2021-06-16
«Una norma Ue frena le terapie anti Covid»
La legislazione europea prevede che i vaccini possano ottenere l’autorizzazione condizionata solo se non è già riconosciuta una cura efficace. L’esperto di diritto sanitario: «I protocolli contro la malattia potrebbero essere stati trascurati apposta»E se puntare tutte le fiche sul vaccino avesse ostacolato le terapie anti Covid? È una domanda ormai ricorrente. Parte della risposta potrebbe stare nella normativa che regolamenta l’approvazione condizionata dei farmaci. La procedura che, in Europa, ha consentito di dare l’ok agli immunizzanti finora in circolazione. Per carità: in una situazione di emergenza, la politica è costretta a compiere delle scelte. E ogni scommessa comporta un rischio. In fondo, i vaccini rimangono uno strumento fondamentale per tentare di uscire dalla pandemia. Ma è indubbio che la somministrazione di massa abbia comportato degli inconvenienti. E che, sui vaccini, non sempre sia stata seguita la linea della prudenza, con era stata giustificata l’ostinata cautela sulle cure domiciliari. L’inconcludenza dei protocolli terapeutici è state dettata anche da precisi paletti giuridici? Abbiamo dovuto decidere se curare o vaccinare? Ragioniamoci su.L’autorizzazione all’impiego dei medicinali è normata dal Regolamento Ue 2019/5 del Parlamento europeo e del Consiglio, che ha modificato la versione del 2004, assorbendo i contenuti del Regolamento della Commissione, risalente al 2006. L’articolo 14 bis del documento stabilisce che, in casi «debitamente giustificati», tra i quali rientrano le «minacce alla salute pubblica riconosciute dall’Organizzazione mondiale della sanità», «per rispondere a esigenze mediche insoddisfatte dei pazienti, può essere rilasciata un’autorizzazione all’immissione in commercio, prima della presentazione di dati clinici dettagliati, per medicinali volti a trattare, prevenire o diagnosticare malattie gravemente invalidanti o potenzialmente letali, a condizione» che i benefici di questi rimedi superino i relativi rischi. Esattamente il tipo di procedura seguita all’Ema per Pfizer, Moderna, Astrazeneca e Johnson&Johnson. Il testo - e qui sta l’inghippo - specifica anche cosa debba intendersi per «esigenze mediche insoddisfatte»: «Una patologia per la quale non esiste un metodo soddisfacente di diagnosi, prevenzione o trattamento autorizzato nell’Unione o, anche qualora tale metodo esista, in relazione alla quale il medicinale in questione apporterà un sostanziale vantaggio terapeutico». Dunque, se fosse esistito ufficialmente un protocollo di cura per il Covid-19, ai vaccini non si sarebbe potuta concedere l’autorizzazione condizionata? Essi, in tal caso, avrebbero dovuto seguire l’iter tradizionale, venendo approvati solo una volta pronta la documentazione completa su sicurezza ed efficacia? Ci sarebbero voluti anni. Oggi non immunizzeremmo centinaia di migliaia di persone al giorno. Ma, probabilmente, ci saremmo accorti in fase di sperimentazione e non di somministrazione di alcuni rari e seri effetti collaterali. E, soprattutto, avremmo posto più attenzione a curare i malati, che a schermare i sani. Può essere che i decisori politici, non solo a livello nazionale, abbiano preferito la carta delle vaccinazioni, investendoci ingenti risorse, consapevoli che essa avrebbe rallentato la determinazione di una cura?Queste domande le abbiamo rivolte al professor Maurizio Cini, per anni titolare della cattedra di tecnologia, socioeconomia e legislazione farmaceutiche all’Università di Bologna, esperto di diritto sanitario, fondatore e presidente dell’Associazione scientifica farmacisti italiani. Che è stato nettissimo: «Molti sostengono - e io mi sento di avvalorare questa tesi - che il protocollo terapeutico per le cure domiciliari sia molto scarno, proprio perché, altrimenti, esso non avrebbe lasciato spazio per queste autorizzazioni condizionate ai vaccini». In che senso? «Come minimo, le avrebbe esposte a critiche più marcate», laddove non le avesse rese impossibili.Sì, il Regolamento precisa che il metodo di trattamento della patologia deve essere riconosciuto «nell’Unione» europea. Però, sostiene il professor Cini, sarebbe bastato il bollino di un singolo Paese membro, se non altro a «indebolire la possibilità di procedere a un’autorizzazione condizionata». Tuttavia, il luminare crede che «ci sia un orientamento, un filo conduttore condiviso da tutti gli Stati Ue», sull’opportunità di privilegiare lo strumento vaccinale. Si può obiettare: nonostante le ricerche condotte nel mondo, una cura efficace per il Sars-Cov-2 non c’è. I vaccini, invece, sono pronti da un pezzo. In certi casi, sono stati approntati in tempi così rapidi da risultare sospetti. Per dire: il virus fu identificato il 7 gennaio 2020 e, una settimana dopo, Moderna già proponeva una sequenza per un immunizzante a mRna. Ma sostenere che le terapie non esistano è opinabile. Pochi giorni fa è stato pubblicato su EClinicalMedicine, magazine che fa capo a The Lancet, lo studio ideato dal professor Fredy Suter, primario emerito dell’ospedale papa Giovanni XIII di Bergamo, e dal professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, secondo il quale il Covid va curato prima ancora di ottenere il risultato del tampone, anzitutto con farmaci antinfiammatori non steroidei. I risultati delle sperimentazioni sono incoraggianti: le ospedalizzazioni si sono ridotte di oltre l’80%, il numero di giorni di ricovero di più del 90%. Intanto, si moltiplicano le evidenze a favore dell’ivermectina. E un lavoro americano, in fase di pre print, ha riportato in auge persino la contestatissima idrossiclorochina. E l’Italia, fino ad oggi, che ha combinato? L’Aifa ha concluso che l’idrossiclorochina fa più male che bene. Intanto, insieme al ministero, sta intralciando l’impiego dell’ivermerctina. Non ha un gran seguito nemmeno l’autorevole Remuzzi. Ci siamo limitati, per oltre un anno, a «tachipirina e vigile attesa», protocollo aggiornato con qualche aggiunta non dirimente e prevista per le fasi già avanzate della malattia. Cioè quando, secondo tutti i ricercatori, è già tardi. Abbiamo indugiato a lungo altresì sull’approvazione dei monoclonali. Pare che tutto abbia concorso a determinare proprio l’«esigenza medica insoddisfatta», in virtù della quale, ai sensi del Regolamento Ue, si è potuto procedere con l’autorizzazione ai vaccini. A pensar male si fa peccato; chissà se anche stavolta ci si azzecca.
Thierry Sabine (primo da sinistra) e la Yamaha Ténéré alla Dakar 1985. La sua moto sarà tra quelle esposte a Eicma 2025 (Getty Images)
La Dakar sbarca a Milano. L’edizione numero 82 dell’esposizione internazionale delle due ruote, in programma dal 6 al 9 novembre a Fiera Milano Rho, ospiterà la mostra «Desert Queens», un percorso espositivo interamente dedicato alle moto e alle persone che hanno scritto la storia della leggendaria competizione rallystica.
La mostra «Desert Queens» sarà un tributo agli oltre quarant’anni di storia della Dakar, che gli organizzatori racconteranno attraverso l’esposizione di più di trenta moto, ma anche con memorabilia, foto e video. Ospitato nell’area esterna MotoLive di Eicma, il progetto non si limiterà all’esposizione dei veicoli più iconici, ma offrirà al pubblico anche esperienze interattive, come l’incontro diretto con i piloti e gli approfondimenti divulgativi su navigazione, sicurezza e l’evoluzione dell’equipaggiamento tecnico.
«Dopo il successo della mostra celebrativa organizzata l’anno scorso per il 110° anniversario del nostro evento espositivo – ha dichiarato Paolo Magri, ad di Eicma – abbiamo deciso di rendere ricorrente la realizzazione di un contenuto tematico attrattivo. E questo fa parte di una prospettiva strategica che configura il pieno passaggio di Eicma da fiera a evento espositivo ricco anche di iniziative speciali e contenuti extra. La scelta è caduta in modo naturale sulla Dakar, una gara unica al mondo che fa battere ancora forte il cuore degli appassionati. Grazie alla preziosa collaborazione con Aso (Amaury Sport Organisation organizzatore della Dakar e partner ufficiale dell’iniziativa, ndr.) la mostra «Desert Queens» assume un valore ancora più importante e sono certo che sarà una proposta molto apprezzata dal nostro pubblico, oltre a costituire un’ulteriore occasione di visibilità e comunicazione per l’industria motociclistica».
«Eicma - spiega David Castera, direttore della Dakar - non è solo una fiera ma anche un palcoscenico leggendario, un moderno campo base dove si riuniscono coloro che vivono il motociclismo come un'avventura. Qui, la storia della Dakar prende davvero vita: dalle prime tracce lasciate sulla sabbia dai pionieri agli incredibili risultati di oggi. È una vetrina di passioni, un luogo dove questa storia risuona, ma anche un punto d'incontro dove è possibile dialogare con una comunità di appassionati che vivono la Dakar come un viaggio epico. È con questo spirito che abbiamo scelto di sostenere il progetto «Desert Queens» e di contribuire pienamente alla narrazione della mostra. Partecipiamo condividendo immagini, ricordi ricchi di emozioni e persino oggetti iconici, tra cui la moto di Thierry Sabine, l'uomo che ha osato lanciare la Parigi-Dakar non solo come una gara, ma come un'avventura umana alla scala del deserto».
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