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2019-07-18
Un altro supercolpo degli eroi proletari che sfidano il potere
Nefliix
Centoquaranta milioni di euro, sparsi nel cielo sopra Madrid, così che il caos paralizzi la città. A due anni dal colpo alla Zecca di Stato, è un dirigibile carico di denaro, tagli piccoli, per lo più, qualche moneta, a riportare in Spagna «la banda»: quel gruppo mal assortito, di criminali nascosti dietro la faccia di Salvador Dalì e il nome di una metropoli internazionale. Denver, Rio, Tokyo, Nairobi, Helsinki, Stoccolma. Furfanti raccattati tra i sobborghi iberici, poi istruiti dal Professore perché, insieme, realizzassero la più grande beffa ai danni dello Stato spagnolo che la storia ricordi. La banda, che sui banchi di scuola, davanti a una lavagna e a un gessetto bianco, ha imparato l'arte della coesione, s'è infiltrata nella Real Casa de la Moneda e, nelle due parti de La Casa di Carta che Netflix ha rilasciato negli anni passati, è riuscita ad uscirsene con le tasche piene di denaro contante. La serie televisiva avrebbe dovuto finire lì, nella fuga, a tratti dolorosa, di chi all'assedio è sopravvissuto. Nella scomparsa dei Robin Hood in tuta rossa. Nella sconfitta del potere costituito. Invece, la piattaforma streaming ha brigato per confezionare una terza parte della serie spagnola, la più vista tra le produzioni in lingua non inglese.
La Casa di Carta, parte 3, non ha nulla a che vedere con il sogno, romantico, di una fuga in paradiso. Piuttosto, racconta quel che in paradiso accade quando la perfezione viene a noia e le bianche spiagge dei Caraibi, la sabbia del golfo de Guna Yala assumono le fattezze di una prigione. Tokyo (Úrsula Corberó), che per le isolette di fronte a Panama era partita insieme al fidanzato, Rio (Miguel Herrán), finisce per «addentare la mela», scatenando una crisi internazionale che, nella primissima puntata della serie, su Netflix da domani, porta all'arresto del ragazzo. Rio sparisce, inghiottito da una motovedetta panamense, mentre Tokyo scappa lontano. Scappa in Colombia, in Tailandia. Scappa dal Professore (Álvaro Morte) che, in poche ore, chiama a raduno la banda. I criminali, che il popolo spagnolo ha imparato a osannare come eroi proletari, decidono per un ultimo colpo. Non più la Zecca, ma la Banca di Spagna, l'oro, perché le autorità calino la maschera e restituiscano Rio, sbattuto chissà dove tra Guantánamo e i luoghi della tortura, alla prigionia tradizionale che il rispetto della legge dovrebbe garantirgli. La Casa di Carta 3, dunque, è un atto di sfida, una guerra tra cattivi assurti a buoni e buoni che diventano cattivi. È la moralità che si fa fluida, ambigua, com'è stata in passato in serie divenute cult (da Prison Break a Breaking Bad).
Lo schema è lo stesso di sempre, e così pure i personaggi, ai quali si aggiunge, nella terza parte della serie spagnola, Palermo (Rodrigo de la Serna), un uomo eccentrico, mente del nuovo piano, Bogotà (Hovik Keuchkerian), un saldatore con lo spirito di un dongiovanni, poi Marsiglia, con il viso austero del croato Luka Peroš. Quale ruolo sia stato affidato a Peroš non è chiaro. Il croato, con i baffi biondi e i capelli alle spalle, è un uomo di poche parole. «No spoiler», dice, quando interrogato sul suo Marsiglia. Il silenzio è netto, spesso. Eppure, l'attore, che nella serie si doppia da sé («Parlo cinque lingue», spiega), è l'unico in grado di dare una ragione al successo de La Casa di Carta: «sofferenza».
«Credo che la gente abbia bisogno di eroi. Credo che voglia un Robin Hood, qualcuno che si batta per lei», dice, «Viviamo in un'epoca in cui è l'insofferenza a regnare sovrana. Le persone sono stufe, stanche della politica, delle grandi banche. Sono stanche delle promesse fatte e mai mantenute, stanche dei ricchi, sempre più ricchi, e di una classe media ridotta ai minimi termini. Viviamo in un'epoca in cui si è sempre più poveri, un'epoca in cui la tecnologia avvolge e annebbia tutto, specie la conoscenza». La Casa di Carta, perciò, sarebbe diventata metafora di quello che può il singolo, l'emarginato, il povero. Ma il significato politico, quello in nome del quale la maschera di Dalì, con il corredo della tuta rossa, ha invaso gli stadi e le piazze, non è cercato ad hoc. «Questo, semplicemente, si è rivelato il momento buono perché la serie attecchisse», spiega Stoccolma (Esther Acebo), lasciando le polemiche a Peroš.
La Casa di Carta, di cui Netflix, di fronte a Palazzo Mezzanotte, a Milano, ha organizzato per questa sera un'anteprima aperta a tutti, fino a esaurimento posti, ha suscitato il malcontento dei partigiani. Bella ciao, canto della resistenza italiana, è fatto proprio dalla banda, che, nelle due parti passate, l'ha intonata di tanto in tanto, alla stregua di un mantra motivazionale. «Bella ciao non ha un significato unicamente italiano. Non ho capito granché di questa polemica, ma credo che ovunque questo canto abbia un significato forte. In Italia, come in altri Paesi, è il simbolo della lotta antifascista. Nel mio Paese, nell'ex Jugoslavia, ha tutt'altro significato. Là, i partigiani non piacevano: comunisti, venivano chiamati».
«Tokyo è una donna forte, non un’eroina femminista»
«Avevo cinque anni, quando ho comunicato ai miei genitori che avrei fatto l'attrice. Chissà quante bambine, a quell'età, hanno sogni simili». Úrsula Corberó sorride appena mentre, seduta composta, con la minigonna in pelle nera e i tacchi a spillo, riporta la mente ai giorni dell'infanzia. «Se c'è qualcuno cui devo dire grazie, sono i miei genitori: mio padre falegname e mia madre, disposta a tutto pur di vedermi riuscire». E quella loro caparbietà, infine, ha dato i frutti sperati.
Tokyo, la criminale eterea che Úrsula Corberó interpreta ne' La Casa di Carta, è divenuta un'icona internazionale: un'eroina femminista, malgrado l'etichetta, l'attrice, non l'abbia mai cercata. «È curioso», ammette, «La realtà è colma di donne forti. Eppure, le ragazze mi fermano per strada. Mi ringraziano, quasi come se le avessi liberate, come se le avessi aiutate a prendere coscienza di una forza che si portano dentro. Forse, queste donne andrebbero rappresentate più spesso, al cinema e in televisione».
Dunque, La Casa di Carta è una serie femminista, così come è stato detto, o non lo è?
«Non credo che questa sia una serie particolarmente femminista. Credo, però, che abbia in sé personaggi femminili molto forti. Ricordo di esserne rimasta stupita ad una prima lettura dei copioni».
Perché mai?
«Perché non è frequente che la fiction affidi a delle donne un ruolo che non sia esclusivamente di accompagnamento all'autorità maschile. La realtà è diversa. La realtà ha in sé tante donne forti. La Casa di Carta si limita a portare alla luce un aspetto del mondo».
Parte del pubblico, però, ha definito la serie «populista». Avreste cercato un successo facile…
«Credo che la serie si porti appresso un messaggio sociale e politico forte che, inevitabilmente, è destinato a suscitare polemiche. Racconta di persone semplici, senza alcun potere, capaci di sferrare allo Stato un colpo senza alcun precedente. Penso, però, che l'aspetto sociale, ne' La Casa di Carta, prevalga sull'aspetto politico: non siamo populisti, insegniamo che l'individuo, da solo, può poco. Dentro una banda coesa, può tutto».
La crisi economica non ha contribuito al successo della serie?
«Non credo. La Casa di Carta mette in scena personaggi estremamente vividi, realistici. Non sono caricature di criminali, ma esseri umani capaci di scatenare nel pubblico un immediato processo di identificazione. È la parabola degli ultimi a fare breccia».
A chi è ispirata la sua Tokyo?
«In parte, alla Mathilda di Natalie Portman in Léon. In parte, alla Mallory Knox di Natural Born Killers. Dal punto di vista fisico, abbiamo cercato di caratterizzarla guardando al passato. Io, però, non avevo alcuna intenzione di essere la copia di qualcun altro. Ho cercato la mia unicità».
E dove l'ha trovata?
«Nei capelli. Ho insistito con la produzione perché Tokyo li portasse corti, con una frangia che ne facesse uscire gli occhi ammalianti. Non volevano li tagliassi, ho fatto di testa mia».
La maschera di Dalì è stata usata in manifestazioni politiche vere. Si sarebbe mai aspettata di entrare a tal punto nell'immaginario collettivo?
«Mai. Non era affatto chiaro, per noi, quale ruolo avrebbe assunto la maschera. Io, però, quando la guardo, non vedo politica. Ne comprendo la portata sociale, ma dietro Dalì, dietro la tuta rossa, vedo la famiglia. È un po' come quando torni a casa e, sulle pareti, vedi un quadro che ti accompagnato sin dall'infanzia».
Cosa porterà la quarta parte de La Casa di Carta, già annunciata?
«Non farò alcuno spoiler».
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Domani al via su Netflix la terza parte della serie non in lingua inglese più vista di sempre. Con «Bella ciao» diventata una hit.L'attrice interpreta la criminale: «Non siamo populisti. Insegniamo che da soli si può far poco. Dentro una banda coesa, si può tutto».Lo speciale contiene due articoliCentoquaranta milioni di euro, sparsi nel cielo sopra Madrid, così che il caos paralizzi la città. A due anni dal colpo alla Zecca di Stato, è un dirigibile carico di denaro, tagli piccoli, per lo più, qualche moneta, a riportare in Spagna «la banda»: quel gruppo mal assortito, di criminali nascosti dietro la faccia di Salvador Dalì e il nome di una metropoli internazionale. Denver, Rio, Tokyo, Nairobi, Helsinki, Stoccolma. Furfanti raccattati tra i sobborghi iberici, poi istruiti dal Professore perché, insieme, realizzassero la più grande beffa ai danni dello Stato spagnolo che la storia ricordi. La banda, che sui banchi di scuola, davanti a una lavagna e a un gessetto bianco, ha imparato l'arte della coesione, s'è infiltrata nella Real Casa de la Moneda e, nelle due parti de La Casa di Carta che Netflix ha rilasciato negli anni passati, è riuscita ad uscirsene con le tasche piene di denaro contante. La serie televisiva avrebbe dovuto finire lì, nella fuga, a tratti dolorosa, di chi all'assedio è sopravvissuto. Nella scomparsa dei Robin Hood in tuta rossa. Nella sconfitta del potere costituito. Invece, la piattaforma streaming ha brigato per confezionare una terza parte della serie spagnola, la più vista tra le produzioni in lingua non inglese.La Casa di Carta, parte 3, non ha nulla a che vedere con il sogno, romantico, di una fuga in paradiso. Piuttosto, racconta quel che in paradiso accade quando la perfezione viene a noia e le bianche spiagge dei Caraibi, la sabbia del golfo de Guna Yala assumono le fattezze di una prigione. Tokyo (Úrsula Corberó), che per le isolette di fronte a Panama era partita insieme al fidanzato, Rio (Miguel Herrán), finisce per «addentare la mela», scatenando una crisi internazionale che, nella primissima puntata della serie, su Netflix da domani, porta all'arresto del ragazzo. Rio sparisce, inghiottito da una motovedetta panamense, mentre Tokyo scappa lontano. Scappa in Colombia, in Tailandia. Scappa dal Professore (Álvaro Morte) che, in poche ore, chiama a raduno la banda. I criminali, che il popolo spagnolo ha imparato a osannare come eroi proletari, decidono per un ultimo colpo. Non più la Zecca, ma la Banca di Spagna, l'oro, perché le autorità calino la maschera e restituiscano Rio, sbattuto chissà dove tra Guantánamo e i luoghi della tortura, alla prigionia tradizionale che il rispetto della legge dovrebbe garantirgli. La Casa di Carta 3, dunque, è un atto di sfida, una guerra tra cattivi assurti a buoni e buoni che diventano cattivi. È la moralità che si fa fluida, ambigua, com'è stata in passato in serie divenute cult (da Prison Break a Breaking Bad).Lo schema è lo stesso di sempre, e così pure i personaggi, ai quali si aggiunge, nella terza parte della serie spagnola, Palermo (Rodrigo de la Serna), un uomo eccentrico, mente del nuovo piano, Bogotà (Hovik Keuchkerian), un saldatore con lo spirito di un dongiovanni, poi Marsiglia, con il viso austero del croato Luka Peroš. Quale ruolo sia stato affidato a Peroš non è chiaro. Il croato, con i baffi biondi e i capelli alle spalle, è un uomo di poche parole. «No spoiler», dice, quando interrogato sul suo Marsiglia. Il silenzio è netto, spesso. Eppure, l'attore, che nella serie si doppia da sé («Parlo cinque lingue», spiega), è l'unico in grado di dare una ragione al successo de La Casa di Carta: «sofferenza».«Credo che la gente abbia bisogno di eroi. Credo che voglia un Robin Hood, qualcuno che si batta per lei», dice, «Viviamo in un'epoca in cui è l'insofferenza a regnare sovrana. Le persone sono stufe, stanche della politica, delle grandi banche. Sono stanche delle promesse fatte e mai mantenute, stanche dei ricchi, sempre più ricchi, e di una classe media ridotta ai minimi termini. Viviamo in un'epoca in cui si è sempre più poveri, un'epoca in cui la tecnologia avvolge e annebbia tutto, specie la conoscenza». La Casa di Carta, perciò, sarebbe diventata metafora di quello che può il singolo, l'emarginato, il povero. Ma il significato politico, quello in nome del quale la maschera di Dalì, con il corredo della tuta rossa, ha invaso gli stadi e le piazze, non è cercato ad hoc. «Questo, semplicemente, si è rivelato il momento buono perché la serie attecchisse», spiega Stoccolma (Esther Acebo), lasciando le polemiche a Peroš.La Casa di Carta, di cui Netflix, di fronte a Palazzo Mezzanotte, a Milano, ha organizzato per questa sera un'anteprima aperta a tutti, fino a esaurimento posti, ha suscitato il malcontento dei partigiani. Bella ciao, canto della resistenza italiana, è fatto proprio dalla banda, che, nelle due parti passate, l'ha intonata di tanto in tanto, alla stregua di un mantra motivazionale. «Bella ciao non ha un significato unicamente italiano. Non ho capito granché di questa polemica, ma credo che ovunque questo canto abbia un significato forte. In Italia, come in altri Paesi, è il simbolo della lotta antifascista. Nel mio Paese, nell'ex Jugoslavia, ha tutt'altro significato. Là, i partigiani non piacevano: comunisti, venivano chiamati».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/un-altro-supercolpo-degli-eroi-proletari-che-sfidano-il-potere-2639224094.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="tokyo-e-una-donna-forte-non-uneroina-femminista" data-post-id="2639224094" data-published-at="1766587469" data-use-pagination="False"> «Tokyo è una donna forte, non un’eroina femminista» «Avevo cinque anni, quando ho comunicato ai miei genitori che avrei fatto l'attrice. Chissà quante bambine, a quell'età, hanno sogni simili». Úrsula Corberó sorride appena mentre, seduta composta, con la minigonna in pelle nera e i tacchi a spillo, riporta la mente ai giorni dell'infanzia. «Se c'è qualcuno cui devo dire grazie, sono i miei genitori: mio padre falegname e mia madre, disposta a tutto pur di vedermi riuscire». E quella loro caparbietà, infine, ha dato i frutti sperati. Tokyo, la criminale eterea che Úrsula Corberó interpreta ne' La Casa di Carta, è divenuta un'icona internazionale: un'eroina femminista, malgrado l'etichetta, l'attrice, non l'abbia mai cercata. «È curioso», ammette, «La realtà è colma di donne forti. Eppure, le ragazze mi fermano per strada. Mi ringraziano, quasi come se le avessi liberate, come se le avessi aiutate a prendere coscienza di una forza che si portano dentro. Forse, queste donne andrebbero rappresentate più spesso, al cinema e in televisione». Dunque, La Casa di Carta è una serie femminista, così come è stato detto, o non lo è? «Non credo che questa sia una serie particolarmente femminista. Credo, però, che abbia in sé personaggi femminili molto forti. Ricordo di esserne rimasta stupita ad una prima lettura dei copioni». Perché mai? «Perché non è frequente che la fiction affidi a delle donne un ruolo che non sia esclusivamente di accompagnamento all'autorità maschile. La realtà è diversa. La realtà ha in sé tante donne forti. La Casa di Carta si limita a portare alla luce un aspetto del mondo». Parte del pubblico, però, ha definito la serie «populista». Avreste cercato un successo facile… «Credo che la serie si porti appresso un messaggio sociale e politico forte che, inevitabilmente, è destinato a suscitare polemiche. Racconta di persone semplici, senza alcun potere, capaci di sferrare allo Stato un colpo senza alcun precedente. Penso, però, che l'aspetto sociale, ne' La Casa di Carta, prevalga sull'aspetto politico: non siamo populisti, insegniamo che l'individuo, da solo, può poco. Dentro una banda coesa, può tutto». La crisi economica non ha contribuito al successo della serie? «Non credo. La Casa di Carta mette in scena personaggi estremamente vividi, realistici. Non sono caricature di criminali, ma esseri umani capaci di scatenare nel pubblico un immediato processo di identificazione. È la parabola degli ultimi a fare breccia». A chi è ispirata la sua Tokyo? «In parte, alla Mathilda di Natalie Portman in Léon. In parte, alla Mallory Knox di Natural Born Killers. Dal punto di vista fisico, abbiamo cercato di caratterizzarla guardando al passato. Io, però, non avevo alcuna intenzione di essere la copia di qualcun altro. Ho cercato la mia unicità». E dove l'ha trovata? «Nei capelli. Ho insistito con la produzione perché Tokyo li portasse corti, con una frangia che ne facesse uscire gli occhi ammalianti. Non volevano li tagliassi, ho fatto di testa mia». La maschera di Dalì è stata usata in manifestazioni politiche vere. Si sarebbe mai aspettata di entrare a tal punto nell'immaginario collettivo? «Mai. Non era affatto chiaro, per noi, quale ruolo avrebbe assunto la maschera. Io, però, quando la guardo, non vedo politica. Ne comprendo la portata sociale, ma dietro Dalì, dietro la tuta rossa, vedo la famiglia. È un po' come quando torni a casa e, sulle pareti, vedi un quadro che ti accompagnato sin dall'infanzia». Cosa porterà la quarta parte de La Casa di Carta, già annunciata? «Non farò alcuno spoiler».
La famiglia nel bosco non torna a casa per Natale e dovrà sottoporsi a una perizia psichiatrica: il tribunale decide di completare la rieducazione dei genitori. Ne parliamo con Luca Telese e Red Ronnie.
Emmanuel Macron (Ansa)
Framatome, sussidiaria dell’azienda di Stato transalpina Edf, utilizzerebbe componenti fornite da Tvel, che non sarebbe direttamente coinvolta nelle operazioni ma, appunto, consegnerebbe elementi essenziali alla produzione del combustibile. Il materiale fissile verrebbe impiegato da ben 19 reattori di era sovietica, sparsi in cinque Paesi membri dell’Ue in Europa orientale, oltre che da 15 reattori in Ucraina. Il tutto avviene proprio mentre Bruxelles, che ha rinnovato le sanzioni contro Mosca fino a luglio 2026, benché non abbia mai colpito il settore dell’atomo, si impegna a eliminare tutto il gas dello zar entro il 2027.
È proprio all’intento di rendere indipendente il Vecchio continente, che si stanno aggrappando i socialdemocratici tedeschi, alla guida del Länder interessato dal progetto, per frenare il sodalizio francorusso. «Un tempo, la Germania ha dato a Gazprom l’accesso a un’infrastruttura energetica critica nel sito di stoccaggio di Rehden», ha detto a Politico il ministro dell’Ambiente della Bassa Sassonia, Christian Meyer, dei Verdi. Berlino, in quel modo, «è diventata vulnerabile al ricatto, quando Putin ha chiuso il gasdotto durante la crisi» del 2021, allorché la società russa ridusse le forniture e il Cremlino spinse per la realizzazione del Nord Stream 2. Il timore è che, stavolta, Rosatom si impossessi di tecnologie sensibili e porti avanti attività di spionaggio. Framatome, invece, a Politico ha spiegato che solo con la collaborazione di Tvel si riuscirà ad arrivare a una «soluzione europea che sia al 100% sovrana». Utilizzare materiali russi per rendersi autonomi dal prodotto finito, che è sempre russo: per i francesi, non c’è alcun paradosso.
Lunedì, Gianluigi Paragone ha già illustrato, su queste colonne, la strategia di Emmanuel Macron, che dopo aver minacciato l’invio di truppe, ora vuol dialogare con Vladimir Putin. L’Ue, spiazzata, si è ritrovata pure costretta ad applaudire. Il punto è che in Europa continua ad arrivare petrolio russo attraverso le navi fantasma, ancorché bersagliate da Kiev; e a conflitto terminato, nel quadro dell’accordo sulle sfere di influenza tra Donald Trump e Vladimir Putin, congegnato dagli Usa anche per allentare i legami tra la Federazione e la Cina, potrebbero essere direttamente gli americani a rivenderci il greggio di Mosca, al triplo del prezzo di prima. Addirittura, ignorando i desiderata europei, la prima bozza di intesa con Washington prevedeva persino il ritorno del gas russo nel Vecchio continente.
L’inquilino dell’Eliseo - che ieri ha difeso la Groenlandia dalle mire della Casa Bianca - constata un dato di realtà. E con la spregiudicatezza che lo contraddistingue, prova a riprendere il filo del discorso con l’autocrate là dove si era interrotto: all’ultima visita al Cremlino, due settimane prima che cominciasse l’«operazione speciale», con i due presidenti seduti agli antipodi del tavolo lungo sei metri, realizzato da un’azienda di Cantù.
Che nell’intreccio sul nucleare sia coinvolta la Germania è un dato doppiamente interessante. Lo è perché il Paese è molto esposto sul fronte energetico, tanto che gli stoccaggi italiani hanno ormai superato quelli tedeschi: 77,3% di riempimento contro 61,1%, a fronte di un indice di riferimento Ue del 66,9%. E lo è perché la mossa del cavallo del leader più politicamente decotto d’Europa, attuata nel momento in cui i negoziati di Miami sono in stallo e il viceministro degli Esteri di Mosca ha rimandato a primavera il patto con gli Stati Uniti, scompagina il fronte dei volenterosi. All’indomani della frattura, in seno al Consiglio, sull’uso degli asset, favorita dalla rinnovata convergenza di Parigi con l’Italia di Giorgia Meloni.
Non è un mistero che Friederich Merz fosse, insieme a Ursula von der Leyen, il principale fautore della confisca dei fondi detenuti dalla belga Euroclear. E sulla stampa internazionale, dal Financial Times in giù, fioccano i retroscena sul fastidio del cancelliere per il «tradimento» di Macron, anche se, ufficialmente, Berlino si è trincerata dietro il no comment, come Roma e Londra. In Germania, poi, dev’esserci qualche amarezza per un’occasione sfumata: quella dei colloqui di pace nella capitale tra Usa, Unione europea, Nato, Ucraina e Russia, non più di dieci giorni fa.
Guarda caso, il ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, in un’intervista a Die Zeit, ha rovesciato la retorica apocalittico-bellicista, tanto di moda nel continente. A novembre, sosteneva che quella del 2025 sarebbe stata, probabilmente, «l’ultima estate di pace». Oggi sembra aver cambiato idea. Al segretario generale dell’Alleanza atlantica, Mark Rutte, il quale ha invitato i cittadini a prepararsi a un conflitto simile «a quelli di cui fecero esperienza i nostri nonni e i nostri bisnonni», Pistorius ha replicato: «Non credo in uno scenario del genere. A mio avviso, Putin non ha intenzione di iniziare una guerra mondiale contro la Nato». Eliminare il pathos, certo, non è abbastanza per rinunciare al riarmo. A parte quello, alla Germania rischia di rimanere poco altro.
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