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2025-03-15
Ursula nuoce gravemente al vino mettendo i dazi sul bourbon yankee
IIl presidente della Repubblica Sandro Pertini, in un frangente come questo, avrebbe detto: «A brigante, brigante e mezzo». È la risposta che Donald Trump ha dato a Ursula von der Leyen. A sentire i nostri vignaioli, non tutti per la verità perché quelli che hanno blasone e vendono nella fascia altissima di mercato non fanno una piega così come i migliori produttori di Champagne snobbano le intemerate di Emmanuel Macron, c’è in atto una catastrofe provocata dall’inquilino della Casa Bianca che ce l’ha con l’Europa e minaccia dazi del 200% sui vini e spumanti.
È il caso di ricordare che con il vino, semmai, ce l’ha proprio l’Ue e la baronessa Ursula von der Leyen che voleva tagliare i sostegni all’export e i contributi perché, secondo i suoi funzionari, il vino fa male. Stiamo ai fatti evitando le ipocrisie. A menare le mani sugli alcolici è stata per prima l’Europa. Ha messo dazi aggressivi del 50% sul whisky a stelle e strisce: il bourbon. Pur molto cresciute, le esportazioni in Europa di distillato americano di malto valgono 630 milioni di euro. Il prezzo medio di una bottiglia è di 34 euro, i più cari arrivano a 60. Gli Usa importano dall’Europa vino per 4,9 miliardi di euro: il prezzo medio dei 150 vini italiani più comprati in America a scaffale è di 148 dollari, poco meno di 136 euro. Domanda: chi si fa più male nella guerra dei dazi sugli alcolici? In Italia, obbedendo al chiagne e fotte, si alzano alti lai e le stime sono quasi folli: si dice che perderemo un miliardo di fatturato. Basta ricordarsi che, in forza del massiccio aumento di acquisti che si è avuto a fine 2024 - certificato come dato anomalo dall’Unione italiana vini che oggi piange e che a Natale batteva le mani al più 10% - proprio perché gli importatori temevano i dazi, siamo arrivati a spedire oltreoceano vino per 1,9 miliardi. Ci sta che si dimezzi. Gli americani sono il nostro primo mercato, bevono molto Prosecco che deve stare sotto i 12 dollari altrimenti i Cava spagnoli, gli spumanti cileni e pure i Cremant francesi, lo fanno secco, ma sono anche i più forti consumatori di bottiglie premium.
I prosecchisti, gli stessi che spingono per i vini dealcolati visto che Ursula von der Leyen ha dichiarato guerra agli alcolici in Europa, temono i dazi. Jeremy Hart, chief strategy officer e co-fondatore di Somm.ai e che ha sotto mano le tendenze di consumo del vino italiano negli Usa, dice però che i 150 vini italiani più venduti in America stanno in queste fasce di prezzo: 58 sono sopra i 100 dollari, 92 sotto o vicino a quella cifra. Domanda: è possibile che sopra i cento dollari la domanda sia anelastica, cioè indifferente al prezzo? E che negli Usa vada molto il vino «caro» lo dimostra la classifica per Regioni. Se in testa c’è il Veneto col 36% dell’export anche in forza del Prosecco, le due Regioni che vendono di più sono Piemonte (16%) e Toscana (15%) che sono quelle con i prezzi medi del vino più alti.
Sandro Bottega, leader del Prosecco (e dei distillati), dice: «Ho fiducia che gli americani sopporteranno ugualmente molti degli aumenti di prezzo data l’unicità della produzione italiana. Bisogna agire di diplomazia e su più fronti con grandi conoscenze di scienze economiche, di dialogo e di comunicazione. Se invece», sottolinea Bottega, «la Ue vorrà controbattere con altri dazi, si innescheranno reazioni a catena che danneggiano i consumatori europei e americani». In queste ore Coldiretti si lamenta con Ettore Prandini: «È a rischio l’export italiano che, in 20 anni, è quasi triplicato e ora è pari a 1,94 miliardi. Bisogna fermare i dazi». Luigi Scordamaglia, ad di Filiera Italia, aggiunge: «Credo che ci voglia buon senso da entrambe le parti. La minaccia di Trump è legata alla conferma dell’Europa del dazio del 50% sul whisky americano. La Commissione Ue dovrebbe dimostrare buona volontà mantenendo la moratoria su questo dazio». Luca Rigotti, settore vino di Confcooperative - le cantine sociali vendono a prezzo medio più basso - invita «a scongiurare lo scontro sul vino». Per l’Unione italiana vini, presieduta da Lamberto Frescobaldi, «Con i dazi al 200%, a cui non vogliamo credere, l’Ue perderebbe circa 4,9 miliardi di euro di export, il totale dell’export in Usa. L’Italia perderebbe 470 milioni diretti e un miliardo di danno indiretto: l’80% del nostro vino sarebbe coinvolto».
Ci sono due dati da tenere in conto: il consumo di vino negli Usa è crollato del 4,4% a prescindere dai dazi e Donald Trump - nel suo best seller The art of the deal spiega la strategia commerciale: sparare in alto e poi trattare - ha risposto all’attacco di Ursula von der Leyen, La quale non ha simpatia per il vino. Ha detto sì alle etichette allarmistiche in Irlanda, vara il BeCa - documento anti-cancro - in cui si colpisce il consumo di vino imponendo accise fortissime, vietando la pubblicità, mettendo barriere al commercio e diffondendo allarmi sanitari. Così il consumo di vino in Europa è già crollato a 19,8 litri a testa e scende ancora. La Commissione Ue, sapendo che ci sarebbero state ritorsioni, ha scelto di sparare sul whisky Usa piuttosto che sulle auto. Non si poteva dare un dispiacere ai tedeschi, concittadini di Ursula von der Leyen.
Ora pure Tesla teme delle ritorsioni
Ora i dazi di Donald Trump mettono paura anche al fidato Elon Musk. Può sembrare un paradosso che la strategia politica del presidente Usa vada a colpire gli interessi del suo più stretto collaboratore. Eppure i dazi che proprio Musk ha condiviso, potrebbero andare a colpire anche la sua Tesla, nel caso in cui si dovessero scatenare delle vere e proprie ritorsioni.I Paesi colpiti dalle maggiori imposte doganali americane potrebbero rispondere alla misura applicando, a loro volta, dei rincari sui prodotti provenienti dagli Stati Uniti. Secondo quanto riportato da Reuters, Tesla avrebbe inviato una lettera allo U.S. Trade representative’s office, al rappresentante al commercio americano, nella quale esprime preoccupazione per il rischio di ritorsioni da parte dei Paesi colpiti dalle tariffe dell’amministrazione Trump. La lettera, non firmata ma scritta su carta intestata, sottolinea la necessità di evitare che le decisioni di Washington sulle questioni commerciali danneggino inavvertitamente le aziende statunitensi. Si dice anche che Tesla è «vulnerabile a potenziali ritorsioni in seguito all’intensificarsi dello scontro commerciale». Poi si ricorda che, in passato, ci sono state «reazioni immediate da parte dei Paesi presi di mira», anche con un «aumento dei dazi sui veicoli elettrici importati».Tesla sottolinea anche che, nonostante gli sforzi per circoscrivere la catena di produzione negli Usa, alcuni materiali e componenti restano introvabili o difficilmente reperibili sul territorio americano, specialmente per quanto riguarda le batterie al litio. Quindi, qualora i Paesi fornitori di queste tecnologie e materie prime essenziali per le auto elettriche dovessero limitare le loro esportazioni negli Usa, i costruttori americani ne sarebbero danneggiati.Le prime reazioni già sono arrivate dal Canada. Il ministro dell’energia della Columbia Britannica, Adrian Dix, ha dichiarato che i veicoli Tesla non dovrebbero ricevere sovvenzioni pubbliche. La provincia sta valutando di rimuovere Tesla dal programma di incentivi per l’acquisto delle elettriche.La casa automobilistica da tempo non viaggia in buone acque: dalla vittoria di Trump a metà dicembre, le azioni avevano raddoppiato il valore. Poi gli scontri commerciali hanno fatto di Tesla il bersaglio principale delle ritorsioni da parte dei Paesi danneggiati dalla politica di Washington. Così, da inizio anno, il titolo ha perso più del 40%. A febbraio le vendite in Germania sono diminuite del 76%, in Svezia del 42%; in Francia, nei primi due mesi del 2025, del 45%. In Cina a febbraio il crollo è stato del 49%. Va ricordato che Tesla genera all’estero oltre la metà dei suoi 97 miliardi di ricavi (anzitutto in Cina).L’Italia continua la strada della diplomazia. Il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, nell’incontro bilaterale con il segretario di Stato Usa, Marco Rubio, «ha sottolineato l’importanza della solida e duratura partnership tra Stati Uniti e Italia». Il dipartimento di Stato ha reso noto che i due «hanno ribadito il loro impegno comune ad affrontare una serie di sfide globali, tra cui l’equilibrio delle relazioni commerciali» e hanno discusso della «necessità di aumentare la condivisione degli oneri tra tutti gli alleati della Nato e porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina».Intanto si calcolano i danni delle tariffe sul Made in Italy. Nell’alimentare e in particolare per i prodotti caseari, il Consorzio di tutela del pecorino romano ha stimato che questo formaggio perderebbe 40 milioni di euro di fatturato se rientrasse nella «lista nera» dei dazi. Ancma, l’Associazione del ciclo e motociclo, teme «un’escalation nel settore». In Italia le due ruote valgono 10 miliardi di fatturato.Un’analisi Istat dice che «nel 2024, oltre il 48% del valore dell’export italiano è stato indirizzato al di fuori dell’Ue, una quota superiore a quelle tedesca, francese e spagnola. Gli Usa hanno assorbito circa il 10% delle vendite all’estero dell’Italia e più di un quinto di quelle di prodotti italiani destinati ai mercati extra europei». Quindi, «l’applicazione dei dazi potrebbe avere effetti rilevanti sul nostro Paese».
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Washington pronta a stangare le bottiglie del Vecchio continente del 200% in riposta alla tariffa Ue sul whisky americano che nessuno beve. Dopo le etichette sul rischio cancro, Von der Leyen penalizza ancora il settore.La casa automobilistica scrive all’amministrazione Trump: «Lo scontro commerciale ci trova vulnerabili». Vertice Tajani-Rubio: «Dialoghiamo». Allarmi da Istat e Ancma.Lo speciale contiene due articoli.IIl presidente della Repubblica Sandro Pertini, in un frangente come questo, avrebbe detto: «A brigante, brigante e mezzo». È la risposta che Donald Trump ha dato a Ursula von der Leyen. A sentire i nostri vignaioli, non tutti per la verità perché quelli che hanno blasone e vendono nella fascia altissima di mercato non fanno una piega così come i migliori produttori di Champagne snobbano le intemerate di Emmanuel Macron, c’è in atto una catastrofe provocata dall’inquilino della Casa Bianca che ce l’ha con l’Europa e minaccia dazi del 200% sui vini e spumanti.È il caso di ricordare che con il vino, semmai, ce l’ha proprio l’Ue e la baronessa Ursula von der Leyen che voleva tagliare i sostegni all’export e i contributi perché, secondo i suoi funzionari, il vino fa male. Stiamo ai fatti evitando le ipocrisie. A menare le mani sugli alcolici è stata per prima l’Europa. Ha messo dazi aggressivi del 50% sul whisky a stelle e strisce: il bourbon. Pur molto cresciute, le esportazioni in Europa di distillato americano di malto valgono 630 milioni di euro. Il prezzo medio di una bottiglia è di 34 euro, i più cari arrivano a 60. Gli Usa importano dall’Europa vino per 4,9 miliardi di euro: il prezzo medio dei 150 vini italiani più comprati in America a scaffale è di 148 dollari, poco meno di 136 euro. Domanda: chi si fa più male nella guerra dei dazi sugli alcolici? In Italia, obbedendo al chiagne e fotte, si alzano alti lai e le stime sono quasi folli: si dice che perderemo un miliardo di fatturato. Basta ricordarsi che, in forza del massiccio aumento di acquisti che si è avuto a fine 2024 - certificato come dato anomalo dall’Unione italiana vini che oggi piange e che a Natale batteva le mani al più 10% - proprio perché gli importatori temevano i dazi, siamo arrivati a spedire oltreoceano vino per 1,9 miliardi. Ci sta che si dimezzi. Gli americani sono il nostro primo mercato, bevono molto Prosecco che deve stare sotto i 12 dollari altrimenti i Cava spagnoli, gli spumanti cileni e pure i Cremant francesi, lo fanno secco, ma sono anche i più forti consumatori di bottiglie premium.I prosecchisti, gli stessi che spingono per i vini dealcolati visto che Ursula von der Leyen ha dichiarato guerra agli alcolici in Europa, temono i dazi. Jeremy Hart, chief strategy officer e co-fondatore di Somm.ai e che ha sotto mano le tendenze di consumo del vino italiano negli Usa, dice però che i 150 vini italiani più venduti in America stanno in queste fasce di prezzo: 58 sono sopra i 100 dollari, 92 sotto o vicino a quella cifra. Domanda: è possibile che sopra i cento dollari la domanda sia anelastica, cioè indifferente al prezzo? E che negli Usa vada molto il vino «caro» lo dimostra la classifica per Regioni. Se in testa c’è il Veneto col 36% dell’export anche in forza del Prosecco, le due Regioni che vendono di più sono Piemonte (16%) e Toscana (15%) che sono quelle con i prezzi medi del vino più alti.Sandro Bottega, leader del Prosecco (e dei distillati), dice: «Ho fiducia che gli americani sopporteranno ugualmente molti degli aumenti di prezzo data l’unicità della produzione italiana. Bisogna agire di diplomazia e su più fronti con grandi conoscenze di scienze economiche, di dialogo e di comunicazione. Se invece», sottolinea Bottega, «la Ue vorrà controbattere con altri dazi, si innescheranno reazioni a catena che danneggiano i consumatori europei e americani». In queste ore Coldiretti si lamenta con Ettore Prandini: «È a rischio l’export italiano che, in 20 anni, è quasi triplicato e ora è pari a 1,94 miliardi. Bisogna fermare i dazi». Luigi Scordamaglia, ad di Filiera Italia, aggiunge: «Credo che ci voglia buon senso da entrambe le parti. La minaccia di Trump è legata alla conferma dell’Europa del dazio del 50% sul whisky americano. La Commissione Ue dovrebbe dimostrare buona volontà mantenendo la moratoria su questo dazio». Luca Rigotti, settore vino di Confcooperative - le cantine sociali vendono a prezzo medio più basso - invita «a scongiurare lo scontro sul vino». Per l’Unione italiana vini, presieduta da Lamberto Frescobaldi, «Con i dazi al 200%, a cui non vogliamo credere, l’Ue perderebbe circa 4,9 miliardi di euro di export, il totale dell’export in Usa. L’Italia perderebbe 470 milioni diretti e un miliardo di danno indiretto: l’80% del nostro vino sarebbe coinvolto».Ci sono due dati da tenere in conto: il consumo di vino negli Usa è crollato del 4,4% a prescindere dai dazi e Donald Trump - nel suo best seller The art of the deal spiega la strategia commerciale: sparare in alto e poi trattare - ha risposto all’attacco di Ursula von der Leyen, La quale non ha simpatia per il vino. Ha detto sì alle etichette allarmistiche in Irlanda, vara il BeCa - documento anti-cancro - in cui si colpisce il consumo di vino imponendo accise fortissime, vietando la pubblicità, mettendo barriere al commercio e diffondendo allarmi sanitari. Così il consumo di vino in Europa è già crollato a 19,8 litri a testa e scende ancora. La Commissione Ue, sapendo che ci sarebbero state ritorsioni, ha scelto di sparare sul whisky Usa piuttosto che sulle auto. Non si poteva dare un dispiacere ai tedeschi, concittadini di Ursula von der Leyen. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ursula-nuoce-gravemente-al-vino-2671335691.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ora-pure-tesla-teme-delle-ritorsioni" data-post-id="2671335691" data-published-at="1742046280" data-use-pagination="False"> Ora pure Tesla teme delle ritorsioni Ora i dazi di Donald Trump mettono paura anche al fidato Elon Musk. Può sembrare un paradosso che la strategia politica del presidente Usa vada a colpire gli interessi del suo più stretto collaboratore. Eppure i dazi che proprio Musk ha condiviso, potrebbero andare a colpire anche la sua Tesla, nel caso in cui si dovessero scatenare delle vere e proprie ritorsioni.I Paesi colpiti dalle maggiori imposte doganali americane potrebbero rispondere alla misura applicando, a loro volta, dei rincari sui prodotti provenienti dagli Stati Uniti. Secondo quanto riportato da Reuters, Tesla avrebbe inviato una lettera allo U.S. Trade representative’s office, al rappresentante al commercio americano, nella quale esprime preoccupazione per il rischio di ritorsioni da parte dei Paesi colpiti dalle tariffe dell’amministrazione Trump. La lettera, non firmata ma scritta su carta intestata, sottolinea la necessità di evitare che le decisioni di Washington sulle questioni commerciali danneggino inavvertitamente le aziende statunitensi. Si dice anche che Tesla è «vulnerabile a potenziali ritorsioni in seguito all’intensificarsi dello scontro commerciale». Poi si ricorda che, in passato, ci sono state «reazioni immediate da parte dei Paesi presi di mira», anche con un «aumento dei dazi sui veicoli elettrici importati».Tesla sottolinea anche che, nonostante gli sforzi per circoscrivere la catena di produzione negli Usa, alcuni materiali e componenti restano introvabili o difficilmente reperibili sul territorio americano, specialmente per quanto riguarda le batterie al litio. Quindi, qualora i Paesi fornitori di queste tecnologie e materie prime essenziali per le auto elettriche dovessero limitare le loro esportazioni negli Usa, i costruttori americani ne sarebbero danneggiati.Le prime reazioni già sono arrivate dal Canada. Il ministro dell’energia della Columbia Britannica, Adrian Dix, ha dichiarato che i veicoli Tesla non dovrebbero ricevere sovvenzioni pubbliche. La provincia sta valutando di rimuovere Tesla dal programma di incentivi per l’acquisto delle elettriche.La casa automobilistica da tempo non viaggia in buone acque: dalla vittoria di Trump a metà dicembre, le azioni avevano raddoppiato il valore. Poi gli scontri commerciali hanno fatto di Tesla il bersaglio principale delle ritorsioni da parte dei Paesi danneggiati dalla politica di Washington. Così, da inizio anno, il titolo ha perso più del 40%. A febbraio le vendite in Germania sono diminuite del 76%, in Svezia del 42%; in Francia, nei primi due mesi del 2025, del 45%. In Cina a febbraio il crollo è stato del 49%. Va ricordato che Tesla genera all’estero oltre la metà dei suoi 97 miliardi di ricavi (anzitutto in Cina).L’Italia continua la strada della diplomazia. Il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, nell’incontro bilaterale con il segretario di Stato Usa, Marco Rubio, «ha sottolineato l’importanza della solida e duratura partnership tra Stati Uniti e Italia». Il dipartimento di Stato ha reso noto che i due «hanno ribadito il loro impegno comune ad affrontare una serie di sfide globali, tra cui l’equilibrio delle relazioni commerciali» e hanno discusso della «necessità di aumentare la condivisione degli oneri tra tutti gli alleati della Nato e porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina».Intanto si calcolano i danni delle tariffe sul Made in Italy. Nell’alimentare e in particolare per i prodotti caseari, il Consorzio di tutela del pecorino romano ha stimato che questo formaggio perderebbe 40 milioni di euro di fatturato se rientrasse nella «lista nera» dei dazi. Ancma, l’Associazione del ciclo e motociclo, teme «un’escalation nel settore». In Italia le due ruote valgono 10 miliardi di fatturato.Un’analisi Istat dice che «nel 2024, oltre il 48% del valore dell’export italiano è stato indirizzato al di fuori dell’Ue, una quota superiore a quelle tedesca, francese e spagnola. Gli Usa hanno assorbito circa il 10% delle vendite all’estero dell’Italia e più di un quinto di quelle di prodotti italiani destinati ai mercati extra europei». Quindi, «l’applicazione dei dazi potrebbe avere effetti rilevanti sul nostro Paese».
Zerocalcare e il presidente dell’Associazione italiana editori Innocenzo Cipolletta (Ansa)
«Abbiamo preso posizione molto forte quando c’è stata la censura di Scurati alla Rai. Abbiamo preso posizione quando il commissario italiano per la fiera di Francoforte ha dichiarato di aver censurato Saviano», ci dice Cipolletta. «Abbiamo preso posizione contro la censura, anzi l’arresto di uno scrittore come Boualem Sansal in Algeria. Siamo contro le censure. Ora che c’è una proposta di censura nei confronti di una casa editrice, anche se non condividiamo nulla del pensiero che porta avanti, non possiamo essere a favore di questa censura. Perché se censuriamo qualcuno di cui non condividiamo l’opinione, poi alla fine dovremo anche ammettere la censura nei confronti di quelli di cui condividiamo le opinioni. Quindi assolutamente siamo contro le censure». Cristallino. E Cipolletta rincara pure la dose: «Quando si comincia con la censura non si sa più bene dove si finisce. Oggi magari si censura qualcosa che non ci piace, ma domani si cominceranno a censurare anche opinioni che invece condividiamo, e rischiamo di prendere una china molto pericolosa. Se gli editori commettono reati, devono essere denunciati alla Procura. Noi non censuriamo».
Mentre il presidente dell’Aie dà lezioni di liberalismo, a sinistra si scatena lo psicodramma consueto. Zerocalcare ha mollato il colpo e non andrà alla fiera perché, sostiene, ha i suoi paletti. Lo scrittore Christian Raimo invece i paletti vorrebbe piantarli nel cuore dei fascisti e rivendica il tentativo di censura, spiegando che la sua pratica è «sedersi accanto ai nazisti e dire “voi vi alzate io resto qui”». Qualcuno forse dovrebbe dire a Raimo che i nazisti li vede solo lui, e non se ne andranno perché sono voci nella sua testa, amici immaginari che gli fanno compagnia così che si senta anche lui un coraggioso militante pronto al sacrificio per l’idea.
C’è poi chi non rimane a combattere ma se ne va, tipo la casa editrice Orecchio Acerbo, che ha comunicato la sua fuoriuscita dall’Aie «in assoluto e totale disaccordo» con la decisione «di accogliere tra gli espositori di “Più libri più liberi” l’editore Passaggio al Bosco, il catalogo del quale è un’esaltazione di concetti e valori in aperto contrasto con quelli espressi dalla Costituzione antifascista del nostro Paese. Abbiamo deciso», scrivono da Orecchio Acerbo, «di uscire dall’associazione. Decisione presa a malincuore, ma consolidata dopo la davvero risibile argomentazione del presidente Cipolletta: l’Aie non sceglie chi sì e chi no».
Cipolletta risponde con chiarezza: «Ci dispiace, ma ripeto, come associazione di editori cerchiamo di non censurare nessuno e penso che gli editori potrebbero apprezzare, dopodiché se qualcuno non apprezza...». Se qualcuno non apprezza vada per la sua strada: sacrosanto.
In tutto questo bailamme figurarsi se poteva mancare il sindacato.
Slc Cgil e Strade (sezione dei traduttori editoriali) ci hanno tenuto a esprimere «ferma condanna e profonda preoccupazione» per la presenza dell’editore di destra alla kermesse romana. «Consentire la diffusione di narrazioni che celebrano ideologie discriminatorie rappresenta una minaccia per il patrimonio comune di libertà e pluralismo», dice la Cgil. «La libertà di espressione non deve diventare un veicolo per l’apologia del fascismo. Questo non è un semplice dibattito culturale, ma una questione cruciale che misura la capacità della società di respingere ogni tentativo di riabilitazione dell’ideologia fascista. La cultura non può essere un terreno per il travestimento del fascismo come opinione legittima».
In buona sostanza, la Cgil chiede di bandire una casa editrice indipendente tenuta in piedi da ragazzi che lavorano guadagnando poco e faticando molto, che non sono nazisti né fascisti e che hanno regolarmente chiesto e ottenuto uno spazio espositivo. Dunque il sindacato - invece di occuparsi dei diritti di chi lavora - opera per danneggiare persone oneste che fanno il loro mestiere. Il tutto allo scopo di obbedire ai diktat di un gruppetto di autori che masticano amaro perché costretti a riconoscere l’esistenza di una cultura alternativa alla loro. Il succo della storia è tutto qui: non vogliono concedere «spazi ai fascisti» semplicemente perché temono di perdere i propri. Si atteggiano a comunisti ma difendono con i denti la proprietà privata della cultura che vorrebbero dominare con piglio padronale. Stavolta però gli è andata male, perché persino l’associazione degli editori ha capito il giochino e si tira indietro.
I padroncini dell’intelletto vedono sfumare la loro autoattribuita primazia e allora scalciano e strepitano, povere bestie.
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Ecco #Edicolaverità, la rassegna stampa podcast del 5 dicembre con Carlo Cambi
Andrea Sempio (Ansa)
Un attacco frontale. Ribadito anche commentando i risultati dell’incidente probatorio genetico-forense depositati dalla perita genetista Denise Albani: «L’ennesimo buco nell’acqua a spese del contribuente, ho perso il conto, tutto per alimentare un linciaggio mediatico di innocenti, sbattuti da mesi in prima pagina».
Il punto è che queste parole, pronunciate per demolire l’impianto accusatorio delle nuove indagini, finiscono per sbattere contro un dettaglio che l’avvocato Aiello (che aveva chiesto di trasferire il fascicolo da Pavia a Brescia «per connessione» ottenendo un rigetto) tiene da parte: fu proprio Venditti, nel 2016, a iscrivere il fascicolo (poi archiviato) su Andrea Sempio sulla base quasi degli stessi presupposti che anche all’epoca sembravano non tenere conto dell’intangibilità del giudicato, ovvero la sentenza definitiva di condanna a 16 anni per Stasi. Tant’è che furono richieste (proprio da Venditti e dalla collega Giulia Pezzino) e poi disposte dal gip perfino intercettazioni di utenze e, in ambientale, di automobili (attività che, proprio come quelle odierne, non sono gratuite). Anche la critica sulla prova genetica nasce zoppa. La genetista Albani, incaricata nell’incidente probatorio, ha depositato una relazione di 94 pagine che evidenzia gli stessi limiti già noti all’epoca: «L’analisi del cromosoma Y non consente di addivenire a un esito di identificazione di un singolo soggetto». Ma, nonostante le criticità, i calcoli mostrano una corrispondenza «moderatamente forte/forte e moderato» tra le tracce di Dna sulle unghie di Chiara Poggi e l’aplotipo Y della linea paterna di Sempio. La conclusione è matematica: per la traccia «Y428 – MDX5», la contribuzione di Sempio è «da 476 a 2153 volte più probabile». Per la «Y429 – MSX1» è «approssimativamente da 17 a 51 volte più probabile». Non un’assoluzione, non una condanna, ma un dato: Sempio, o un soggetto imparentato in linea paterna con lui, ha contribuito a quelle tracce biologiche. La genetista avverte: «L’analisi del cromosoma Y non consente di addivenire a un esito di identificazione di un singolo soggetto». Ricorda però un passaggio importante: che la mancata replica (in genetica forense un risultato è considerato affidabile solo se può essere riprodotto più volte) è dovuta a «strategie analitiche adottate nel 2014» dal perito Francesco De Stefano, che «hanno di fatto condizionato le successive valutazioni perché non hanno consentito di ottenere esiti replicati». Ovvero: non è colpa delle nuove indagini se i dati sono lacunosi, ma degli errori di allora.
La relazione (di 94 pagine) sostanzialmente non si discosta da quella già effettuata in passato dal professor Carlo Previderé, che nulla aggiunge su come e quando quelle tracce del profilo «Y» sino finite sulle unghie di Chiara. «Nel caso di specie», scrive infatti la genetista, «si tratta di aplotipi misti parziali per i quali non è possibile stabilire con rigore scientifico se provengano da fonti del Dna depositate sotto o sopra le unghie della vittima e, nell’ambito della stessa mano, da quale dito provengano; quali siano state le modalità di deposizione del materiale biologico originario; perché ciò si sia verificato (per contaminazione, per trasferimento avventizio diretto o mediato); quando sia avvenuta la deposizione del materiale biologico».
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Nel riquadro Nathan Trevallion, il papà della cosiddetta famiglia nel bosco, firma il contratto della nuova casa (Ansa)
I documenti sono stati depositati nell’udienza di ieri pomeriggio, dove avrebbero dovuto essere ascoltati Catherine Birmingham e Nathan Trevallion. Si tratta della coppia anglo-australiana che viveva con i tre figli minori, nella casa nel bosco, ma la coppia non era presente in aula. I genitori stanno combattendo per riottenere i bambini, lontani dalla casa nel bosco ormai da 14 giorni. Le importanti relazioni esaminate in aula sono una della casa-famiglia in cui i minorenni sono ospitati dal 20 novembre e l’altra dei servizi sociali. I ragazzi, dall’inizio della loro permanenza nella casa-famiglia in cui sono ospitati, sarebbero tranquilli e non avrebbero subito traumi, incontrano spesso la madre che viene considerata punto di riferimento dei piccoli e che sarebbe anche molto empatica. E anche il padre, pur vivendo ancora nella casa nel bosco, si prende cura dei figli.
Secondo la relazione, i bambini Trevallion hanno mostrato sorpresa davanti ai comfort moderni che trovano nella casa famiglia come l’acqua corrente sempre disponibile, il riscaldamento, gli elettrodomestici. Tutte cose che per i coetanei sono la normalità, ma per loro rappresentano una scoperta. All’udienza di comparizione, iniziata ieri verso le 15.30, erano presenti i due avvocati della famiglia, Marco Femminella e Danila Solinas. Sono loro che hanno chiesto un ricongiungimento urgente al tribunale minorile per la famiglia, presentando delle nuove argomentazioni alla luce di nuovi elementi che non erano conosciuti al tempo dell’ordinanza che ha separato genitori e figli. Anche i minori hanno un loro avvocato, Marica Bolognese. Maria Luisa Palladino è la tutrice provvisoria dei tre bambini.
I genitori hanno anche presentato ricorso, sulla decisione di allontanare i figli minori, alla Corte d’appello che dovrà decidere il 16 dicembre. Intanto, ieri si è iniziato a valutare l’impegno della coppia per garantire quanto disposto dal magistrato in termini di adeguatezza dell’ambiente domestico. La coppia ha deciso di cambiare abitazione per tre mesi, gli è stata messa a disposizione una casa colonica, sempre a Palmoli, immersa nel verde, dove resterà il tempo necessario per sistemare il casolare in cui abitava. A quanto sembra, però, si attende ancora un progetto di ristrutturazione della vecchia abitazione e in Comune a Palmoli non è stata ancora avviata alcuna procedura in merito. «Abbiamo fiducia nella magistratura, speriamo nel ricongiungimento, forniremo altri elementi utili, ma per ora non possiamo dire nulla», ha spiegato l’avvocato Solinas, assediata dai cronisti, all’ingresso del Tribunale per i minorenni dell’Aquila. «Stiamo lavorando bene», ha detto rispondendo alle domande dei giornalisti riferite alla strategia difensiva da attuare in udienza.
E anche all’uscita, i toni della Solinas e di Femminella erano distesi: «È stato un momento di colloquio, di confronto, di chiarimento e quindi di condivisione di un percorso. La decisione spetta al tribunale. L’udienza è il luogo deputato all’interlocuzione, al confronto è stata un’udienza assolutamente proficua, lunga. Si prospetta una proficua collaborazione». «Tra gli elementi che sono valutati in maniera positiva dal tribunale c’è sicuramente la disponibilità dei genitori in questi giorni», hanno aggiunto i due legali, che però non hanno potuto nemmeno ipotizzare quando i giudici scioglieranno la riserva. «Le tempistiche non le posso prevedere», ha risposto la Solinas ai cronisti. Non è chiaro, quindi, se la decisione del Tribunale dei minori arriverà prima o dopo quella della Corte d’appello.
Nelle due ore di udienza sono stati valutati su richiesta degli avvocati dei Trevallion i nuovi aspetti non conosciuti al momento dell’ordinanza di allontanamento del 20 novembre, questo per ottenere l’accoglimento della richiesta di ricongiungimento urgente per la famiglia, che sarà decisa nei prossimi giorni.
Intanto ieri il portavoce di Pro vita & famiglia, Jacopo Coghe, ha consegnato oltre 50.000 firme al ministero della Giustizia, raccolte dalla onlus con una petizione popolare rivolta al ministro Carlo Nordio per chiedere l’immediato ricongiungimento della famiglia Trevallion. «Il caso è diventato il simbolo di una deriva pericolosa, ovvero quando lo Stato, invece di sostenere i genitori, si sostituisce a loro. Così facendo calpesta il diritto dei minori a crescere con il proprio padre e la propria madre e lede il primato educativo che spetta alla famiglia», ha spiegato Coghe.
«In attesa di novità, speriamo positive, dall’udienza al Tribunale dei minori dell’Aquila di oggi pomeriggio (ieri, ndr)», aggiunge Coghe, «chiediamo al ministro Nordio di fare tutto quanto in suo potere affinché questa famiglia venga riunita e simili casi non si ripetano più. Non esiste tutela dei bambini senza rispetto dei loro genitori».
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