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2022-09-07
Un nuovo evviva di Trump a Giuseppi rispolvera l’anomala delega ai servizi
Giuseppe Conte (Ansa)
Trump tifa per Giuseppe Conte? Così qualcuno dice, anche se la situazione potrebbe rivelarsi un po’ diversa da come appare. Tutto nasce da un articolo di La Repubblica. Il quotidiano italiano ha intercettato l’ex presidente americano durante un evento elettorale in New Jersey. Rispondendo fugacemente a una domanda sulle elezioni italiane del 25 settembre, il magnate ha dichiarato: «Ho visto, ho visto. Come sta andando il mio ragazzo?». Un riferimento, questo, a Conte. «Giuseppe, sì, Giuseppe. Ho lavorato bene con lui, spero che faccia bene», ha proseguito Donald Trump. Invece, secondo Repubblica, l’ex inquilino della Casa Bianca si sarebbe mostrato disinteressato a Matteo Salvini. «Non lo so, non lo so. Però Conte è davvero una gran brava persona», ha detto, rispondendo a una domanda sul leader leghista. L’ex premier ha colto la palla al balzo, sostenendo che le parole di Trump dimostrerebbero l’infondatezza delle accuse di chi gli dà del filorusso.
Diciamocelo: da queste fugaci risposte sembra proprio che Trump non sia particolarmente informato (né forse interessato) alla campagna elettorale italiana. Quello a Conte pare tra l’altro più un attestato di simpatia personale che un endorsement politico: una situazione, quindi, ben differente da quel fatidico 27 agosto 2019, quando - nel pieno della crisi di governo italiana - l’allora presidente americano postò il famoso tweet in cui sperava che «Giuseppi» sarebbe rimasto premier. Un endorsement, quello, che in un certo senso favorì la permanenza a Palazzo Chigi di Conte. Dall’altra parte, Trump è sempre apparso restio ad intromettersi nella politica interna degli altri Paesi. E non è affatto detto che abbia percepito il senso politico del camaleontico passaggio dal Conte I al Conte II. Anche perché va ricordato che, a luglio 2018, Trump aveva elogiato il governo italiano per la sua stretta sull’immigrazione clandestina. «Sono molto d’accordo con quello che state facendo riguardo a migrazione, immigrazione clandestina, e anche immigrazione legale», aveva detto a Conte, per poi aggiungere: «L’Italia ha preso una posizione molto ferma alla frontiera, una posizione che pochi Paesi hanno preso e, francamente, secondo me state facendo la cosa giusta». Ora, quella stretta migratoria era stata attuata da Salvini al Viminale, per poi finire cassata da Luciana Lamorgese nell’esecutivo giallorosso, nato il 5 settembre 2019. Questo dimostra come Trump non avesse granché chiaro il senso politico del passaggio dal Conte I al Conte II. Né la sua amministrazione mostrò di amare il secondo governo dell’«avvocato del popolo»: fonti qualificate hanno infatti riferito alla Verità che, nel settembre 2020, il Dipartimento di Stato americano nutriva forti preoccupazioni per le posizioni filocinesi dell’esecutivo giallorosso.
D’altronde, al di là dell’intesa personale con l’allora premier italiano, l’endorsement dell’agosto 2019 non risultava forse troppo legato a una condivisione di linee politiche e ideologiche. Un’ipotesi era che Trump avesse voluto sdebitarsi, perché, secondo la Cnn, durante il G7 di Biarritz Conte aveva spalleggiato la sua richiesta di riammettere la Russia nel G8. Tuttavia, secondo altri, la gratitudine di Trump potrebbe essere legata ad altro: il riferimento è a un momento controverso nella storia dei rapporti tra i servizi segreti italiani e le autorità statunitensi.
È infatti noto che, il 15 agosto 2019, l’allora procuratore generale degli Usa, Bill Barr, si recò a Roma, per incontrare l’allora direttore del Dis, Gennaro Vecchione. Quella stessa sera si tenne anche una cena in un ristorante tra i due: cena, che ha suscitato non poche polemiche per l’irritualità della forma. Una seconda visita romana di Barr avvenne il successivo 27 settembre. Le ricerche del procuratore generale miravano a verificare la tesi, secondo cui l’Italia aveva preso parte a un complotto per impedire la vittoria di Trump nel 2016, quando a Palazzo Chigi risiedeva Matteo Renzi. In particolare, Barr puntava a ottenere delle informazioni sul misterioso professor Joseph Mifsud che, secondo questa tesi, aveva confezionato una polpetta avvelenata da fornire all’allora consigliere di Trump, George Papadopoulos, per collegare strumentalmente il team dello stesso Trump al Cremlino e favorire così la vulgata clintoniana del Russiagate (da lì l’apertura di un’inchiesta dell’Fbi). Alla luce di questo, Conte, che si era tenuto la delega ai servizi, è stato da più parti tacciato di aver fatto un uso troppo disinvolto dell’intelligence: un’accusa che il diretto interessato ha sempre respinto. Sulla «vicenda Barr» si mosse anche il Copasir, mentre è salita la tensione tra Renzi e lo stesso Conte. Un Conte che ieri è tornato sulla questione, annunciando una querela a La Repubblica per aver scritto che il nuovo endorsement di Trump sarebbe un ringraziamento per la sua «fedeltà» sul «caso Barr». «Se qualcuno si permette di dire che io non ho tutelato l’interesse nazionale, sarà chiamato a risponderne nelle sedi opportune, tanto più che anche il Copasir ha certificato la mia estrema correttezza», ha detto l’ex premier che non hai spiegato l’irritualità degli incontri contestati ma che ieri si è irritato per le parole di Enrico Letta. «Immagino che Conte sia imbarazzato dalle parole di Trump», ha affermato. «Io fiero di essere dall’altra parte».
Grillo rispolvera l’odio per i Giochi
È decisamente entrato nella macchina del tempo, il garante del M5s, Beppe Grillo. Una macchina che lo ha fatto riemergere da un silenzio di tomba che durava da settimane (dal braccio di ferro contro Giuseppe Conte sul secondo mandato, per la precisione) e che ha riportato la tribù pentastellata a una decina di anni fa. All’epoca dei referendum sull’acqua pubblica e delle battaglie integraliste all’insegna della cosiddetta «decrescita felice». Una di queste fu l’avversione totale ai Giochi olimpici, che fece perdere alla Capitale, in nome del dogma ultra-ambientalista, un’assegnazione per l’anno 2024 ormai praticamente acquisita dal parte del Cio, respinta al mittente dall’allora neosindaca Virginia Raggi. Per Roma, inutile dirlo, l’appuntamento mancato ha significato un’occasione persa per il rilancio della città e del suo prestigio sul piano internazionale, nonché l’accelerazione di un declino che pare ormai irreversibile.
Ebbene, pensando che la bandiera vetero-ambientalista possa essere ancora redditizia a livello elettorale, ieri sul suo blog Grillo ha fatto tabula rasa di una legislatura al governo dei suoi e con un post pubblicato sul suo blog a firma della senatrice del Movimento, Orietta Vanin, ha puntato il dito sui Giochi invernali di Milano-Cortina 2026. Il titolo dell’articolo è di per sé già evocativo, poiché afferma che si tratta di «Olimpiadi del cemento» invece che Olimpiadi sostenibili, come invece erano state promesse dagli organizzatori: «Un po' alla volta e quasi in sordina», si legge nel post, «si è assistito (soprattutto durante il governo Draghi) a leggi e decreti-legge che hanno portato l’importo economico a carico dello Stato a oltre 2 miliardi e a un progressivo ampliarsi degli interventi di nuova edificazione». La senatrice se la prende in primis contro la pericolosissima nuova pista da bob di Cortina d’Ampezzo, quindi contro la temibile copertura dell’impianto per il pattinaggio di velocità di Baselga di Pinè, per non parlare delle minacce all’ambiente rappresentate dal «palazzetto dello sport Palaitalia nel quartiere milanese di Santa Giulia» e dell’«ampliamento di due bacini artificiali a Cortina per produrre neve da sparare sulle piste».
Non pago, Grillo ha poi voluto ribadire il concetto di persona su Twitter, condividendo il post della senatrice e scrivendo che «i Giochi Olimpici invernali, decantati come “Olimpiadi green” e “low cost”, di green e di low cost hanno ben poco: nuove edificazioni con forte impatto ambientale e un costo a carico dello Stato di oltre 2 miliardi di euro! Ecco», ha concluso per la gioia di no-Tav e similari, «le Olimpiadi del cemento!». A completare la sua giornata sopra le righe, l’Elevato ha pubblicato un’immagine in cui appare nelle vesti dell’Eroe dei due mondi Giuseppe Garibaldi e prende a prestito le parole usate dal Generale nel 1874 per lanciare, dal suo ritiro nell’isola di Caprera, un appello al buon voto per gli elettori italiani.
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Quello a Giuseppe Conte appare più un attestato di simpatia personale che un endorsement politico. Come ai tempi delle polemiche sul viaggio a Roma di Barr e i rapporti con i Servizi. Enrico Letta punzecchia l’ex premier che replica.Beppe Grillo rispolvera l’odio per i Giochi. Il garante del M5s, che con Virginia Raggi fece fallire l’assegnazione a Roma 2024, sventola la bandiera vetero ambientalista contro Milano-Cortina: «Olimpiadi del cemento».Lo speciale comprende due articoli. Trump tifa per Giuseppe Conte? Così qualcuno dice, anche se la situazione potrebbe rivelarsi un po’ diversa da come appare. Tutto nasce da un articolo di La Repubblica. Il quotidiano italiano ha intercettato l’ex presidente americano durante un evento elettorale in New Jersey. Rispondendo fugacemente a una domanda sulle elezioni italiane del 25 settembre, il magnate ha dichiarato: «Ho visto, ho visto. Come sta andando il mio ragazzo?». Un riferimento, questo, a Conte. «Giuseppe, sì, Giuseppe. Ho lavorato bene con lui, spero che faccia bene», ha proseguito Donald Trump. Invece, secondo Repubblica, l’ex inquilino della Casa Bianca si sarebbe mostrato disinteressato a Matteo Salvini. «Non lo so, non lo so. Però Conte è davvero una gran brava persona», ha detto, rispondendo a una domanda sul leader leghista. L’ex premier ha colto la palla al balzo, sostenendo che le parole di Trump dimostrerebbero l’infondatezza delle accuse di chi gli dà del filorusso.Diciamocelo: da queste fugaci risposte sembra proprio che Trump non sia particolarmente informato (né forse interessato) alla campagna elettorale italiana. Quello a Conte pare tra l’altro più un attestato di simpatia personale che un endorsement politico: una situazione, quindi, ben differente da quel fatidico 27 agosto 2019, quando - nel pieno della crisi di governo italiana - l’allora presidente americano postò il famoso tweet in cui sperava che «Giuseppi» sarebbe rimasto premier. Un endorsement, quello, che in un certo senso favorì la permanenza a Palazzo Chigi di Conte. Dall’altra parte, Trump è sempre apparso restio ad intromettersi nella politica interna degli altri Paesi. E non è affatto detto che abbia percepito il senso politico del camaleontico passaggio dal Conte I al Conte II. Anche perché va ricordato che, a luglio 2018, Trump aveva elogiato il governo italiano per la sua stretta sull’immigrazione clandestina. «Sono molto d’accordo con quello che state facendo riguardo a migrazione, immigrazione clandestina, e anche immigrazione legale», aveva detto a Conte, per poi aggiungere: «L’Italia ha preso una posizione molto ferma alla frontiera, una posizione che pochi Paesi hanno preso e, francamente, secondo me state facendo la cosa giusta». Ora, quella stretta migratoria era stata attuata da Salvini al Viminale, per poi finire cassata da Luciana Lamorgese nell’esecutivo giallorosso, nato il 5 settembre 2019. Questo dimostra come Trump non avesse granché chiaro il senso politico del passaggio dal Conte I al Conte II. Né la sua amministrazione mostrò di amare il secondo governo dell’«avvocato del popolo»: fonti qualificate hanno infatti riferito alla Verità che, nel settembre 2020, il Dipartimento di Stato americano nutriva forti preoccupazioni per le posizioni filocinesi dell’esecutivo giallorosso. D’altronde, al di là dell’intesa personale con l’allora premier italiano, l’endorsement dell’agosto 2019 non risultava forse troppo legato a una condivisione di linee politiche e ideologiche. Un’ipotesi era che Trump avesse voluto sdebitarsi, perché, secondo la Cnn, durante il G7 di Biarritz Conte aveva spalleggiato la sua richiesta di riammettere la Russia nel G8. Tuttavia, secondo altri, la gratitudine di Trump potrebbe essere legata ad altro: il riferimento è a un momento controverso nella storia dei rapporti tra i servizi segreti italiani e le autorità statunitensi. È infatti noto che, il 15 agosto 2019, l’allora procuratore generale degli Usa, Bill Barr, si recò a Roma, per incontrare l’allora direttore del Dis, Gennaro Vecchione. Quella stessa sera si tenne anche una cena in un ristorante tra i due: cena, che ha suscitato non poche polemiche per l’irritualità della forma. Una seconda visita romana di Barr avvenne il successivo 27 settembre. Le ricerche del procuratore generale miravano a verificare la tesi, secondo cui l’Italia aveva preso parte a un complotto per impedire la vittoria di Trump nel 2016, quando a Palazzo Chigi risiedeva Matteo Renzi. In particolare, Barr puntava a ottenere delle informazioni sul misterioso professor Joseph Mifsud che, secondo questa tesi, aveva confezionato una polpetta avvelenata da fornire all’allora consigliere di Trump, George Papadopoulos, per collegare strumentalmente il team dello stesso Trump al Cremlino e favorire così la vulgata clintoniana del Russiagate (da lì l’apertura di un’inchiesta dell’Fbi). Alla luce di questo, Conte, che si era tenuto la delega ai servizi, è stato da più parti tacciato di aver fatto un uso troppo disinvolto dell’intelligence: un’accusa che il diretto interessato ha sempre respinto. Sulla «vicenda Barr» si mosse anche il Copasir, mentre è salita la tensione tra Renzi e lo stesso Conte. Un Conte che ieri è tornato sulla questione, annunciando una querela a La Repubblica per aver scritto che il nuovo endorsement di Trump sarebbe un ringraziamento per la sua «fedeltà» sul «caso Barr». «Se qualcuno si permette di dire che io non ho tutelato l’interesse nazionale, sarà chiamato a risponderne nelle sedi opportune, tanto più che anche il Copasir ha certificato la mia estrema correttezza», ha detto l’ex premier che non hai spiegato l’irritualità degli incontri contestati ma che ieri si è irritato per le parole di Enrico Letta. «Immagino che Conte sia imbarazzato dalle parole di Trump», ha affermato. «Io fiero di essere dall’altra parte». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/un-nuovo-evviva-di-trump-a-giuseppi-rispolvera-lanomala-delega-ai-servizi-2658153055.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="grillo-rispolvera-lodio-per-i-giochi" data-post-id="2658153055" data-published-at="1662491720" data-use-pagination="False"> Grillo rispolvera l’odio per i Giochi È decisamente entrato nella macchina del tempo, il garante del M5s, Beppe Grillo. Una macchina che lo ha fatto riemergere da un silenzio di tomba che durava da settimane (dal braccio di ferro contro Giuseppe Conte sul secondo mandato, per la precisione) e che ha riportato la tribù pentastellata a una decina di anni fa. All’epoca dei referendum sull’acqua pubblica e delle battaglie integraliste all’insegna della cosiddetta «decrescita felice». Una di queste fu l’avversione totale ai Giochi olimpici, che fece perdere alla Capitale, in nome del dogma ultra-ambientalista, un’assegnazione per l’anno 2024 ormai praticamente acquisita dal parte del Cio, respinta al mittente dall’allora neosindaca Virginia Raggi. Per Roma, inutile dirlo, l’appuntamento mancato ha significato un’occasione persa per il rilancio della città e del suo prestigio sul piano internazionale, nonché l’accelerazione di un declino che pare ormai irreversibile. Ebbene, pensando che la bandiera vetero-ambientalista possa essere ancora redditizia a livello elettorale, ieri sul suo blog Grillo ha fatto tabula rasa di una legislatura al governo dei suoi e con un post pubblicato sul suo blog a firma della senatrice del Movimento, Orietta Vanin, ha puntato il dito sui Giochi invernali di Milano-Cortina 2026. Il titolo dell’articolo è di per sé già evocativo, poiché afferma che si tratta di «Olimpiadi del cemento» invece che Olimpiadi sostenibili, come invece erano state promesse dagli organizzatori: «Un po' alla volta e quasi in sordina», si legge nel post, «si è assistito (soprattutto durante il governo Draghi) a leggi e decreti-legge che hanno portato l’importo economico a carico dello Stato a oltre 2 miliardi e a un progressivo ampliarsi degli interventi di nuova edificazione». La senatrice se la prende in primis contro la pericolosissima nuova pista da bob di Cortina d’Ampezzo, quindi contro la temibile copertura dell’impianto per il pattinaggio di velocità di Baselga di Pinè, per non parlare delle minacce all’ambiente rappresentate dal «palazzetto dello sport Palaitalia nel quartiere milanese di Santa Giulia» e dell’«ampliamento di due bacini artificiali a Cortina per produrre neve da sparare sulle piste». Non pago, Grillo ha poi voluto ribadire il concetto di persona su Twitter, condividendo il post della senatrice e scrivendo che «i Giochi Olimpici invernali, decantati come “Olimpiadi green” e “low cost”, di green e di low cost hanno ben poco: nuove edificazioni con forte impatto ambientale e un costo a carico dello Stato di oltre 2 miliardi di euro! Ecco», ha concluso per la gioia di no-Tav e similari, «le Olimpiadi del cemento!». A completare la sua giornata sopra le righe, l’Elevato ha pubblicato un’immagine in cui appare nelle vesti dell’Eroe dei due mondi Giuseppe Garibaldi e prende a prestito le parole usate dal Generale nel 1874 per lanciare, dal suo ritiro nell’isola di Caprera, un appello al buon voto per gli elettori italiani.
Getty Images
Le macchine che incroci per le strade della capitale portano sulle fiancate dei grandi fiocchi gialli per non dimenticare le 251 persone rapite da Hamas. Il 7 ottobre del 2023 è stato uno spartiacque. È il nuovo prima e dopo Cristo per Israele. E pure per la Palestina.
Gerusalemme arranca. I turisti sono pochi nonostante si stia avvicinando il Natale. I controlli moltiplicati. Lungo la via dolorosa, quella che Cristo fece portando la croce, i militari israeliani scrutano con attenzione chiunque gli si pari davanti. Del resto, non lontano da qui, sono stati ammazzati Adiel Kolman e Aharon Bennett. Basta un coltello per togliere la vita.
Dal 1948, arabi e israeliani hanno sempre faticato a convivere. Ogni parte voleva prevalere sull’altra. «Facci caso» - ci racconta Omar, un ortodosso - «non vedrai mai un ebreo e un mussulmano insieme. Se mai dovessi vederli è perché accanto a loro c’è anche un cristiano». E pare proprio così, soprattutto a Betlemme, che torna a festeggiare il Natale dopo due anni di buio. Ne ha parecchio bisogno la città del pane. La disoccupazione, ci racconta una ragazza, è ormai arrivata all’82%. Un dramma nel dramma. L’acqua è contingentata, come dimostrano le grandi cisterne installate sopra le case. Bisogna raccoglierne il più possibile perché non è detto che domani, o dopo, ci sarà.
Alla polizia turistica non sembra vero di vedere degli stranieri. «Prego, prego», si affrettano a dire, indicando la catena che ci separa dalla chiesa della Natività che, insieme a quella del Santo sepolcro, racchiude la nascita, la morte e la resurrezione di Gesù. Ci invita a scavalcarla. Le regole vanno infrante. Ci sono dei turisti e devono essere trattati bene. Meglio ancora quando viene a sapere che siamo giornalisti: «Dite che Betlemme continua a vivere», si raccomanda. Poco più in là, un gigantesco albero di Natale illumina la piazza. Sotto di lui un presepio dai colori sgargianti. È semplice ma c’è tutto: Gesù, che è già arrivato, Maria, Giuseppe, e pure i re Magi, che a quanto pare non possono permettersi il lusso di essere fermati da un’altra guerra. Meglio portarsi avanti ed essere lì ad adorare il Bambinello.
È ormai sera inoltrata. Arrivare a Betlemme non è stato semplice. Il checkpoint principale, quello che permette alle macchine dirette in Cisgiordania di defluire più facilmente, era chiuso. Bisogna fare un giro più largo, quindi. Sono già passate le 9 di sera, eppure la piazza è piena. Ci sono famiglie, bambini che giocano a pallone. Un ragazzo ci ferma e ci spiega come per lui il Natale sia innanzitutto dolcezza. Un altro, invece, ci spiega che è musulmano ma che anche per lui questa festa rappresenta innanzitutto dolcezza e che la celebrerà. In piazza c’è perfino un Babbo Natale che cerca di vendere cappellini e palloncini per bambini. È emozionato. Non faceva più questo lavoro da anni. Ed eccolo lì con il suo pancione fuori misura (ma neanche troppo visto che il cibo qui a volte scarseggia) e la voglia di far felici gli altri: «Siete tutti benvenuti a Betlemme, tutto il mondo deve venire qui».
Non è facile però. Come ci spiega un ex diplomatico dell’autorità palestinese che ha trattato a lungo i negoziati con Israele, «il 7 ottobre ha cambiato tutto, da una parte e dall’altra. La soluzione dei due Stati, che già prima era difficile da realizzare, ora è impossibile. Israele si è spostata molto a destra e quello che era il pensiero di pochi è oggi diventato il pensiero di tanti. Allo stesso tempo, però, né Hamas né l’autorità palestinese rappresentano un’alternativa valida per noi». Quale sia l’alternativa, però, non si sa. Si vive sospesi. Come se qualcosa di nuovo e tremendo dovesse accadere ancora. I coloni, a Gerusalemme Est, continuano a occupare le case dei palestinesi. E pure in Cisgiordania. La convivenza pare una chimera. Ma poi ci tornano in mente le parole di Omar: «Se c’è un cristiano, allora è possibile». Come a Betlemme, del resto.
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Che cosa dice la proposta incardinata alla Camera? Innanzitutto che chi vuole amministrare un condominio deve avere una laurea. Non è chiaro se questo preluda all’istituzione di percorsi di studi universitari con specializzazione nella gestione di condomini, sta di fatto che, se si ha un diploma senza essere iscritto a un albo, ordine o collegi di area economica, giuridica o tecnica (cioè se non si è geometra, perito industriale o ragioniere), non si potrà più amministrare un condominio. Fin qui passi, anche se ogni tanto si discute dell’abolizione del valore legale della laurea, si capisce la ratio della norma che si vuole introdurre, per evitare pasticci nella tenuta dei conti. Viene, poi, il rinnovo automatico del professionista incaricato a meno che l’assemblea non decida diversamente, così da evitare pericolosi stalli in cui chi deve occuparsi della gestione non ha un mandato e deve operare solo per l’ordinaria amministrazione.
Però, poi, ci sono un paio di novità che rischiano di trasformarsi in un salasso per moltissime famiglie. La prima riguarda i morosi, cioè quelli che non pagano le spese condominiali. Invece di rendere più spedite le esecuzioni nei loro confronti, la legge concede loro più tempo. Non solo: se un proprietario di casa non paga, per esempio le spese di manutenzione già eseguite o l’erogazione del gas che pro quota gli compete, i fornitori - cioè, manutentori e gestori - potranno rivalersi non soltanto sul condomino moroso, ma anche sul condominio e - soprattutto - sui proprietari che sono in regola con le spese. In pratica, i furbi la faranno franca perché basterà farsi trovare con il conto corrente prosciugato per non sborsare un euro. Gli onesti, invece, rischiano di dover pagare anche per i disonesti. Infatti, se passa il disegno di legge, in caso di mancato pagamento il fornitore potrà attingere direttamente al conto corrente condominiale e, poi, potrà pretendere che sia chi è in regola a saldare i conti. Una follia che sicuramente farà felici i fornitori mentre renderà furiosi i proprietari di casa che sono alle prese con vicini con forti arretrati nel versamento delle spese condominiali.
Non è finita. La proposta di legge include anche un’idea che sicuramente si trasformerà in una spesa in più per i condomini più grandi. Infatti, la legge introdurrebbe l’obbligo di nominare un revisore dei conti nei palazzi con più di venti appartamenti, poi la sicurezza delle parti comuni dovrà essere attestata da una società specializzata e l’amministratore potrà ordinare la messa a norma a prescindere dalle decisioni dell’assemblea. Non vi sfuggirà che sia il revisore sia il certificatore della sicurezza non lavoreranno gratis e, dunque, i condomini dovranno mettere mano al portafogli.
Intendiamoci, capisco le ragioni delle norme che si vogliono introdurre per fare in modo che gli edifici abbiano impianti in regola. E comprendo anche i controlli sul bilancio da parte di un professionista esterno, per evitare che l’amministratore faccia il furbo o scappi con la cassa. Tuttavia, poi, bisogna anche badare ai bilanci delle famiglie, già gravati da un’infinità di gabelle. In particolare, c’è da comprendere che, se un condomino non paga, non vanno penalizzati i vicini in regola: semmai si può disporre il pignoramento veloce dell’immobile posseduto dal furbo, disposizioni già adottate in altri Paesi, come Stati Uniti e Francia, con addirittura la messa in vendita dell’alloggio. Vedrete che i disonesti avranno meno voglia di sottrarsi al pagamento delle spese condominiali. Senza gravare sulle spalle degli onesti.
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Fabien Mandon (Getty Images)
Ai generaloni prudono le mani. Uno dopo l’altro, infatti, si lasciano andare a dichiarazioni da cui traspare che non vedono l’ora di entrare in guerra. Ha cominciato Fabien Mandon, nuovo capo di Stato maggiore francese, che durante un incontro con l’assemblea dei sindaci transalpini ha detto senza alcuna perifrasi che «il Paese deve prepararsi a perdere i suoi figli» in un eventuale conflitto con la Russia. Ha proseguito l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato militare della Nato che, in un’intervista al Financial Times, ha invece svelato i piani degli alti papaveri dell’Alleanza atlantica: «Stiamo studiando tutto… Finora siamo stati piuttosto reattivi. Diventare più aggressivi, passare da una postura reattiva a una proattiva è qualcosa a cui stiamo pensando». In pratica l’alto ufficiale ha voluto chiarire cosa bolle in pentola nel comando Nato, ovvero un attacco preventivo alla Russia, dicendo che si tratterebbe di una «forma di azione difensiva», che tuttavia, a prescindere da come la si chiami, equivarrebbe all’entrata in guerra contro Mosca.
Poi, dopo il francese e l’italiano, l’altro ieri è arrivato il capo di Stato maggiore britannico, Richard Knighton, che in un discorso tenuto al Royal United Services Institute, celebre think tank del settore difesa, ha invitato a tenersi pronti e a prepararsi a costruire, servire e se necessario a combattere. E visto che a Natale tutti sono portati a far festa, già che c’era ha aggiunto una pessimistica previsione: «Sempre più famiglie comprenderanno cosa significa il sacrificio per la nostra nazione». In altre parole, Knighton ha ripetuto quanto annunciato dal collega francese: preparatevi a perdere i vostri figli.
Ovviamente capisco che, se un militare si è allenato per una vita a combattere, non veda l’ora di entrare in azione, soprattutto se il suo destino non è di finire in prima linea, ma di sedere comodo dietro una scrivania a giocare ai soldatini, spostando truppe, studiando strategie, pianificando avanzate e controffensive. Comprendo perfino che dopo quasi quattro anni di guerra alle porte dell’Europa qualcuno non stia più nella pelle per la voglia di scendere in campo e guadagnare una medaglia. Tuttavia, questa frenesia per il conflitto pone alcuni problemi pratici. Il primo, per quanto ci riguarda, è costituzionale. Nella Carta su cui si fonda la nostra Repubblica c’è scritto che l’Italia ripudia la guerra come soluzione delle diatribe fra Stati. Non so se l’ammiraglio Cavo Dragone, che parla di attacco preventivo alla Russia, si è posto il problema: ma qualsiasi decisione non compete né a lui né alla Nato ma al Parlamento. So bene che ai tempi di Massimo D’Alema, al cui fianco sedeva Sergio Mattarella, se ne infischiarono delle Camere e spedirono i caccia italiani a bombardare Belgrado, ma aver violato la Costituzione una volta non significa essere autorizzati a violarla una seconda, soprattutto se non si perde occasione per appellarsi ai valori fondativi della Repubblica.
Il secondo problema riguarda il popolo italiano, che sempre da Costituzione è il vero sovrano del Paese. Qualcuno ha intenzione di informarlo che i generaloni sono pronti alla guerra? Chi si prende il compito di spiegare che manderemo i nostri figli a morire e che le nostre città potrebbero essere devastate dalle bombe di Putin come da tre anni e mezzo sono devastate quelle ucraine? L’America fu costretta a ritirarsi dal Vietnam, ponendo fine al conflitto, perché l’opinione pubblica non era in grado di sopportare le immagini delle bare avvolte nella bandiera a stelle e strisce. Qualcuno pensa che gli italiani, di fronte ai primi morti, chineranno il capo invece di inseguire con i forconi i generali che li hanno portati in guerra? Beh, temo che si sbagli.
Una cosa però mi incuriosisce ed è la coincidenza delle dichiarazioni di alti ufficiali nei giorni in cui si parla con sempre maggior intensità di pace. Più si apre qualche spiraglio per una tregua e più gli alti gradi delle forze armate europee, con le loro lugubri previsioni, sembrano tifare guerra. Oddio, non ci sono solo i militari, anche qualche politico pare sensibile all’argomento. Prendete Ursula von der Leyen. Ha detto che «la pace di ieri è finita. Non abbiamo tempo per indulgere nella nostalgia. Ciò che conta è come affrontiamo l'oggi». Già me la vedo la generalessa al comando delle Sturmtruppen europee. Forse, visto che le sue quotazioni sono in calo in tutta Europa, sogna di risollevarsi come fece la Thatcher, che risalì nei consensi quando mandò le navi britanniche a riprendersi le Falkland. Purtroppo, non soltanto la baronessa non è la Lady di ferro, ma la Russia non è l’Argentina e a giocare con il fuoco si rischia di scottarsi. Anzi, rischiamo noi di scottarci ed è una prospettiva su cui credo che la maggioranza degli italiani abbia le idee chiare. Non finiremo al fronte, né in miseria, per assecondare la voglia di guerra di quattro generali e di quattro politici in cerca di gloria.
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Vladimir Putin (Ansa)
Di tutt’altro tenore è invece la sua posizione nei confronti del presidente americano, Donald Trump: affermando di essere «in dialogo» con l’amministrazione Trump per le trattative, ha precisato che Mosca «accoglie con favore i progressi compiuti» nel dialogo tra Cremlino e Casa Bianca.
Sulle conquiste territoriali lo zar si è mostrato fiducioso, con le truppe che «avanzano con sicurezza e schiacciano il nemico». Ha quindi annunciato che quest’anno rappresenta «la pietra miliare per il raggiungimento degli obiettivi dell’operazione militare speciale», visto che sono stati «liberati» più di 300 insediamenti. L’avanzata è evidente: Mosca ha comunicato di aver preso il controllo della città di Kupyansk. E secondo il comandante in capo delle forze armate ucraine, Oleksandr Syrsky, sta preparando un’altra offensiva con 710.000 soldati russi.
La reazione del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, non è tardata ad arrivare. Pare convinto che la guerra continuerà anche nel 2026: «Oggi abbiamo ricevuto da Mosca ulteriori segnali che indicano che il prossimo sarà un anno di guerra. E questi segnali non sono solo per noi. È importante che i partner lo vedano. Ed è importante che non solo lo vedano, ma che reagiscano, in particolare i partner negli Usa, che spesso dicono che la Russia sembra voler porre fine alla guerra».
In ogni caso, le trattative proseguono, con Mosca che attende di essere informata sull’esito dei summit di Berlino. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, pur spiegando che non è in programma la visita dell’inviato americano, Steve Witkoff, ha dichiarato: «Ci aspettiamo che i nostri omologhi statunitensi ci informino sui risultati del loro lavoro con gli ucraini e gli europei quando saranno pronti».
Ma mentre la Russia attende le comunicazioni da parte della delegazione americana, sono intanto trapelate sul New York Times e su Bloomberg alcune indiscrezioni sulle iniziative occidentali. Secondo il quotidiano statunitense, a Berlino i funzionari americani ed europei hanno raggiunto un accordo su due documenti inerenti alle garanzie di sicurezza per l’Ucraina in cui si prevede un rafforzamento importante delle forze armate ucraine, oltre allo schieramento di truppe europee e un uso maggiore dell’intelligence americana. Il primo documento annuncia i principi generali, il secondo è un «documento operativo mil-to-mil», ovvero da forze armate a forze armate. Bloomberg ha invece rivelato che gli Usa stanno «preparando un nuovo ciclo di sanzioni contro il settore energetico russo» con lo scopo di aumentare la pressione su Putin, qualora non accettasse l’accordo di pace. Il Cremlino non ha commentato le rivelazioni sulle garanzie di sicurezza, ma è intervenuto subito sulle sanzioni, sostenendo che potrebbero «nuocere al miglioramento delle relazioni tra i due Paesi».
A riconoscere che le trattative di pace sono «complesse» è il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: «Le pretese irragionevoli» russe, soprattutto «sulla porzione di Donbass non conquistata» da Mosca, sono «lo scoglio» più difficile da superare. Parlando alla Camera ha colto l’occasione per ripetere che «l’Italia non intende inviare soldati in Ucraina», anche perché «l’ipotesi di dispiegamento di una forza multinazionale in Ucraina» prevede «la partecipazione volontaria». La linea italiana resta quella di «non abbandonare l’Ucraina al suo destino nella fase più delicata degli ultimi anni». Al contrario di Meloni, il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, è stato piuttosto vago sull’invio di soldati tedeschi nella cornice di una forza multinazionale, limitandosi a dire che la Coalizione dei volenterosi non include solamente gli Stati europei.
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