
Il Brasile possiede quella che è stimata, come la seconda riserva mondiale di terre rare, con circa 21 milioni di tonnellate metriche (pari al 23,3% delle riserve globali, ma secondo sondaggi recenti anche di più), a pari merito col Vietnam e superato solo dalla Cina che ne detiene 44 milioni. Questi 17 elementi sono un po’ la spina dorsale della civiltà industriale moderna. Senza di essi non esistono magneti per turbine eoliche, motori per veicoli elettrici, semiconduttori o sistemi di guida per missili e jet. Energia, trasporti, elettronica e difesa sono i settori che più di tutti hanno estrema necessità di questi componenti.
Ad oggi, la Cina controlla il 70% della produzione mineraria e oltre il 90% della lavorazione di questi minerali. Questa posizione di quasi-monopolio permette a Pechino di esercitare un’influenza enorme sui prezzi e sulle catene di fornitura globali, una vulnerabilità che gli Stati Uniti considerano una minaccia diretta alla sicurezza nazionale. Il Brasile, grazie ai suoi depositi di argille ioniche (più facili, economici e meno inquinanti da estrarre rispetto alle rocce dure di Australia e Usa) rappresenta il tassello mancante per il de-risking perseguito dall’Occidente.
Ma in anni di disinteresse di Washington, la Cina è diventata il primo partner commerciale del Brasile, assorbendo volumi enormi di soia, minerali di ferro ed energia. Ma l’influenza cinese va ben oltre il semplice scambio commerciale. Grandi compagnie minerarie come China Molybdenum (Cmoc) sono già profondamente radicate nel Paese attraverso joint venture strategiche.
Il simbolo della rinascita mineraria del Brasile è la città di Minaçu, nello stato di Goiás. Qui, dove un tempo si estraeva amianto, la società Serra Verde (controllata dal fondo americano Denham Capital) ha avviato nel 2024 la produzione commerciale di concentrato contenente le quattro terre rare più ambite per i supermagneti: neodimio, praseodimio, disprosio e terbio.
Tuttavia, emerge un paradosso tipico di questo settore. Nonostante il capitale sia statunitense, i primi carichi di minerali estratti a Minaçu sono stati esportati proprio in Cina per la raffinazione. Pur avendo il minerale, il Brasile manca di un’industria di trasformazione completa, rendendolo di fatto un fornitore di materie prime per il suo principale partner commerciale, Pechino. Neppure gli Stati Uniti, del resto, hanno una industria sviluppata che permetta di raffinare le terre rare, dunque la Cina, che controlla il 90% del mercato mondiale della raffinazione, è la destinazione obbligata dei minerali estratti.
Donald Trump sta adottando una tattica antica ma sempre efficace, il bastone e la carota. Mentre impone dazi pesanti, gli Stati Uniti stanno usando anche incentivi finanziari diretti. La U.S. International Development Finance Corporation (Dfc) ha stanziato fino a 465 milioni di dollari per espandere Serra Verde, mentre la Export-Import Bank (Ecim) ha manifestato interesse per finanziare con 250 milioni di dollari il progetto Caldeira della australiana Meteoric Resources nel Minas Gerais. L’obiettivo di Washington è costruire una catena di fornitura di terre rare che escluda Pechino, spingendo le aziende brasiliane a verticalizzare la produzione internamente o in Paesi alleati.
Il governo Lula ha risposto con il piano Nova Indústria Brasil (Nib), una strategia di neo industrializzazione che mira a stanziare oltre 50 miliardi di dollari per sviluppare settori tecnologici sovrani. Recentemente, la Finep (Financiadora de Estudos e Projetos) e il Bndes (Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social) hanno selezionato 56 progetti, per un valore potenziale di 8 miliardi di dollari, di cui 10 progetti specificamente dedicati alle terre rare.
Tuttavia, il Consiglio Nazionale di Politica Mineraria (Cnpm), istituito formalmente nel 2022, è rimasto inattivo per anni e solo recentemente è stato installato per aggiornare un Piano minerario nazionale fermo al 2011. Inoltre, il settore soffre per un’agenzia regolatrice (Anm) definita fragile e sottofinanziata, e per tempi di autorizzazione che possono durare un decennio. Le piccole compagnie minerarie si sono recentemente unite nell’Associazione dei Minerali Critici (Amc) per chiedere al governo garanzie finanziarie reali, poiché senza flussi di cassa immediati rischiano di dover cedere la produzione futura a investitori stranieri.
Sullo sfondo rimangono i conflitti socio-ambientali. Sebbene l’estrazione dalle argille ioniche sia definita sostenibile da Serra Verde, le comunità locali vicino alla miniera denunciano la contaminazione dei corsi d’acqua e impatti sulla salute. Il Brasile rischia di ripetere la sua traiettoria storica, cioè esportare minerali grezzi e restare dipendente dalle tecnologie estere. Sarebbe necessario creare un polo di raffinazione nazionale che rassicuri sia i militari, desiderosi di autonomia per il loro programma di sottomarini nucleari, sia gli investitori internazionali.
In conclusione, il Brasile ha tra le mani le chiavi di una importante cassaforte di preziose materie prime. Molto dipende da come il governo Lula saprà agire. Se in maniera pragmatica, cercando un compromesso tra le opposte spinte di Cina e Stati Uniti, o se sceglierà di gettarsi da una parte e in questo modo determinare uno squilibrio che sarà da valutare nella sua portata. Il rischio è che il grande Paese imploda sotto la pressione dei dazi di Trump o finisca per diventare una semplice colonia estrattiva per la fame di risorse della Cina.





