservata i mezzi spediti al fronte, lo aveva svelato, ad aprile 2024, l’ex ministro della Difesa britannico. Durante una visita a un impianto di Mbda, Grant Shapps si era lasciato sfuggire che sia Roma, sia Londra, sia Parigi avevano offerto alla resistenza i loro Storm shadow. Sono testate da crociera, fabbricate proprio da Mbda, in grado di volare per 550 chilometri, trasportando 450 chili di esplosivo. Kiev le ha utilizzate in Crimea e contro il territorio russo. Ma è plausibile che i nostri missili siano stati impiegati soltanto nella regione invasa nel 2014; non nel Kursk, o in altri oblast della Federazione. Il nostro esecutivo dovrebbe aver imposto agli alleati dei limiti operativi, in linea con quanto sempre espresso da suoi autorevoli esponenti, a cominciare da Antonio Tajani: mai armi italiane per colpire la Russia.
Romeo, raggiunto dalla Verità, ha precisato di non essere entrato «nello specifico tecnico: ho solo ribadito una posizione politica. Ossia, che sarebbe bene, vista la situazione attuale, attendere l’evoluzione delle trattative in corso sul piano di pace Usa, così da poter definire un provvedimento pienamente coerente con il percorso diplomatico intrapreso e in grado di includere le garanzie di sicurezza per l’Ucraina, che emergeranno dal negoziato internazionale». Evitare fughe in avanti e valutare gli scenari postbellici.
È comunque ragionevole supporre che, se passasse il «lodo» del senatore, per tutto il 2026, a parte i generatori, potremmo mandare al massimo le contraeree Samp/T. Di cui, invero, c’è penuria pure per noi. L’alternativa è partecipare, in ambito Nato, al programma di acquisto di armi americane e procurare a Volodymyr Zelensky i Patriot. Secondo il titolare della Farnesina, però, esplorare questa soluzione è «prematuro». Sullo sfondo, c’è l’annuncio del segretario generale dell’organizzazione, Mark Rutte: gli aiuti all’Ucraina rientreranno nel calcolo del 5% del Pil in spese militari.
Forza Italia, ieri, ha gettato acqua sul fuoco: «È in evoluzione il processo geopolitico internazionale», ha osservato il portavoce azzurro, Raffaele Nevi, a Skytg24. Sposando, dunque, le cautele auspicate dal Carroccio. «Il decreto verrà approvato quando sarà necessario», ha concluso Nevi. Il Pd - che all’Eurocamera è stato capace di esprimere tre posizioni diverse sulla guerra - è saltato sopra il nuovo attrito nella maggioranza, dopo le sortite del vicepremier leghista su «cessi d’oro» e «puttane» dei corrotti di Kiev, pagati con i nostri soldi. Le dichiarazioni della Meloni, ha attaccato Peppe Provenzano, responsabile Esteri dei dem, «confermano la grave e crescente divisione» nel centrodestra, dove «Salvini», «che non smette di evidenziare il suo filoputinismo», «non solo detta l’agenda politica alla premier, ma tenta di sostituirsi» a Tajani, nonché al ministro della Difesa, Guido Crosetto. Di senso diametralmente opposto la critica di Giuseppe Conte: a suo avviso, i distinguo sul decreto sono ipocriti e la scommessa sulla vittoria di Zelensky è stata un «fallimento».
Ieri, all’Enac, Salvini ha espresso la speranza che, «tra qualche mese, non anni», si torni a «volare su Kiev e Mosca da Roma e Milano». Ingenuo, forse. Ma mica putiniano.
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