2022-09-23
La cura per salvare l’università dall’agonia
Un argine alle consorterie di chi pubblica sulle riviste d’élite, addio alla formula fallimentare dei corsi 3+2, investimenti sulle facoltà umanistiche, sole eccellenze attrattive per studenti stranieri. Le idee dei prof per riformare atenei succubi di scartoffie e mediocrità.A intervalli regolari si discute dei mali dell’università. Altrettanto regolarmente alla denuncia non fa seguito una proposta costruttiva. Il refrain è sempre lo stesso: non ci sono soldi. È vero, ma è anche vero che, in attesa di una riforma sostanziale, si può introdurre qualche miglioramento nel sistema.Cominciamo con l’Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario). In capo a essa sta la responsabilità di aver trasformato gli accademici in burocrati ai quali si chiedono «scartoffie» piuttosto che qualità della ricerca e conseguentemente qualità della docenza. L’equazione è semplice e intuitiva: un professore che si trovi a dedicare tante ore alla burocrazia (necessaria per il buon posizionamento del proprio ateneo nel ranking nazionale e quindi accedere ai finanziamenti) dedicherà meno ore alla ricerca e dunque la qualità del suo insegnamento sarà meno significativa. Ma veniamo al cuore del sistema, quello che dovrebbe valutare la ricerca e che prevede il calcolo delle mediane sia a livello concorsuale che di valutazione periodica della ricerca dei docenti attraverso un doppio sistema di valutazione: bibliometrico (per le facoltà scientifiche) e non bibliometrico (per quelle umanistiche). Nell’ambito della valutazione non bibliometrica, per tentare di conferirle un criterio univoco, è stata individuata la categoria «riviste scientifiche», e al loro interno è stata introdotta la distinzione fra riviste di fascia A e altre. Le riviste di fascia A dovrebbero rispondere a un criterio di eccellenza individuato nel loro carattere internazionale, nella valutazione di revisione paritaria, eccetera, dovrebbero cioè assicurare la pubblicazione di studi ritenuti eccellenti. Il problema che pone questa distinzione è che in qualsiasi tipo di valutazione del docente si chiede al candidato un numero esiguo di contributi di studio se pubblicati su riviste di fascia A e un numero considerevolmente più alto (circa tre o quattro volte numericamente superiore) se pubblicate in riviste non di classe A. Ciò pone una evidente contraddizione: se gli articoli pubblicati in riviste di fascia A sono, in quanto tali, pre giudicati eccellenti, non si dovrebbe sottoporli a una successiva valutazione delle commissioni giudicatrici dei concorsi, ponendosi il caso (accade abbastanza regolarmente) di un giudizio negativo da parte, ad esempio, della commissione dell’Asn (Abilitazione scientifica nazionale) dello stesso articolo che un pool di revisori specializzati ha accettato appunto come eccellente (cioè degno di essere pubblicato in rivista di classe A). Tale contraddizione nasce dalla considerazione che la norma, in realtà, viene disattesa nella sua applicazione pratica. Proliferano, oramai, le riviste che chiedono il pagamento, da parte dello studioso, per poter pubblicare in classe A, avendo formato delle commissioni di revisori compiacenti. Si tratta per lo più di iniziative di case editrici di varia qualità che hanno adempiuto ai criteri richiesti per pubblicare una rivista di classe A. Ugualmente l’accesso alla classe A è spesso garantito a chi faccia parte di una scuola universitaria influente, in grado cioè di garantire l’accesso a tale tipologia di rivista agli allievi che il professore, direttore della rivista o appartenente al comitato scientifico della stessa ha stabilito possano «fare carriera universitaria», a prescindere dal merito effettivo degli stessi. La nostra proposta consiste allora nell’abolizione delle riviste di fascia A, nell’introduzione di una valutazione più alta per le monografie (ovvero a quegli ampi ed elaborati studi che richiedono anche un paio di anni di lavoro) che attualmente, sia in sede di Asn sia in sede di valutazione periodica, è quasi irrilevante. Quindi facciamo lavorare di più e meglio i professori.Per quanto riguarda la docenza e dunque la capacità del sistema universitario di formare i giovani si deve prendere atto, a 23 anni di distanza dalla sua introduzione, del fallimento della riforma che trasformò il ciclo unico in un doppio ciclo, il 3+3, ovvero laurea triennale e laurea magistrale. L’intento era quello di permettere a chi volesse dedicarsi a un ciclo di studi più breve di entrare velocemente nel mondo del lavoro munito degli strumenti più adatti. L’idea era buona ma non ha funzionato (gli iscritti all’università sono diminuiti e l’occupazione di chi ha fatto il ciclo breve non è aumentata).Ma quel che è peggio è stato il livellamento verso il basso nella formazione universitaria. La possibilità di frequentare la laurea triennale ha comportato la licealizzazione del triennio e la diminuzione dell’impegno formativo degli studenti. Di conseguenza la maggioranza degli studenti arriva alla fine del percorso triennale con una formazione (spesso documentata dal voto di laurea) assai bassa, non essendo richiesto per l’accesso alla magistrale un voto minimo. A ciò si aggiunge la sostanziale genericità dei corsi di studio triennali. Sarebbe opportuno introdurre immediatamente un voto minimo di laurea triennale per permettere l’accesso alla magistrale (non meno di 108/110). Questo sarebbe in linea con l’ottima proposta di eliminare il test d’ingresso a Medicina (rimasta a ciclo unico), rimandando la selezione agli esami del primo anno, opportunamente disegnati. Per quanto riguarda le caratteristiche del percorso triennale, la genericità potrebbe essere cambiata in due modi: 1 Passare dal 3+2 al 2+3. In questo caso formulare tali corsi biennali secondo due o tre linee guida essenziali, tali fa fornire allo studente una solida preparazione. 2 Rendere i percorsi triennali tradizionali più specialistici, limitando in maniera drastica il passaggio da un’area formativa all’altra. Rimane la questione del diritto allo studio-occupabilità. L’unica eccellenza che l’Italia può vantare nel ranking mondiale degli atenei è detenuto dalla Sapienza per gli studi sull’antichità classica, seguita dalla Normale di Pisa per lo stesso settore. Sarebbe forse il caso di rassegnarsi al fatto che l’Italia eccelle negli studi umanistici e dunque, senza trascurare gli altri, puntare su di essi per creare eccellenze che non solo elevino gli atenei italiani nelle graduatorie internazionali, ma attirino in Italia studenti dall’estero. Ciò è realizzabile se si creano condizioni di occupabilità significative relative al nostro patrimonio culturale. Un esempio fra tutti è quello relativo alla digitalizzazione del nostro immenso patrimonio archivistico, documentario e museale. In linea con le richieste europee, si dovrebbe prevedere un sostanzioso finanziamento (anche da parte dei privati con relativa defiscalizzazione e/o sconto fiscale) per la digitalizzazione del nostro patrimonio culturale. In tal modo si renderebbero più appetibili le facoltà umanistiche, ma anche quelle informatiche. Come si vede si tratta di proposte minime, facilmente applicabili ma che contribuirebbero a migliorare il nostro sistema universitario, un piccolo passo per restituire all’università quel ruolo formativo che non è istruzione, ma sapere fondamentale per accedere con gli strumenti migliori al mondo del lavoro. Simonetta Bartoliniprofessore ordinario di Letteratura italiana contemporanea - Università Internazionale di Roma - UnintSpartaco Pupoprofessore associato di Storia delle dottrine politiche - Università della Calabria - Unical
Manifestazione a Roma di Ultima Generazione (Ansa)