- Secondo il Salone internazionale di gelateria, il Bel Paese non ha rivali con 39.000 punti vendite e un fatturato da 3 miliardi di euro.
- Realizzata con tanto di spatolina, pezzo per pezzo, da abili mani artigiane, il Thai rolled ice cream è una vera squisitezza. Ma non è certo il più strano...
- Dal museo «Instagram friendly» aperto lo scorso agosto a New York, allo storico spazio espositivo di Anzola dell'Emilia. Alla scoperta del dessert più amato.
- Maria Agnese Spagnuolo, meglio conosciuta come Fatamorgana, ha ideato oltre 300 nuove ricette mixando sapientemente spezie, fiori e frutta.
- A Palermo, durante la fiera della ristorazione ExpoCook, è nato un nuovo dolce: il «gelato al burro».
Lo speciale comprende cinque articoli e gallery fotografiche.
Il secondo Paese nel mondo dei gelati è la Germania con 9.000 gelaterie. La metà però sono di proprietà di italiani che danno lavoro a più di 20.000 persone di cui la metà di origine italiane. Al terzo la Francia con 4.000 attività, seguita dalla Spagna (2.000) e dalla Polonia (1.800).
I dati mostrano come sia proprio il Vecchio continente a detenere il primato mondiale per la produzione di gelato. Il 60% del business è infatti realizzato in Europa, con 60.000 gelaterie e 300 mila addetti. E l'Italia resta saldamente al comando della classifica. Nel 2018 secondo i dati della Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media impresa (Cna) il giro d'affari del gelato artigianale italiano ha toccato quota 2,7 miliardi di euro. Tenendo conto che la crescita del mercato viaggia intorno al 10% annuo è possibile stimare che nel 2019 l'Italia abbia raggiunto i 3 miliardi di euro senza particolari difficoltà.
Questo ovviamente ha un forte impatto anche sulla filiera agroalimentare, grazie al previsto acquisto di circa 240.000 tonnellate di latte, di 70.000 tonnellate di zucchero, di 23.000 tonnellate di frutta fresca e di 32.000 tonnellate di altri prodotti quali il pistacchio di Bronte, le nocciole del Piemonte, Lazio, Campagna, le mandorle siciliane e i limoni della costiera sorrentina e amalfitana.
Il mondo del gelato non fa bene solo alla filiera agroalimentare ma anche al mondo industriale. Le macchine per la produzione del gelato e le vetrine sono, per esempio, due elementi che producono ricchezza in altri settori. E dunque, a primeggiare nel settore della produzione di macchine per realizzare i gelati ci sono tredici industrie italiane che assieme hanno un giro d'affari di 250 milioni di euro l'anno. Stesso primato per la produzione delle vetrine. Le prime dieci imprese italiane registrano infatti un fatturato aggregato superiore ai 300 milioni di euro.
Il primato italiano è frutto, non solo di storia, ma anche di una continua innovazione del prodotto, oltre nella continua ricerca della qualità. Secondo l'indagine condotta dalla Cna negli anni si è infatti andata ad affermare una sempre maggiore ricerca della qualità: "nessun artigiano spaccerà più per pistacchio certi prodotti indecifrabili color verde fosforescente che dominavano le vetrine fino a qualche anno fa" si legge dal documento. A questo si aggiungono le nuove tendenze alimentari. E fatto che il mondo del gelato, soprattutto quello italiano sta cercando di adeguarsi con l'introduzione di nuovi sapori: bio, vegani, halal e kosher. E infine a questo si aggiunge il filone del gelato salato. Fenomeno che è arrivato dai ristoranti stellati a buona parte dei locali con giovani cuochi in cucina.
Strade affollate, chioschetti in ogni angolo di marciapiede si susseguono uno in fila all'altro proponendo varietà di street food per ogni genere di palato: ecco una delle prime cartoline di Bangkok.
Tra questi chioschi, uno sembrerebbe destare più curiosità dei suoi concorrenti: lì per lì lo si scambia per il classico baracchino che propina crêpe banana e cocco, ma un occhio più attento nota quasi subito che i minuscoli frammenti bianchi sulla piastra svelano una superficie gelata e che latte in polvere e vaniglia si sostituiscono a farina e pastella. Si deve semplicemente scegliere il gusto e il topper cui abbinarlo: il risultato finale è il Thai rolled ice cream, un gelato «arrotolato». Il suo pezzo forte infatti consiste proprio nella sua forma a involtino, realizzata con tanto di spatolina, pezzo per pezzo, da abili mani artigiane. Ecco così in pochi minuti cinque gustosi mini rotoli di vero e proprio gelato, sapientemente posati in una coppetta e ricoperti con crema al cioccolato, frutta, noccioline, caramelle o scaglie di cocco.
Questo è solo uno dei diversi modi di intendere il gelato presenti un po' in tutto il mondo, da quando un tal Ruggieri di professione pollivendolo, capitato alla corte di una giovanissima Caterina De Medici, creò con un miscuglio di ghiaccio e acqua zuccherata un piatto allora mai visto: il gelato, mandando in estasi prima la futura regina di Francia e poi tutta la nobiltà d'oltralpe. (O perlomeno così narra la leggenda!)
Passeggiando per le vie di Istanbul, per esempio, si può assaggiare il Dondurma, il tipico gelato turco o, meglio dire, il gelato acrobatico turco. Qui i mastri gelatai con abilità pirotecniche riescono a infilarti una cialda in tasca per poi estrarla con una pallina di gelato ben salda, facendo roteare il tutto con padronanza da perfetto giocoliere. Il trucco di queste acrobazie è l'uso del salep (una farina derivata da orchidee selvatiche), che, insieme al latte di capra, rende il composto semisolido all'inizio: queste vivaci manovre, servono in realtà ad ammorbidirlo, regalando nel frattempo un piccolo show originale e divertente, ancora più caratteristico se chi lo prepara è un omone con tanto di fez e due enormi baffoni.
Meno spettacolare, ma comunque certamente elegante è il gelato proposto a Londra in un piccolo locale di Covent Garden. Super pannoso, è completamente avvolto da una nuvola di zucchero filato, quasi a formare un piccolo tutù.
All'interno della gelateria, la Milktrain, la scritta Daydreams & ice cream (sogni a occhi aperti e gelato) sotto un arco di fiori di pesco, regala quel tocco romantico retrò anni'50 che si abbina perfettamente a zucchero, panna e noccioline.
I loro vicini di casa irlandesi hanno pensato a qualcosa di più stravagante: se una popstar mondiale esprime una particolare preferenza per un certo alimento (qualsiasi!) perché non trasformare l'amato alimento in un gusto di gelato? Così ha fatto la Heinz come conseguenza (per loro) più ovvia, con il ketchup, di cui Ed Sheeran sembra essere particolarmente ghiotto.
Del resto, i nuovi traguardi dei maestri gelatai, gusto al viagra (miscela composta dalla famosa pillolina blu e qualche goccia di champagne), al piccantissimo wasabi o al carbone attivo (a New York sembra essere ormai super trendy), fino al raccapricciante Haggis (interiora di pecora), regalano quasi un tocco di normalità ai pittoreschi «pere e gorgonzola», «pizza» e, "«nduja»; figuriamoci a del «semplice» Ketchup.
Ma se per assaggiare il gelato prediletto della popstar irlandese, (il che è tutto da dimostrare!) basta essere solo un tantino eccentrici, per sperimentare la nuova frontiera dell'ice cream giapponese ci vuole davvero coraggio. Tanto. È un abbinamento decisamente singolare: gelato al caramello ricoperto da croccanti noodles di pollo formano il discutibile Ramen on ice, per palati decisamente alternativi e temerari; in pratica degli spaghetti al pollo spalmati sopra una corposa dose di caramello!
Non contenti di aver generato un mix quasi letale di noodle e ice cream, la creatività nipponica un po' radical chic è andata oltre, dando vita ai gusti di gelato alla medusa e alla vipera mamushi, contenente una minima dose di uno dei rettili più velenosi del Giappone, dal sapore probabilmente terribile, ma comunque apprezzato sembra per le sue virtù afrodisiache.
Se vi sono rimaste un paio di bustine di Diger Selz, possiamo concludere il giro dei gelati dall'altra parte del mondo, in quell'Australia tanto distante anche per sapori culinari. Avrete sicuramente assaggiato il Fish&chips, patatine e pesce fritto tipico della cucina anglosassone. Quello che probabilmente non avete mai assaggiato, (e probabilmente in pochi avranno il coraggio di fare) è il Fish&chips servito su un cono gelato, con una pallina alla vaniglia come contorno, costellata da granella di pesce e pastella.
Uno studio sembra aver dimostrato che il gelato regali felicità, e, certo, ognuno è giusto che la ricerchi nel tipo di ice cream che preferisce, ma, non se l'abbiano a male giapponesi, irlandesi o australiani, se noi crediamo che forse, il miglior modo di regalarsi un tocco di felicità con del gelato è quello di accompagnarlo all'«antica» cialda o alle ancor meglio brioche con il tuppo, magari un po' tiepide, dove all'interno si sciolgono i classici ma intramontabili gusti di pistacchio e nocciola.
Alessandra Giussani
Dall'Italia agli Usa, il gelato diventa museo
Quando si parla di «museo del gelato» la mente va immediatamente all'instagrammabile esposizione che negli ultimi tre anni ha toccato le principali città degli Stati Uniti. L'azienda Figure8 - creatrice del Moic (Museum of ice cream, ndr) - ha dato vita al primo museo pop-up nel 2016, scegliendo come location la Grande Mela. Il successo è stato immediato, con una waitlist di oltre 200.000 persone prima che se ne terminasse la costruzione. Oggi, il gruppo guidato dalla giovane Maryellis Bunn, chiamata «la Walt Disney dei Millennials», ha due musei permanenti a San Francisco e New York oltre a un'esclusiva linea di gelati.
La location si New York è aperta da meno di un anno nel quartiere di Soho. Il museo del gelato si articola su tre piani per più di 230 metri quadrati di superficie complessiva. Tra le 13 installazioni presenti troviamo la «sprinkle pool», una vera e proprio piscina fatta di codeste di zucchero, una metropolitana tutta rosa e un parco giochi con tanto di altalene e un bilico a forma di cucchiaio. Il biglietto d'ingresso costa 39 dollari, ma non potrete certo fare a meno di regalarvi un goloso souvenir. Il Moic offre infatti merchandise di tutti i tipi, da magliette e felpe a pupazzi a forma di unicorno, passando per una collezione di makeup creata in collaborazione con Sephora. Ma la vera delizia sono gli esclusivi gelati (in vaschetta o in cono) con i nomi più strani abbiate mai sentito: Churro Churro, Nana Banana, Queen Bee e Cone Zone, da servire rigorosamente con una spolverata di glitter. I like sono assicurati.
Se non siete dei tipi da social, ma il gelato è la vostra passione, scoprite il Gelato museum Carpigliani, centro culturale d'eccellenza per la comprensione e l'approfondimento di storia, cultura e tecnologia del gelato Artigianale e delle professionalità di coloro che lo hanno trasformato nel corso dei secoli. Situato ad Anzola dell'Emilia, all'interno di ex spazi industriali ora convertiti è possibile visitare questa struttura innovativa. Sono disponibili diversi biglietti, per esperienze che durano dai 60 ai 150 minuti, ma una cosa è certa: alla fine di ogni tour vi aspetta un gustoso cono, come una volta.
La fata del gelato all'ombra della Città eterna
Maria Agnese Spagnuolo nasce in Puglia, circondata da noci e alberi da frutto, dove il profumo di fichi, pesche, albicocche, e mandorle riempiva l'aria. La sua passione per il gelato nasce a soli 10 anni quando prende la gelatiera di sua madre e con la determinazione dei più piccoli inizia a fare esperimenti, cercando di creare qualcosa di innovativo. Nel 2001, Maria Agnese si trasferisce a Roma e scopre che la Regione metta a disposizione dei fondi alle donne che desiderano avviare un'attività nella capitale. Ecco allora che decide di aprire la sua prima gelateria e la chiama Fatamorgana. Nel suo negozio la Spagnuolo crea gusti nuovi con l'ausilio di spezie, frutta e fiori, arrivando a realizzare più di 300 gusti di gelato differenti. Oggi Maria Agnese possiede sette gelaterie a Roma e nel 2017 ha aperto una «Fatamorgana» anche nella città degli Angeli.
Tra le sue creazioni troviamo «Uva e Noci», un riferimento all'audacia dell'antica roma. La moderna Roma è invece celebrata in una creazione che utilizza tre tipi di cioccolato, donando loro sapore con l'aggiunta di wasabi, un mix di spezie indiane e zenzero. Ma la sua creazione più inebriante è sicuramente «Kama Sutra» a base di finocchio, miele e note di liquirizia. Ma Maria Agnese assicura che Fatamorgana è in continua evoluzione, «un po' come Roma».
Regalati una visita unica alla gelateria Fatamorgana e passa un weekend indimenticabile a Villa Agrippina. L'hotel è parte del gruppo Leading Hotels of the World ed è situato nel centro storico e culturale della città eterna, vicino alle principali destinazioni turistiche di Roma, quali Castel Sant'Angelo, il Pantheon e i migliori ristoranti e locali della città. La struttura offre agli ospiti alternative allo shopping o alle visite turistiche: una grande piscina all'aperto, giardini privati e terrazze con viste spettacolari sulla città, l'esclusiva Spa My Blend (una delle otto strutture del mondo firmate da Clarins) e il raffinato ristorante Ossiform, gestito dal giovane e promettente chef Carmine Buonanno.
Il gelato al burro trionfa a ExpoCook

ExpoCook
Si dice che le migliori idee nascano un po' per caso e quello che è successo ieri a ExpoCook - la fiera dedicata al mondo della ristorazione - ne è la dimostrazione. A Palermo, fino al 28 febbraio, si incontrano alcune delle realtà più grandi del Made in Italy e del Made in Sicily, e proprio tra questi troviamo l'azienda dei Fratelli Brazzale.
Il Burro Superiore Fratelli Brazzale è nato per essere il miglior burro sul mercato, senza compromessi. È il frutto di un preciso mandato che i fratelli Gianni, Roberto e Piercristiano Brazzale hanno dato ai propri tecnici e hanno essi stessi assunto: il massimo assoluto, senza subire alcun condizionamento dai costi di produzione. Ogni aspetto è stato studiato con cura puntigliosa, dalla scelta della materia prima, al suo trasporto, alla sua centrifugazione, alla maturazione della crema, alla sua burrificazione e al suo confezionamento per il consumo. Ovviamente, la qualità del burro viene direttamente dalla qualità del latte e dalla freschezza della panna che ne costituisce materia prima, la quale non poteva che derivare dalla centrifugazione di freschissimo latte: ci si è posti l'obiettivo da primato della zangolatura entro 24 ore dalla mungitura. È stato selezionato un latte di stalla di alta genealogia direttamente controllata dai nostri tecnici fino nella alimentazione del bestiame, situata in zona ideale di clima fresco centroeuropeo, immediatamente vicina al nostro burrificio artigianale, adatto a seguire con diretto contatto sensoriale ogni passaggio lavorativo.
Ospite di ExpoCook è anche il maestro pasticcere Giovanni Pace, direttore della scuola di pasticceria e gelateria Mag di Palermo. Vedendo quel burro così cremoso e unico nel suo genere, decide così su due piedi di farne un gelato. Nelle successive ore, questa nuova creazione è andata a ruba a discapito dei gusti più tradizionali. Lo chef Pace ci ha raccontato come la sua non sia un'idea del tutto innovativa. Prima dell'arrivo sul mercato della panna nel secondo dopoguerra, i gelatai usavano il burro per preparare le loro creme. La sua è quindi una semplice rivisitazione, in chiave moderna, di una tradizione centenaria.
- Sempre più italiani scoprono le ricette degli altri Paesi: ecco le cinque ragioni, tra immigrazione, risparmio e voglia di novità, alla base del boom.
- In Italia è scoppiata la etnico-mania. Ma lo sapete che i cinesi non mangiano il riso alla cantonese? Ecco un breve tour tra i piatti più consumati nelle nostre città.
- Dove si trovano i migliori ristoranti esotici? Da Nord a Sud un viaggio tra alcune delle città e dei locali da provare.
Lo speciale comprende tre articoli e un'infografica.
Un po' per moda, molto per persuasione mediatica, in gran parte per risparmiare, ma gli italiani che passano sempre meno tempo in casa a cucinare dimenticando la tradizione sono diventati dei consumatori compulsivi di cucina etnica. In cinque anni sono raddoppiati quelli che frequentano almeno una volta al mese i "ristoranti" (le virgolette sono d'obbligo) che propongono sapori di un non bene definito altrove.
Nel 2013 erano 7 milioni, nell'ultima rilevazione sul tema fatta dalla Nielsen sono 14,3 milioni. Per avere una dimensione più esatta del fenomeno diciamo che un italiano ogni tre che consumano pasti fuori casa ha sperimentato o è s'è fatto cliente abituale di una tavola etnica. Che è un universo indistinto, ampio, talvolta privo di una vera identità, sovente sopravvalutato, qualche volta igienicamente se non pericoloso discutibile, di certo non esposto alla critiche e alla critica come i ristoranti nostrani. Ma la ricerca che è stata condotta dalla Nielsen ha cercato anche di capire perché gli italiani sono attratti dall'esotico nel piatto. Le risposte sono interessanti e ce n'è una, che sembra minoritaria ma in realtà non lo è, che spiega il successo, o quanto meno spiega il fenomeno: gli italiani frequentano i ristoranti etnici perché costano meno. La danno come motivazione secca il 15 per cento dei clienti, ma in realtà c'è un altro 15 per cento che introduce il concetto di risparmio, di comodità, di mangiare veloce di informalità come elemento di opzione dell'etnico. La curiosità è il primo "motore" visto che quasi metà del campione dice che va all'etnico per "sperimentare piatti che non cucineremmo a casa" risposta che si somma al desiderio di provare nuovi sapori e al giudizio più elementare "perché è buono". Di certo non è una scelta dettata da ragioni né salutari né di dieta vista che solo il 4% delle risposte afferma "per mangiare cose più sane". Evidentemente sono molto consapevoli che sano ed etnico non sono sinonimi.
C'è anche da notare che comunque la stragrande maggioranza degli italiani continua a preferire la cucina nazionale. Coloro i quali sono affezionati allo stile italiano in cucina sono il 52%, solo un 17% dichiara di preferire decisamente la cucina etnica. E quando si parla di etnico la maggioranza relativa pensa all'Asia. Il 23% sceglie infatti quella cinese, il 22% il Giappone e si può parlare di una sushi-mania in Italia dove s'ignora che il sushi non è il piatto nazionale del Sol Levante, il 9% quella messicana, la turca è scelta dall'8% e l' indiana è un'opzione per solo 5%.
Curioso che la cucina dei Paesi europei come la greca, o la francese o la spagnola, grandi cucine mediorientali come quella libanese non vengano percepite dagli italiani come etniche, come se queste preparazioni gastronomiche non avessero un connotato culturale identitario fortissimo.
Ma la ragione c'è, anzi sono diverse. La prima è la diffusione dei locali. I cinesi sono i più frequenti in Italia si stima che siano 50.000. Hanno superato la crisi del 2003 dovuta alla Sars con i metodi che tuti conoscono: prezzi bassissimi apertura full time e soprattutto grande spinta dalla loro comunità. Ma anche da un altro fattore: il camuffamento da ristorante giapponese. In Italia di veri ristornati giapponesi sono ce n'è più di un centinaio, i cuochi autenticamente giapponesi sono una pattuglia ristretta e gestiscono ristoranti di altissimo target. Basti dire che a Milano ci sono 700 ristoranti "giapponesi" ma gli autentici non superano la ventina.
E a raccontare che i cinesi travestiti da giapponesi fanno grandi affari c'è la storia di Cristian Lin arrivato in Italia che aveva 8 anni, cresciuto nel ristorante cinese dei genitori a Reggio Emilia, passato a Firenze da un piccolo supermercato dove poi ha aperto il suo primo sushi bar a venti anni. Da lì ha inventato la catena Sushiko che oggi conta quasi 100 punti di ristorazione, dove lavorano un migliaio di persone e ha un fatturato di molti milioni di euro.
Del pari l'insistenza di catene di kebab ha imposto soprattutto tra i giovani i gusti speziati della cucina mediorientale. Oddio sui kebab gli interrogativo sono tanti, qualche inchiesta ha anche detto che proprio carne di montone non è, che si tratta quasi sempre di carni congelate e più che cucina etnica quella va assimilata allo "spaccio di calore". Anche se poi esistono (pochi) ristoranti mediorientali di alto livello. Ma qui entra in ballo la seconda ragione dell'incremento vertiginoso della presenza di ristoranti, o supposti tali, di cucina etnica. È l'ingrossarsi delle fila di popolazione straniera che risiede in Italia. Sei milioni i regolari, ma oggi ci sono i clandestini, i profughi, ci sono i "presenti assenti". E si potrebbe dire che seguendo un odore di "cucinato" si possono individuare assembramenti e rifugi.
Per sapere quanto vasto sia il mercato dei "cibi alieni" basta aggirarsi per alcuni quartieri delle nostre maggiori città. A Roma ad esempio attorno a Termini ci sono venditrici abusive di "haria" (è una zuppa di verdure legumi, molto speziata) che arrivano al mattino presto con dei trolley termici e la vendono in ciotole improvvisate, spesso sono il sostentamento di chi dorme coperto dai cartoni. Anche questo è cibo etnico!
E si può dire che proprio in ambito metropolitano in Italia si conta la maggiore presenza di ristorazione "straniera". Anche se ci sono città dove la presenza storica di alcune colonie (a Venezia, a Pisa, a Firenze ad esempio sono diffusissimi i ristornati greci) ha determinato il radicarsi di cucine etniche, così come lungo i nostri confini ci sono delle cucine che sono delle vere e proprie enclave culturali: i menù ladini, quelli della grecanica, la cucina valdese o dei Walser, i sapori albanesi che si gustano nel medio adriatico. Perché la cucina è sempre espressione di identità. Dunque la seconda ragione della diffusione della cucina etnica in Italia è la presenza delle comunità delle diverse nazionalità.
Ma vi è una terza ragione che sta cambiando le abitudini degli italiani e ci sta americanizzando: è il crescere del food delivery. Ormai siamo vicini al 10 per cento degli italiani che si fanno portare il cibo pronto a casa dai riders, i fattorini pagati a consegna saliti alla ribalta delle cronache perché fanno un "lavoro fantasma". Ebbene se la pizza e gli hamburger sono i cibi ancora più richiesti ormai si è fatta strada anche l'opzione etnico e quasi sempre orientale: dal sushi ai noodle tailandesi passando per il pollo tandoori. Perché? Per imitazione con modelli comportamentali d'importazione, ma anche perché i ristoranti etnici sono spesso i primi a mettersi d'accordo con le piattaforme on-line per fornire il servizio di food delivery. Un fenomeno in crescita esponenziale. Sempre la Nelsen ha stimato che siano due milioni (53%) quelli che ordinano sul web solo piatti italiani, 630 mila scelgono(18%) solo cibi etnici, un milione (29%) esercita entrambe le opzioni. Il 78% degli italiani dichiara di essere coperto da un servizio online di food delivery, nelle grandi città il dato sale al 95%.
E c'è una quarta motivazione che gioca a favore dell'etnico. La convinzione che si possano cambiare le abitudini alimentari abbandonando la tradizione. I super food tanto reclamizzati hanno sempre qualcosa di esotico: si pensi alla curcuma, alla quinoa, all'amaranto e poi ancora alla papaya fermentata, alle bacche di goji, al miso, ai semi di chia e questo spinge molti a sperimentare ricette che non hanno nulla a che vedere con la tradizione gastronomica italiana con la convinzione che mangiare diverso faccia bene. Così si scopre che più di 20 milioni di italiani provano ricette "esotiche" e che sono 18,1 milioni quelli che acquistano piatti etnici pronti nella grande distribuzione, con una crescita di quasi sette milioni rispetto al 2013. La "moda" o la ricerca dei superfood peraltro fa il paio con l'affermarsi di altre tendenze alimentari che strizzano l'occhio all'etnico. Così vegetariani e vegani si rivolgono a prodotti alimentari "esotici", uno per tutto il tofu, ma anche il crescere di chi si dichiara allergico o intollerante ad alcuni alimenti, anche questa è per molti versi una moda, allontana i consumatori dai cibi tradizionali italiani.
E infine c'è la quinta motivazione che è quella della globalizzazione. La disponibilità sul mercato di prodotti che arriva da ogni parte del mondo spinge all'acquisto così come la diffusione di viaggi ha messo in relazione moltissimi con culture e abitudini gastronomiche prima sconosciute. Ma se questo è un dato "positivo" resta da domandarsi se la cucina italiana che è la prima al mondo per "desiderabilità" e una delle più praticate non abbia da difendersi da questa aggressione "aliena".
Carlo Cambi
Riso alla cantonese? I cinesi non lo mangiano

Agli italiani l'etnico piace, ma si può tentare una classifica dei cibi più amati? Difficile stabilirlo con certezza anche perché ci sono grandi differenze tra i gusti di chi abita al Nord e di chi abita al Sud dove gli etnici – cinesi a parte - per la verità hanno scarso mercato. Ma si può provare se non altro a fare la classifica dei piatti etnici più conosciuti e ordinati. Facciamo così un giro di orizzonte tra le cucine più diffuse in Italia sapendo che le città col maggior tasso di ristoranti etnici sono Milano, Roma, Torino. E con un avvertenza: scegliete bene la tavola dove avete deciso di cenare perché non sempre la garanzia di igiene c'è. Come sempre il primo discrimine lo fa il prezzo, ma anche il tasso di autenticità è un indice. Se vedete un servizio troppo italianizzato diffidate, se i cuochi sono di nazionalità diversa da quanto dichiara il ristorante prendete qualche precauzione. I numeri dicono infatti che i ristornati etnici sono i più esposti a problemi di corretta gestione igienica del cibo. Un dato su tutti: nello scorso maggio i Carabinieri del Nas hanno condotto a campione un ispezione in tutta Italia nei ristornati etnici. Ebbene su 515 locali visitati ben 242 (il 47% del totale) non era in regola soprattutto per la provenienza e la conservazione dei cibi.
Cina. Il pollo in agrodolce è uno dei piatti preferiti dagli italiani. Attenzione però che è anche uno dei piatti che pone maggiori problemi di igiene e di sicurezza alimentare. Il punto è infatti sapere quale pollo si è usato, da dove arriva e come è stato conservato. È un piatto che per essere buono non può costare meno di 10 euro. Al di sotto di quella cifra conviene diffidare. Il più noto tra i cibi cinesi è senza dubbio l'involtino primavera. Se il ristorante cinese è di alta cucina sappiate che dovrebbe darvelo non fritto perché la cucina mandarino (la più diffusa tra le quattro grandi tradizioni gastronomiche del celeste impero) prevede che l'involtino primavera sia cotto al forno o al vapore. Anche in questo caso attenzione all'olio di frittura: se è usato troppo potrebbe risultare indigesto se non addirittura dannoso. Per giudicare la cucina di un ristorante cinese si dovrebbe assaggiare un dim sum. Potremmo definirlo un menù degustazione che è fatto di involtini di pasta di riso ripieni di varie cose: dal manzo ai gamberi seguiti da zuppe vegetali che precedono il piatto forte: carne arrostita con contorno di verdure al vapore. Infine c'è la ricetta più diffusa: il riso alla cantonese. Si tratta di riso fritto con gamberetti, spesso pollo, piselli e frittata che in realtà dovrebbe essere dell'uovo sbattuto addensato con il riso nella wok. Ma cosa direste se sapeste che il "riso alla cantonese" in Cina non lo mangia praticamente nessuno? È un po' come le nostre "fettuccine Alfredo".
Giappone. Al primo posto c'è il sushi. Purtroppo di veri ristoranti giapponesi in Italia ce ne sono relativamente pochi, tutto il resto è officiato o da cinesi o da srilankesi. Il sushi deve essere fatto con pesce freschissimo e abbattuto per almeno un giorno in congelatore. Fate attenzione al riso: non deve mai essere tropo cotto, la preparazione del sushi è un'arte come del resto tutta la cucina giapponese, che richiede infinita perizia proprio nella preparazione del riso. Egualmente l'alga che avvolge i roll deve essere di buona consistenza così come i nigiri (cioè i mattoncini di riso con sopra il pesce) devono avere un aspetto fresco. Accanto al sushi, ecco il sashimi che altro non è che un carpaccio di pesce. La qualità è ovviamente data dal tipo di pescato, ma anche le salse devono essere non troppo salate. Ma è bene saper che il sushi non è il piatto nazionale die giapponesi che preferiscono altre preparazioni La zuppa di miso ad esempio non dovrebbe ma mancare in un menù giapponese come un piatto che finalmente si riesce a gustare anche in Italia: il ramen. È una zuppa a base di tagliatelle di frumento in brodo con carne di maiale o di manzo, verdure, cipolla, immancabili alghe (che sono anche un superfood) e ovviamente salsa di soia. Oggi è uno dei piatti "europei" visto che francesi e tedeschi ne mangiano in quantità industriale.
India. Il piatto indiano più famoso è sicuramente il pollo tandoori che andrebbe fatto negli speciali forni indiani. Il pollo va marinato nello yogurt e poi cotto a calore deciso dopo averlo avvolto di tandoori che un mix di spezie. Un pranzo indiano che si rispetti comincia sempre con i samosa: sono involtini di pasta fillo a forma di triangolo molto speziati e ripieni di verdura o di cane. Altro piatto tradizionale oltre alle frittelle è il riso byrami. Di fatto è un riso basmati bollito a cui vengono aggiunti gamberetti fritti e poi tutto aromatizzato con i gran masala che è il mix di spezie caratteristico della cucina indiana. Abbiate cura di comprendere come sono stati conservati i gamberetti perché l'inganno lì è sempre dietro l'angolo. Se siete vegetariani ed etnici dovete per forza assaggiare il Korma : è un mix di verdure stufate condite con yogurt e spezie da gustare con i pane indiano che è particolarissimo e se il ristorante è davvero indiano ve lo offrirà quasi fosse un cibo rituale.
Messico. La cucina tex-mex fa impazzire gli americani, da noi sta prendendo piede solo negli ultimi anni. Ci sono quattro piatti che sovrastano tutte le altre preparazioni. La prima è una salsa: il guacamole che ha per base l'avocado. Anche questo frutto è percepito come un superfood e dunque la salsa fatta con lime, avocado, peperoncino è diventata un must. Ha un vantaggio: molti ormai la usano al posto della maionese ed è un po' meno grassa. Tra le pietanze messicane spicca ovviamente il chili con carne che niente altro è che uno stufato di carne macinata di manzo con tanto peperoncino. Più gustose e anche più particolari sono invece le faijatas che sono delle specie di piadine farcite con carne ben marinata accompagnata da cipolle e peperoni carnosi fatti soffriggere. Anche qui la qualità della carne fa la differenza. Un piatto che da molti è ritenuto messicano e che invece viene sempre dall'areale americano è il peruviano ceviche. È diventato di gran moda nei ristoranti della moda (ci si passi il gioco di parole) perché si tratta di pesce crudo marinato nel limone fatto a piccoli pezzi, poi speziato e condito con varie erbe accompagnato da verdure. E' molto leggero e digeribile perciò piace alla gente che piace. Ora la variante europea prevede l'uso di salmone affumicato.
Medio Oriente. Si parte dal Doner Kebab che è un piatto turco che andrebbe eseguito a regola d'arte e poco ha a che spartire con quello venduto dai chioschi. La cucina turca peraltro è una cucina molto varia, in gran parte simile a quella greca (ed ecco i grandi classici la salsa tzatziki fatto con yogurt, olio, cetrioli, aglio e sale, e poi i moussaka di fatto una parmigiana di melanzane con aggiunta di carne macinata) e il Doner Kebab è la modernizzazione dell'antico spiedino di carne di montone servito con una sorta di pitta. Altro piatto diventato un topos gastronomico-letterario sono i felafel di fatto polpette di ceci, talvolta di lenticchie, variamente aromatizzate che possono essere o fritte o passate al forno che si servono sempre con l'hummus una crema di farina di ceci e sesamo con olio d'oliva e variamente aromatizzata. Infine c'è il cous cous che molti credono essere assolutamente etico ma che i realtà è un piatto mediterranea dalla infinite varianti che in Sicilia è una tradizione antichissima e che in Sardegna si è fatto fregola. Perché anche se si è affascinati dalle ricette etniche ricordarsi che l'Italia è il paese con la più profonda tradizione gastronomica che deriva dalla più vasta biodiversità non fa mai male.
Carlo Cambi
Guida ai ristoranti etnici in Italia
Città che vai, quartiere che trovi. Ristorante etnico che scopri, ottimo cibo che gusti. Così, passeggiando nelle città della nostra penisola, ci si imbatte in borgate un po' esotiche che mostrano sapori e peculiarità delle loro radici, accostate ai colori del nostro territorio.
GENOVA
Vicino alla stazione di Piazza Principe, un tris d'insegne indica una piccola discesa con la scritta "botteghe etniche": è la strada che porta in via Prè. Non proprio famoso per la sua "tranquillità", questo storico sestiere dai palazzi colorati, un tempo popolato da marinai, truffatori bonari e donnine allegre, negli anni si è trasformato in una via multietnica e, anche grazie al suo groviglio di vicoli, di sera (quando entra in vigore una linea di confine temporale) è ormai emblema di una piccola e meno piccola criminalità; ma passeggiandoci durante il giorno gli calzano fedelmente a pennello i versi che Fabrizio De André gli aveva dedicato: "Se ti inoltrerai lungo le calate/dei vecchi moli/In quell'aria spessa carica di sale/Gonfia di odori". Ci si imbatte infatti in un susseguirsi di ristorantini, locali e negozi etnici: senegalesi, pakistani, tunisini, cubani, kebabberie, messicani, minimarket asiatici e sudamericani, in un crocevia di dialetti. È sicuramente qui il cuore multietnico del capoluogo ligure; è però spostandosi verso il centro, in un vicoletto adiacente a piazza De Ferrari (la più famosa della città), che si raggiunge un eccellente ristorante giordano palestinese: è Nabil (http://www.arabonabil.it/), locale storico che l'anno prossimo compirà ben 35 anni. Primo locale arabo (ed etnico) di Genova è stato fondato dal signor Nabil (battezzato come Pietro), un signore solo apparentemente dall'aria un po' burbera, e più che ricette tipiche giordano palestinesi, propone la cucina casalinga che la mamma gli ha trasmesso fin dall'età di 12 anni, quando, prima per curiosità e poi per necessità, ha iniziato a cucinare per tutta la famiglia. Dal padre Nabil ha invece ereditato l'arte di mescolare e combinare le spezie, usate abilmente in tutti i piatti da lui cucinati e ideati. Si parte dagli antipasti ed è severamente vietato non assaggiare le sue falafel (medaglioni dorati di ceci e spezie) e il suo hommos (variante non solo dialettale ma anche culinaria dell'hummus tradizionale). Si continua con un Mansaf (piatto nazionale giordano con carne, pinoli e mandorle tostate), una Tagin (verdure, carne di manzo, zenzero e riso) e il "sempreverde" cous cous; il tutto viene accompagnato da un particolarissimo thè all'anice e un infuso fresco alla cannella, immersi all'interno di questo fascinoso locale. L'arredamento arabo è curato da sua moglie Lia, ceramista, che ha saputo rendere l'ambiente ancor più e intimo e accogliente.
MILANO
A un paio di chilometri dal Duomo, dove svetta elegante la Madonnina, c'è un quartiere che sa essere al contempo trendy e simbolo di una comunità etnica molto unita. Se Porta Venezia infatti è contorniata di localini degni della migliore movida meneghina, da quasi mezzo secolo, in questo tessuto urbano si sviluppano le storie della comunità habesha (termine che deriva da "Abissinia" e indica l'insieme delle popolazioni etiopi ed eritree), con locali e ristoranti etnici, alcuni portati avanti da ben tre generazioni, le prime arrivate qui agli inizi degli anni Settanta. Un legame, del resto, che sembra già formarsi nella fatalità di un intreccio curioso di nomignoli: Asmara, capitale dell'Eritrea vanta il vezzeggiativo di piccola Roma e a Milano, il quartiere a pochi passi da corso Buenos Aires, si è conquistato il soprannome di "Asmarina". Ed è proprio in queste viuzze, nella vivace via Melzo che troviamo il Warsà (http://www.ristorantewarsa.com/), ristorante storico aperto nel 1989 dalla signora Kebedesh (Keby). Arrivata qui nel 1978, autentica rappresentante della prima generazione eritrea milanese, ha deciso di aprire questo ristorante per la voglia di trasmettere e far riviere i sapori e i profumi della propria terra. "Warsà" significa cultura ed eredità, e oggi a portare avanti la tradizione, troviamo i suoi figli Daniel e Biniam che propongono tra le varie portate, lo zighinì il piatto nazionale eritreo per eccellenza; è uno spezzatino vegetariano, di pesce, o di carne (quest'ultimo un po' più piccante); il tutto accompagnato da injera a volontà: il loro pane tipico, sottile e simile a una crêpe, preparato giornalmente con quattro diverse varietà di farine. L' injera sostituisce le posate, è d'obbligo infatti, come vuole la tradizione, mangiare con le mani, e come suggerisce la scritta sulla parete, "le mani nude nel pane assorbono il gusto del peperoncino, compagno di viaggio e nostalgia dei tramonti dell'Africa".
Se l'area intorno a Corso Buenos Aires rappresenta in Italia un caso particolare di quartiere abitato in modo costante da una popolazione straniera, non possiamo assolutamente dimenticare la zona etnica milanese per eccellenza: Chinatown (precedentemente conosciuta come "borgo degli ortolani"). La sua nomea la precede, e chiunque passi per Milano, sa che nelle vie che si diradano intorno a Paolo Sarpi, la lingua più parlata durante il giorno è quella del Celeste Impero. Passeggiare per la dinamica Chinatown, da Via Canonica, a Via Lomazzo, fino alla laboriosa Paolo Sarpi (resa pedonale da qualche anno) è assolutamente piacevole; da queste parti i ristoranti cinesi pullulano, e sono decisamente da provare, ma è un piccolo localino ad attirare moltissimi gourmet. Forse parlare di locale è un po' eccessivo: in pratica è un bancone dove vengono preparati ravioli che sanno mixare il meglio della cucina cinese con l'ottima qualità delle materie prime italiane. È la Ravioleria Sarpi (https://www.facebook.com/ravioleriasarpi/), superbo esempio di street food, che offre tre tipologie di ravioli, che non stancano mai: vegetariani, al maiale (forse quelli che vanno per la maggiore perché più saporiti) e quelli più delicati al manzo; la carne è direttamente fornita dall'adiacente Macelleria Sirtori, storica bottega di Milano. Già pronti da gustare al momento (in piedi o su qualche panchina se si ha la fortuna di trovarne libere) o da cuocere in tranquillità a casa propria, sono davvero deliziosi e hanno reso la Ravioleria Sarpi ormai un'istituzione da queste parti. Gustosi da soli, squisiti accompagnati da uno spritz che si trova facilmente in uno dei baretti che fanno da cornice al quartiere del Dragone o da un bicchiere di vino sorseggiato da Cantine Isola, altra autentica bottega meneghina incastonata nella Chinatown più famosa d'Italia.
VENEZIA
Per concedersi una passeggiata fuori dalle affollate calle veneziane, basta imboccare il Ponte delle Guglie, per ritrovarsi nel sestiere Cannaregio, nel Ghetto ebraico (il più antico del mondo), in una zona decisamente più tranquilla, che regala un non so che di suggestivo, in un'atmosfera rilassata e un po' fuori dal tempo.
Sull'origine del suo nome c'è più di un'ipotesi: la più accreditata sembra essere quella legata al termine "géto", (fonderia - in epoca medievale, in questa parte della città si concentravano le pubbliche fonderie), che, se pronunciato con un'inflessione tedesca, eccola trasformarsi in "ghetto".
La presenza ebraica nella città lagunare, risale già all'anno Mille, ma fu nel 1516 che la Serenissima decretò che tutti gli israeliti dovessero risiedere nel Gheto Nuovo, stabilendo che "tutti li Zudei che de presente se attrovano abitar in diverse contrade de questa città, debbano abitar unidi". Il Ghetto Nuovo è di per sé una mini-isoletta, circondata da canali e accessibile solo tramite due ponti (un tempo chiusi e sorvegliati di notte). Arrivati, ci si trova davanti a un ampio campo (perché a Venezia esistono campi, non vie!) dove si incontrano il museo ebraico e le sinagoghe più antiche, che appaiono però "nascoste" all'interno di palazzi già esistenti. Un occhio più allenato potrebbe individuarle grazie alla presenza di cinque finestre allineate e alle scritte in ebraico (si trovano tutte all' ultimo piano, perché, nel rispetto della loro religione, non può esserci nulla di terreno al di sopra della sinagoga).
Tempo fa, da queste parti era molto fiorente anche l'attività creditizia. Essendo contrario alla morale cristiana prestare denaro in pegno, quest'attività era stata affidata dal governo veneziano agli ebrei; famosi qui erano i suoi Banchi: Verde, Nero e Rosso, (quest'ultimo ancora visitabile), e chissà se il termine "andare in rosso" derivi proprio da qui!
Anche se oggi in questo quartiere gli ebrei sono poche centinaia, è rimasta viva la tradizione, ad esempio attraverso la cucina. Si può fare una breve tappa al "Panificio Giovanni Volpe" (https://www.facebook.com/PanificioVolpeGiovanni/), dove assaggiare degli ottimi dolci ebraici (come le azime dolci, le impade con pasta di mandorle, le bisse e le orecchiette di Amman - fagottini ripieni di marmellata o cioccolato). Per continuare a gustare i sapori della cucina Kosher, calandosi ancora un po' nello spirito del quartiere, un'altra tappa consigliata è il Gam Gam (http://gamgamkosher.com/). Primo ristorante kosher di Venezia (i suoi fondatori appartengono a famiglie insediatesi nella Venezia ebraica già dal XV secolo), propone un menù mediorientale alternato a piatti più o meno tipici della cucina italiana, come le sardee in saor, piatto tipico veneziano, ma proveniente dalla tradizione ebraica. Si possono provare diversi tipi di hummus e cous cous, una piccola selezione di meze (antipastini sfiziosi), la massa'bacha (una melanzana bollita con ceci e pomodoro), proseguendo con una "matza ball soup" (brodo con polpette di pane azimo) e una loro rivisitazione della mussaka greca (una sorta di pasticcio di verdure). Da provare anche la crema di mele con frittelle di patate. Per concludere, ci si può rilassare in uno dei tavoli all'aperto, e, sorseggiando una tisana zenzero, cannella e menta, godersi la vista del Ponte delle Guglie sullo splendido Canale di Cannaregio, rivivendo un po' di storia.
ROMA
Una piazza, la più grande di tutta la città, costruita a partire dal 1880 per celebrare l'Unità d'Italia e la sua nuova capitale, con i suoi ampi portici in un ordinato stile piemontese, ma anche con la sua "porta magica", (da cui un tempo si accedeva a un laboratorio di alchimia dove secondo la leggenda si tramutava il piombo in oro e che resta, ancora oggi, uno dei misteri più curiosi della città).
Un quartiere, che oltre a dare il nome a uno dei sette colli, racconta una storia di maghi e streghe che nel Medioevo lo scelsero come roccaforte per celebrarvi misteriosi riti.
Con queste premesse, non poteva che trovarsi qui, il punto nevralgico più multietnico di Roma.
Eccoci in Piazza Vittorio Emanuele II (più affettuosamente conosciuta come Piazza Vittorio), nel quartiere Esquilino.
È proprio qui che agli inizi del Novecento, nacque spontaneamente il vecchio mercato di Piazza Vittorio, un grande mercato all'aperto, brulicane di bancarelle che proponevano qualsiasi tipo di merce, dai generi alimentari, ai tessuti, al tabacco, ai ricambi. Tanto famoso e amato dai romani da meritarsi anche una comparsa nel film di Vittorio De Sica "Ladri di biciclette".
Negli anni Novanta, a seguito della ristrutturazione della piazza, il mercato si è spostato poco lontano, al coperto, trasformandosi in un vero e proprio mercato multietnico. È un po' come fare il giro del mondo in qualche manciata di metri quadrati; si possono acquistare cibi e spezie provenienti da ogni angolo del mondo: India, Bangladesh, Cina, Senegal, Romania e Centroamerica. Contrattando, specialmente se si riesce andare a fine giornata, si trovano a prezzi più che competitivi, spezie particolari, frutta secca, frutta tropicale e miscele di curry preparate al momento.
C'è chi sostiene essere il mercato più fotografato al mondo: forse la definizione è leggermente azzardata, ma sicuramente l'anima cosmopolita dell'intero quartiere è fortissima, così come sono fortissime le comunità bengalese e indiana, che oltre alle bancarelle del Nuovo Mercato Esquilino, sono titolari di moltissimi minimarket e piccoli negozi di alimentari.
In un ambiente piccolo, ma curato, in un'atmosfera accogliente a cui fa da contorno sulle pareti il colore arancione (colore significativo nella cultura indiana perché simboleggia energia e sacralità del focolare), ecco infatti presentarsi il Krishna 13 (http://www.krishna13ristorante.com/), uno dei tanti ristoranti indiani del quartiere Esquilino. Il caratteristico profumo di spezie accoglie gli ospiti e il menù offre piatti tipici delle diverse regioni indiane, vegetariani e non. Il pollo fa da padrone: il Madras, più piccante e tipico dell'India del Sud o il Kadai, meno speziato e cucinato nella parte settentrionale del paese, sono solo due delle moltissime varianti proposte. Da assaggiare le lenticchie gialle e le palline di formaggio e verdura (Malai Kofta). Come contorno, insieme all'irrinunciabile riso basmati, oltre dieci varietà di pane, al formaggio, alla cipolla, al cumino, al burro, cotto in piccoli recipienti di terracotta o fritto in olio di girasole (bathura). C'è l'imbarazzo della scelta, e se si è alla prima esperienza indiana, ci si può affidare agli esperti consigli dello staff.
MAZARA DEL VALLO
Forse perché più vicina alle coste della Tunisia che a quelle dello stivale, forse per la sua storia e le sue antiche dominazioni, forse per un mix tra la sua posizione geografica e le innegabili contaminazioni, a Mazara si è sviluppato un quartiere che è un vero e proprio angolo di Maghreb. Qui, il canto del muezzin che si ripete puntuale cinque volte al giorno, confonde il turista, proponendogli una scenografia totalmente atipica rispetto a quella italiana, tanto da far pensare di non essere nemmeno nel continente europeo. È la Casbah mazarese, termine arabo che indica una "fortezza", un "centro fortificato". Addentrandosi all'interno delle sue mura, nei rioni storici di San Francesco e della Giudecca, nelle zone di Porta Palermo e di Piazza Regina, si svela una piccola medina, con viuzze strette, piccoli labirinti e stradine tortuose, che sembrano voler conservare una propria intimità anche nella struttura urbana.
Fin dalla prima dominazione musulmana dodici secoli fa, i contatti tra questa parte di costa italiana e quella africana non si sono mai interrotti, e quando agli inizi degli anni Settanta molti tunisini immigrarono in questa città proponendosi come pescatori, trovarono un'impronta araba ancora evidente che hanno contribuito poi a rafforzare, dando vita soprattutto negli ultimi anni a moltissime attività nel mondo della ristorazione etnica, alcune gestite insolitamente da sole donne. Qui, dove convivono a pochi metri moschee e chiese barocche, nelle botteghe si mescolano i sapori dei capperi, dei fichi d'India con quelli delle spezie e dell'uvetta, e l'arte della ceramica locale si arricchisce del tocco di matrice araba. Qui, i tunisini hanno sviluppato due anime: una araba, legata indissolubilmente alle proprie origini e l'altra siciliana, connessa inevitabilmente all'integrazione con il territorio; proprio come la signora Fathia e i suoi figli. Lei, arrivata nel 1974, ha trovato nei mazaresi una vera famiglia e assimilato un perfetto dialetto siciliano. Il suo ristorante, l'Eyem Zemen (https://www.facebook.com/pages/Ristorante-Tunisino-Eyem-Zemen-Mazara-del-Vallo) è in uno dei punti cruciali della Casbah, e il piatto forte non può che essere il cous cous: di verdure, d'agnello o montone e di pesce. Il locale è in perfetto stile tunisino, e nella bella stagione si mangia all'aperto, in uno scorcio dall'atmosfera arabeggiante, godendo della seducente impressione di trovarsi tra le vie di Hammamet o di Tunisi. Il cous cous si accompagna con i saporiti brik (triangolini di pasta sfoglia ripieni) al tonno, ai gamberi o verdure e a un'insalata tunisina. Oppure si potrebbe optare per uno spezzatino di carne, e per chi ama spezie e aromi c'è solo l'imbarazzo della scelta nel mix di salse orientali. Per concludere un assaggio di dolcetti arabi serviti con thè alla menta e pinoli. Tutte le pietanze vengono servite in piatti di ceramica decorati e, a rendere tutto più caratteristico, ci pensa il canto del muezzin proveniente dal vicino minareto.
Alessandra Giussani
- Da Ippocrate al conte Negroni passando per il palazzo di Cnosso e la bottega di un tal signor Carpano. L'aperitivo non è cosa banale, né modaiola: è un pezzo di storia mediterranea e sicuramente un segno dell'italianità. Che ha pure precisissime e rigide regole di galateo.
- Italia che vai brindisi che trovi. Nel Nord Est è il trionfo del Prosecco e dello Spritz. In Emilia vincono i cocktail con il rum e i liquori. Al Sud imperdibili i rosati.
- Identikit del bicchiere dei millennials. Se non si condivide sui social non esiste. Fotografarlo e pubblicarlo su Instagram è diventato più importante del bere in compagnia.
- Ogni bevuta è differente. Come scegliere tra alcolici e analcolici e non perdersi nella «giungla» delle liste dei bar.
- Il bon ton a tavola. Per il pre cena perfetto servono due regole: cibi piccoli che si possano gustare in un boccone e i cocktail devono essere preparati dal padrone di casa.
- Ecco la guida dedicata alla Sicilia: dove andare per godersi il vero cibo.
Lo speciale contiene sei articoli e una gallery fotografica.
Da Ippocrate al conte Negroni passando per il palazzo di Cnosso e la bottega di un tal signor Carpano. L'aperitivo non è cosa banale, né modaiola: è un pezzo di storia mediterranea e sicuramente un segno dell'italianità. Che ha pure precisissime e rigide regole di Galateo. Ma ovviamente la volgarità del tempo presente lo ha svuotato di ogni contenuto culturale, degradandolo a semplice moda. Come al solito a fregarci è stata la contaminazione con pratiche consumistiche che poco o nulla hanno a che vedere con lo stile di vita italiano e con un rapporto del tutto meditato e colto con il cibo. Hanno coniato anche un lemma vomitevole come apericena: una bestialità linguistica e un contro senso gastronomico. Perché semmai l'aperitivo nel suo valore più autentico è un apri cena.
Guardando alla contemporaneità l'aperitivo si può dire morto e sepolto se non in alcune esclusive enclaves. Tutto il resto è happy hour cioè volgarizzazione di un rito che talvolta sfocia nel mito, ma che ha originato un business assai notevole. Non è affatto esagerato parlare di cocktail economy in Italia. Due considerazioni al volo per capirci. Il mercato degli spiriti in Italia vale all'incirca 3 miliardi e l'export del nostro Paese è in crescita. Se ci mettiamo anche il vino arriviamo a oltre 7 miliardi di export per un mercato che vale complessivamente 20 miliardi, aggiungendo la birra arriviamo a 22. Ma se questo è il business all'origine ci vanno aggiunti i valori del mercato dei bar che secondo la Fipe è pari a18 miliardi e dà lavoro a 360.000 persone. Messi tutti insieme quelli che ce la danno a bere - da chi produce vino a chi miscela i cocktail - fanno un esercito di 2,2 milioni di persone. Senza contare che alcuni dei colossi della nostra economia da Campari (controlla il 45% dei marchi globali, ha un fatturato che sfonda il miliardo e 700 milioni) a Branca fanno i soldi proprio con i liquori e che l'Italia continua ad essere uno dei competitor più forti a livello mondiale tant'è che i maggiori gruppi da American Spirits a Constellation a Bacardi a Pernod Ricard continuano a venire nel Bel Paese a fare shopping. L'ultima acquisizione importate è quella proprio di Pernod che si è comprata Malfy il gin italiano di maggior peso. E Sandro Boscaini – mister Amarone – presidente di Federvini al recentissimo Vinitaly ha messo in luce che se «indubbiamente il vino italiano ha avuto una buona performance sui mercati esteri con un valore di export attorno ai sei miliardi, a fare notizia è il boom di vendite degli alcolici che all'estero hanno fatto un più 16 per cento e dei superalcolici che hanno aumentato di un quarto il loro export». Dunque sull'aperitivo che sta rinascendo sotto forma di impulso consumistico non c'è da scherzare. Anche perché il 2018 ha visto una ripresa dei consumi di alcol abbastanza rilevante trainata dal vino, ma con una ripresa anche dei superalcolici. E tra questi dati ve ne sono anche di preoccupanti: il cosiddetto bringe drinking – bere smodatamente fuori pasto – che riguarda quasi l'11 per cento di maschi il 32 per cento di donne sopra gli 11 anni con una platea di bringe drinker stimata in oltre 4 milione di persone di cui almeno un 30 per cento adolescenti.
Questa è al faccia cattiva dell'aperitivo o se si preferisce del consumo di alcol lontano dai pasti. Che purtroppo riguarda i ragazzini. Circa il 10 per cento degli adolescenti italiani dichiara di aver preso la prima sborni a 13 anni. È la faccia importata dall'estero perché l'aperitivo per gli italiani è sempre stato, da tempo immemore un'altra cosa. Per paradosso tornare al classico aperitivo è il solo modo per fermare questa pericolosissima deriva. Anche perché l'happy hour è ormai diventato fenomeno di socializzazione, forse l'unico contatto relazionale reale che è rimasto ai giorni nostri. Non a caso secondo una statistica condotta da Google le fascia di età tra 18 e 45 anni l'app più cliccata è quella per trovare amici con i quali fare un aperitivo. Ci si dà appuntamento via social e poi si va a frequentare un determinato locale con i bar tender che sono diventati quasi più famosi dei disk jockey. Quella di barman è oggi una delle professioni più appetite dai giovani. Desiderosi di emulare personaggi come Bruno Vanzan, romano trentenne ma che lavora a Milano, Salvatore Calabrese, napoletano che ha scritto il primo ricettario al mondo per cocktail, Fabio Raffaelli pavese che ha fatto grandi i bar della famiglia Bastaniach, Mattia Pastori anche lui di Pavia che è stato eletto miglior bartender d'Italia, Giancarlo Mancino il mixologist giramondo che partito dalla Basilicata ha aperto un bar ad Hong Kong ed è diventato il riferimento del jet set della finanza oltre a produrre un suo vermouth.
E nelle biografie di questi maestri del mixer c'è tutta la storia del vero aperitivo italiano che è cosa assai diversa dall'happy hour. Perché l'ora felice è un abbuffata a prezzo fisso dove si mangia e si beve qualsiasi cosa, l'aperitivo invece è un rito. Che ha una sua definizione anche territoriale.
A raccontarcelo è la storia.
Tutto comincia più o meno con Ippocrate che scopre come dare qualcosa di amaro agli inappetenti aiuta ad aprire lo stomaco e ad invogliarli al pasto. Siamo le V secolo a.c. e Ippocrate prepara una bevanda a base di vino dolce con messi a macerare fiori di dittimo, foglie di ruta e assenzio. Un successo che però pare fosse già in voga a Creta durante la civiltà micenea se è vero com'è vero che nel palazzo di Cnosso sono state trovate tracce del più antico aperitivo della storia: noccioli di olive in salamoia, resti di cagliata, gaette di farro e vino resinato. Una pratica che piaceva tanto ai romani che s'inventano il mulsum, vino mescolato al miele, che si consumava con datteri, olive, gallette, formaggi acidi. E anche i romani conoscevano il vinum hippocraticum a cui avevano dato proprio il nome di aperitivo, appunto per aprire gli stomaci al pasto principale. E invece noi oggi con l'happy hour tendiamo a sostituire il pasto con quello che un tempo fu l'aperitivo. Così esclusivo da generare l'interesse degli aristocratici. Basti dire che i caffè storici di Venezia, di Firenze di Genova fin dai primi del Settecento facevano a gara a imbandire gli aperitivi che si consacrano quando il signor Carpano a Torino, siamo nel 1786, apre la sua bottega dove vendere il vermouth, il vino aromatizzato. Che piace tanto ai nobili da far entrare con i Gancia il vermouth a corte Savoia i quali battezzano anche con il Garibaldi – bitter, succo d'arancia ghiaccio – l'aperitivo dell'unità d'Italia. L'aperitivo diventa così importante che nasce una vera e proprio industria attorno agli amari, ai bitter in una disputa continua tra Torino e Milano. Ma la notorietà internazionale dell'aperitivo italiano viene con un conte fiorentino che solitamente pigliava il suo Americano ( bitter, vermouth, soda e un po' di frutta) al Caffè Casoni (poi diventato Giacosa) nella Firenze della belle Epoque. Un giorno chiese al barman Angelo Tesauro – o forse era Fosco Scarselli – di sostituire la soda con il gin come usava a Londra dove il conte aveva i suoi affari. Nacque così il cocktail più famoso al mondo il (Vallo) Negroni. Ma la storia italiana è piena di cocktail inventati per gli aperitivi diventati delle attrazioni mondiali. Basti pensare alle invenzioni di Cipriani come il Bellini o il Mimosa, o addirittura al Martini cocktail intorno al quale sono nate leggende. Certo è che l'Italia è la patria dell'aperitivo inteso come incontro prima di cena, come frequentazione del caffè come salotto, come quotidiano evento mondano. Nulla a che vedere con le abbuffate di alcol e stuzzichini che vano di moda oggi. Anche se come ogni fenomeno di costume anche l'aperitivo o happy hour che sia si sta evolvendo. Ad esempio sta tornando di moda il vino che anche grazie al boom del Prosecco è diventato sinonimo di aperitivo, si torna alla formula veneziana del cicchetto e dell'ombra che ha reso famosi i bacari, recupera terreno il tramezzino che fu battezzato niente meno che da Gabriele d'Annunzio, forse il primo copy della storia, non perde quota lo spritz, anzi, e in Italia che ora cominciato a produrre tra i miglior gin al mondo è tornato di gran moda il vermouth. La tradizione come antidoto alla modernità.
Italia che vai aperitivo che trovi
L'Italia è la patria dell'aperitivo. Lo praticavano i nobili, piaceva molto ai ceti popolari. Basti pensare a quel rito mai tramontato che l'ombra a Venezia. Perché si chiama ombra? Oh bella perché i venditori di vino seguivano l'ombra proiettata dal campanile di San Maro per stabilire quale vendere e a quale gradazione accompagnandolo sempre con un cicchetto, che non è la bevanda, ma lo scartosso di pesce fritto o il baccalà con cui accompagnare generose bevute. E si può dire che l'aperitivo popolare sia davvero appannaggio del nord est. Perché ad esempio in Friuli è nato il taj che era niente altro che il bicchiere tagliato nel quale versare il tocai (oggi ci tocca chimarlo Friulano) da accompagnare con il salame all'aceto o con il frico. E sempre dal nord est, ma siamo nel trevigiano, viene lo Spritz che pare la versione ottocentesca del vino d'Ippocrate. Si fa con Prosecco, amaro, acqua frizzate e una buccia d'arancia. E il Prosecco è anche il protagonista del più raffinato tra i cocktail del nord est i Bellini nato all'Harry's Bar di Venezia dove è stato miscelato vino spumante e nettare di pesche. Da qui una lunga derivazione di cocktail e long drink che esaltano il rapporto tra vino spumante e frutta.
Ma la storia dell'aperitivo ci consegna una mappa d'Italia assai variegata quasi a dire paese che vai bevuta che trovi. Proviamo a individuare luoghi e tendenze.
Nel Nord Est è il trionfo del Prosecco e dello Spritz. Il vino spumante che da Conegliano-Valdobbiadene dove è Docg ormai si produce in quasi tutto il Veneto (se ne parla poco ma ottimo è il Prosecco di Asolo che è una Doc a parte) e in Friuli (Prosecco Doc). Qui si consuma con lo scartosso di pesce, con il baccalà mantecato con la polenta abbrustolita, con formaggi come Asiago e Montasio.
A Milano l'aperitivo non esiste più, c'è solo happy hour che significa bere qualsiasi cocktail insieme con le più svariate proposte gastronomiche. Milano però è anche la fabbrica delle tendenze e proprio da Milano ha preso il via la grande produzione di gin all'italiana tale da aver imposto uno stile tricolore a questo distillato britannico. Altra tendenza che si sta imponendo è il Pirlo. Arriva da Brescia e si fa con vino bianco secco e Campari e aggiunta di seltz. Ma oggi viene preparato con maggiore raffinatezza sfruttando i grandi spumanti di Franciacorta (ma che varrebbe la pene di bere da soli). Nella zona pavese invece vano di moda i grandi spumanti dell'Oltrepò. Sia nel bresciano che nel pavese l'accompagnamento classico è con salumi, formaggi, sovente assaggi di paste e di riso. Arrivando a Torino si torna a parlare di Vermouth. Qui addirittura è rinato il consorzio di tutela del vino aromatizzato con le erbe che è stato il vero antesignano degli aperitivi all'italiana. Ma anche a Torino oggi trionfa l'happy hour e assai meno l'aperitivo classico. Anche se la nuova tendenza, cha riva dalle Langhe e dal Monferrato, è quello di fare l'aperitivo in enoteca stappando le bottiglie dei grandi vini piemontesi (Barolo, Barbaresco, Barbera, ma anche la riscoperta di Arneis e spumanti di Alta Langa) da accompagnare con i formaggi d'autore (dal Castelmagno ala Toma). In Emilia si va dal classico torta fritta, gnocco fritto, tigelle salumi, lambrusco e gutturnio al modaiolissimo happy hour della Riviera riminese con i bar tender che fanno i cocktail acrobatici con la riscoperta del rum che era passato un po' di moda. Ma oggi i veri ingredienti dei mixologist di maggior rilievo sono le grappe aromatizzate o liquori distillati di menta e di frutta (la selezione AB di Antonella Bocchino o i distillati di Capovilla sono quelli che vano per la maggiore). Scendendo lungo la riviera adriatica nelle Marche il Verdicchio, la Passerina spumante oggi sono i vini di maggior appeal per l'aperitivo che si fa con i pesci in griglia o con i pecorini e il mitico ciauscolo (salame morbido). Più o meno lo stesso rito dell'Abruzzo dove però entrano in gioco, molto diluiti anche i liquori di erbe, i vini rosati da Montepulciano, il Trebbiano e la Cocciola bianchi austeri da accompagnare con ventricina, pecorini, lenticchie, fritti di mare. Molto più modaiola è la Puglia che certo ha di che stupire con friselle, burrate e vini bianchi e soprattutto rosati salentini ma che a taralli e bombino bianco finisce per preferite gli accenti nordici dell'happy hour. Restano fedelissime alla tradizione dell'aperitivo la Sicilia e così la Campania che di solito accompagnano i loro cibi di strada (arancini pane e panelle, pizza fritta, calzoni, caponatine) con i grandi vini e solo talvolta cedono ala tentazione del cocktail. Roma è la capitale degli aperitivi internazionali con una spiccata tendenza a preferire i cocktail latino americani, mentre in Toscana l'aperitivo Negroni a parte è ancora grandi vini con salumi, pane formaggio.
Ma se queste sono le tendenze classiche oggi c'è anche da fare i conti con quelle salutistiche. E dunque stanno prendendo quota i locali dell'aperitivo bio dove gli smoothies le centrifughe e le tisane sanno sostituendo vini e cocktail mentre non conosce flessione il consumo di bibite analcoliche.
Identikit dell'aperitivo dei millennials
Se non è social l'aperitivo non è. Almo questo è ciò che vogliono i millennials (i giovani nati a cavalo dei due millenni che peraltro sono i più forti consumatori di aperitivi in Italia.
Peraltro un giovane su due esce almeno due volte alla settimana per fare l'aperitivo e si affida ad una app che va per la maggiore (si chiama Happy) che serve per individuare il locale giusto.
Secondo una ricerca commissionata da Martini a TradeLab sulle nuove tendenze in fatto di aperitivo italiano sono oltre 1,3 milioni i residenti a Milano, Roma e Bari che hanno consumato un aperitivo fuori casa negli ultimi 6 mesi (52% uomini e 48% donne). La percentuale dei frequentatori è pari all'89% ma sale al 91% tra i più giovani (18-24). L'aperitivo è un modo per passare dai social alla frequentazione di persone in carne ed ossa. A Milano c'è una spiccata preferenza per i cocktail/lounge bar e i locali di tendenza (62%) al Sud, dove si continuano a frequentare i locali tradizionali (30,7%), a Bari in particolare; per circa il 28% dei frequentatori non perdono d'appeal i bar storici, le enoteche e i locali sulla spiaggia, soprattutto a Roma.
Le tendenze più recenti sono quelle di frequentare locali specializzati come le formaggerie, le ostricherie, le pizzerie gourmet dove l'aperitivo diventa sostitutivo dei pasti e la socialità si prolunga fino a tardi. Sei consumatori su 10 dichiarano che l'aperitivo sostituisce la cena, il 28% degli intervistati va a casa subito dopo, il 21% afferma che è l'inizio della serata che prosegue in altri locali, solo il 9% dichiara che diventa il centro di tutta la serata. Le abitudini cambiano tra Nord e Sud. Circa 2 su tre dichiarano di frequentare locali con apericena anche se molti ritengono che non sia questa la vera gastronomia italiana. Al Sud i su quattro vuole l'aperitivo con patatine e noccioline che non sia affatto sostituivo della cena a differenza del Nord dove si preferisce il buffet se non addirittura l'aperitivo gourmet.
La spesa media è pari a 7,8 euro, ma varia molto tra Nord e Sud; si passa dagli 8,4 euro di Milano ai 6,3 di Bari. Tra le preferenze un terzo sceglie il cocktail, un terzo il Prosecco, e il resto è diviso tra spumanti, vini fermi e superalcolici.
L'universo degli aperitivi
Tutto può essere aperitivo ma bisogna intendersi sul significato.
Se intendiamo aperitivo in senso classico dobbiamo distinguer tra alcolico e non alcolico.
Tra gli analcolici ci sono i preparati dai bibitari che sono i soliti bitter analcolici, gli sciroppi di frutta o di erbe (ottimo ad esempio è lo sciroppo di sambuco) ma anche gli smoothie e le centrifughe. Poi c'è il grande capitolo dei vini. Tra i preferiti ci sono gli spumanti che possono essere sia metodo classico (cioè rifermentati in bottiglia come il Franciacorta, il Trento Doc, l'Alta Langa, i brut marchigiani, quelli dell'Oltrepò pavese) sia gli charmat (o metodo Martinotti cioè rifermentati in autoclave) come il Prosecco, la Passerina. Poi c'è il grande capitolo dei vini bianchi (ottimi aperitivi sono il Verdicchio, il Vermentino, il Grillo, il Greco di tufo e la Falanghina, il Pigato, lo Chardonnay franciacortino, il Pinot Bianco e il Friulano, la Nosiola trentina) e dei vino rossi fermi L'ultima tendenza però è la scoperta dei rosati: da quelli del Salento, al Chiaretto di Bardolino al Valtenesi del Garda, fino ai rosati abruzzesi.
Si passa poi all'universo dei cocktail. Che si dividono sostanzialmente in du categorie: i long drink e i cocktail veri e propri. Una categoria a parte è quella dei bitter (Campari, Aperol, gli amari allungati) che entrano sovente anche come ingredienti nei cocktail. Ora è tornato di gran moda il Vermouth che è sostanzialmente vino fortificato ed aromatizzato con le erbe, mentre un grande ritorno è quello dei vini da meditazione come ad esempio Marsala, Vernaccia di Oristano o Moscato di Scanzo che stanno trovando nuovi estimatori.
Il bon ton dell'aperitivo
L'aperitivo è quasi un obbligo quando si invita per ricevere. Sia che l'invito sia fatto al ristorante che a casa sarà necessario per na perfetta padrona di casa prevedere una sosta nella propria abitazione per offrire ad ospiti ed amici un aperitivo. Ci sono alcune regole basilari da rispettare. Innanzitutto già all'atto dell'invito bisogna specificare se si farà un aperitivo. L'orario varia a seconda delle regioni italiane: diciamo che va previsto circa un'ora e mezzo prima del pranzo (inteso come pasto principale) per cui al Nord l'ora ideale e attorno alle 18 al Sud si può scivolare fino alle 19.30.
La prima regola è di allestire un buffet dove ci siano degli amuse bouche da potersi mangiare in un sol boccone: avremo così tramezzini – è bello ricordare che il nome lo dette Gabriele d'Annunzio a questo panino che abbiamo ereditato da lord Sandwich anche se c'è chi sostiene che il primo a proporlo sia stato Leonardo da Vinci alla corte dei Ludovico il Moro – piccoli panini, tartine, volendo un fritto leggero, dei bocconcini di formaggio, ma anche un piccolo pinzimonio e poi frutta secca salata, volendo patatine che sarebbe meglio fare in casa. La seconda regola è che i cocktail devono essere preparati dal padrone di casa che ha anche il compito di servire i vini. Unica eccezione, i vini spumanti che possono essere serviti dalla padrona di casa che li offrirà agli ospiti a mano a mano che arrivano. Per un aperitivo mai aspettare che siano giunti tutti gli ospiti. È d'obbligo che vi siano piattini di porcellana o ceramica, bicchieri adeguati sempre in cristallo o al massimo in vetro e di forme adeguate ai vini o ai cocktail che si servono (flute per gli spumanti, bicchieri da Martini per cocktail alcolici, trumble per cocktail più leggeri o long drink). Sarà necessario allestire diversi tavolinetti in modo che gli ospiti possano poggiare i piatti o i bicchieri. La dotazione per ogni ospite sarà: un piattino, un tovagliolino sempre di stoffa e sempre in colori tenuti e naturali, un bicchiere. Bandite la plastica e la carta. Indispensabile che ci sia sempre oltre agli alcolici e ai vini abbondante acqua che sarà servita in caraffe differenti (gassata e liscia) e almeno un cocktail analcolico da accompagnare con spiedini di frutta. Bandita la musica perché l'aperitivo deve essere un prologo al pranzo e deve stimolare oltreché l'appetito anche la conversazione. Se si scelgono delle candele non devono essere profumate. Il profumo ammesso è quello dell'amicizia!
Petra Carsetti
Sicilia terra di aperitivo. Ecco la guida su dove andare per goderselo a fondo
È vero, quando parliamo di aperitivo, la prima città a cui lo si associa è sicuramente Milano, ma nonostante da quasi trent'anni, la città meneghina abbia abbracciato questo celebre rito erigendolo ormai a precetto culturale, le sue origini italiane sono da ricercare in quel di Torino, grazie all'invenzione del Vermouth, vino aromatizzato che pare abbia fatto andare in visibilio persino re Vittorio Emanuele II.
Ma si sa, le abitudini si tramandano, e a più di duecento anni dalla sua nascita, si può senza ombra di dubbio affermare che questa consuetudine più o meno mondana sia diventata patrimonio di tutta la penisola, conquistando tutto lo stivale, fino alla Sicilia.
Qui, sempre più locali regalano all'happy hour siciliano un'atmosfera trendy senza rinunciare ai suoi sapori goderecci: noi ve ne proponiamo alcuni, per la gioia dei vostri palati.
Fud Off, Catania
Via Santa Filomena, 28 - Catania
In una delle strade più gastronomiche di Catania, dove ogni bottega è un ristorante, nasce Fud Off, secondogenito di FUD bottega sicula, a sua volta fratello maggiore dell'omonimo ristorante aperto l'anno scorso a Milano. Prendendo in prestito dalla Spagna la formula "tapas", il proprietario ed ex foodblogger Andrea Graziano ha trasformato un'officina di moto d'epoca, in un cocktail bar; il locale è piccolo, con luci soffuse, e sfruttando le origini della vecchia bottega, è tutto arredato in stile industriale, dove la forte impronta del ferro regala all'ambiente un design contemporaneo. Il menù trabocca di Sicilia, con l'aggiunta però di proposte creative che non stuzzicano solo la vista ma soddisfano anche il palato, come le panelle ricci e gamberi, le ostriche croccanti o la catalana ai sei frutti rossi. Ma tanta Sicilia la troverete anche nel bicchiere: i prodotti utilizzati arrivano direttamente da piccoli produttori della regione, e accanto ai grandi classici, troverete dei cocktail in versione siciliana (o come vengono qui definiti in perfetto stile Fud "coctel siculi") come l' "Etna Spritz" e il "Milano Torino Catania", grazie anche all'utilizzo del primo vermouth tutto siciliano.
48 Speakeasy, Messina
Location segreta
Il 48 Speakeasy è un luogo un po' magico in una location segreta, e per accedervi è necessaria la tessera. Qui Duilio, Francesco e Domenico vi regaleranno un'atmosfera dove il tempo sembra essersi fermato, proponendovi la loro selezione di cocktails totalmente reinterpretarti; ed è grazie a questa rivisitazione che nasce ad esempio il Garlic Bloody Mary, una versione più audace di quella classica, impreziosita dal giusto pieno e morbido dell'aglio nero di Voghera. Altre curiose proposte sono anche il gin alla carota viola e la tequila con vero bacon, tutte descritte nei bellissimi e originali menù in stile tabloid. L'attenzione ad ogni dettaglio, infatti, la si percepisce anche da qui: i menù (rigorosamente in vendita), possono essere definiti dei piccoli pezzi d'arte: ognuno conserva al proprio interno una storia narrativa, parlando d'amore, di profumi e di emozioni; vietato quindi, stropicciarlo o usarlo come sottobicchiere. E come ogni speakeasy che si rispetti ha le proprie regole, tra cui la chiusura alle 01.48, non condividere fotografie su nessun social network e soprattutto non parlare mai del 48.
Anche gli angeli, Noto
Via Arnaldo da Brescia, 2 - Noto SR
All'interno dell'incantevole Noto, nel suo centro storico, ma al contempo in uno dei suoi angoli più nascosti, c'è un delizioso rifugio, una cornice nella cornice: è una cripta settecentesca che fa da ambientazione al concept store "Anche gli Angeli", una visione più ampia di un semplice locale, un luogo dove la suggestiva atmosfera siciliana unisce ristorante, Lounge bar, negozio e Book Corner. Ci si può sedere e consultare un libro, si possono acquistare prodotti della migliore sicilianità, si può assistere a mostre ed eventi artistici organizzati ad hoc, ma soprattutto si può bere e mangiare bene: la proposta gastronomica è rustica ma di alta qualità, così come i cocktails, con diverse versioni di mojito per tutti i gusti, come il Midori o il "Sicilianito" con pomodoro Pachino e foglie di basilico. Quindi perché non concedersi un romantico aperitivo, quando l'accurata scelta musicale regala all'ambiente un effetto ancor più seducente?
Bocum Mixology, Palermo
Via dei Cassari, 6 - Palermo
Non lontano dall'antico mercato della Vucciria, nel cuore pulsante del centro storico di Palermo, si trova il Bocum, un lounge bar in perfetto stile nouvelle décadence premiato anche da Gambero Rosso, come migliore cocktail bar della Sicilia. Qui, dove convivono armoniosamente poltrone vintage, grandi lampadari di cristallo, piccoli modellini d'auto, un pianoforte e un originale impianto stereo a giradischi per vinili, una delle parole d'ordine sembra essere la dedizione assoluta alla filosofia del bere. Come definito dai proprietari, i vini protagonisti nel menù sono solo quelli a conduzione "emozionale", (il Bocum è anche la prima cantina di vini naturali nel sud della Sicilia) e i drink vengono creati seguendo la raffinata arte della Mixology. Questa filosofia è l'ultima frontiera del mondo dei cocktail, che ha trasformato i drink in una miscela delicata e ricercata di ingredienti, innalzando i barman a concreti alchimisti del terzo millennio. E così, tra un Carosello Siciliano, un Ottovolante, un Omaggio a Kipling e un Etna Mule, l'aperitivo viene accompagnato da salumi e formaggi locali, tapas e piatti dello chef; e se siete amanti della musica jazz, il giovedì sera, grazie alle esibizioni live, vi sentirete in assoluto, nel vostro ambiente ideale.
Cantiere 12.25, Agrigento
Via Atenea 200 – Agrigento
Dopo una visita alla Valle dei Templi, un ottimo modo per proseguire la serata potrebbe essere quello di dirigersi verso il centro storico di Agrigento, imboccare le viuzze che portano all'inizio della salita del Monte dei Pegni, davanti alla scalinata impreziosita da piccoli murales e fermarsi per un aperitivo nella caratteristica piazzetta, al Cantiere 12.25.
Il locale è in stile underground, cercando di ricreare all'interno uno design industrial e volutamente finto trasandato.
Nel menù si trovano tutte specialità della casa: focaccelle, caponata di pesce spada, arancini ai frutti di mare, ma soprattutto il "pani cunzatu", una pagnotta condita con olio extravergine, pomodori, primo sale siciliano, acciughe e capperi: delizioso. Il tutto da accompagnare con le ottime birre artigianali made in Sicily. Infine, ma non meno importante, da premiare la simpatia dello staff e la gentilezza del proprietario, che vi diletterà spiegando i liquori preparati da lui e facendovi assaggiare un particolarissimo rum al miele.
Boheme Mixology, Catania
Via Montesano, 27/2 - Catania
In uno dei tipici vicoletti catanesi che ricordano vagamente le strade di New Orleans degli anni Cinquanta, c'è un bar in stile speakeasy, dall'aria retrò e un'atmosfera dove il tempo sembra non esistere: è il Bohème. Immersi in un ambiente elegantemente vintage, ci si può rilassare con un po' di musica in sottofondo, sorseggiando dei signori cocktail. Anche qui l'arte della mixology rivela la sua forte impronta, assumendo una sfumatura ulteriormente raffinata, perché una delle caratteristiche del Bohème è la preparazione di drink "su misura". I cocktail nascono dalle chiacchierate con gli ospiti; i proprietari Bruno e Salvo supportati da un capacissimo staff cercano di capire le loro preferenze, divertendosi a interpretare il ruolo di "psicologi del gusto", per poi realizzare cocktail "tailor made"; creando ogni volta qualcosa di diverso. Fanno così capolino bicchieri ricoperti di cioccolata fondente e nocciole, cocktail internazionali realizzati con centrifughe e succhi di frutta fresca, wishkey al miele, vodka alla cannella e specialità gluten free. Insomma, anche qui i barman si elevano a veri e propri artisti, tanto da far venir voglia di bere e provare qualche cocktail anche ai rigorosamente astemi!
Fratelli Burgio al porto, Siracusa
Passeggio Aretusa, 4 - Siracusa
Dietro questo locale c'è la storia e il successo di un'intera famiglia, iniziata più di trent'anni fa con la nascita della salumeria Burgio; nel 2015, con la sfida della terza generazione è nato "Fratelli Burgio al Porto". L'idea di aprire un chiosco nell'incantevole porto di Siracusa restando fedeli ai sapori di un tempo e alla materia prima di estrema qualità, si è rivelata vincente; il locale è ormai diventato un punto di riferimento per giovani e meno giovani, turisti e non. L'amore per la genuinità dei prodotti fatti in casa rivive dietro il bancone, grazie all'ottima scelta di vini, dei cocktail e delle specialità da stuzzicare fatte recapitare direttamente dalla storica salumeria. A rendere più affascinante questo vecchio chiosco riportato in auge la meravigliosa posizione che affaccia sul mare e sul porto di Siracusa e la musica di sottofondo che non manca mai. Insomma, non c'è passeggiata sul lungomare siracusano che si rispetti senza una sosta da Burgio al Porto: un'autentica garanzia.
Botteghe Colletti, Palermo
Via Alessandro Paternostro, 79 - Palermo
Da tre anni, in una stradina laterale nel centro storico di Palermo, si distingue un locale dal gusto decisamente retrò, punto di riferimento della movida radical chic palermitana, dov'è possibile assaggiare un ottimo negroni affumicato: "Le Botteghe Colletti". Il sapore vintage appare già dalla meravigliosa insegna: un'originale del 1907 della vecchia sartoria Colletti (da cui il nome del locale). Piccolo, ma caratterizzato da una forte particolarità degli arredi: tende teatrali, candele in vecchie bottiglie di gin, gigantografie anni'20 alle pareti è condotto con grande passione da Alessandro e Vincenzo, proprietari e artisti: Alessandro, sfodera la sue capacità creative in cucina; Vincenzo è un artista artigiano che realizza splendidi bicchieri e attrezzature da barman professionista. Perfetti negroni e gin tonic, un generoso buffet e buona musica in una location retrò: ecco confezionata un'atmosfera d'altri tempi che rende tutto più pittoresco.
Highlander Pub, Piazza Armerina
Piazza Giorgio Boris Giuliano, 52, Piazza Armerina (EN)
Gestito dalla famiglia Scoppo al completo, due genitori e tre figli maschi, grazie al suo bellissimo allestimento Irish, l'Highlander è un punto di riferimento nella Città dei Mosaici. Emilio, Riccardo e Davide esprimono la loro passione e creatività nella preparazione dei cocktail: ecco così nascere lo Spicy Margarita al maracuja con crusta di tajin (spezia messicana) lime e chilli disidratati e datterini gialli in acqua di mare. Oppure l'eclissi di Nonna Lina, con gin, marsala, acqua di cedro, Martini e soda al pomodoro homemade, il tutto servito con capperi e ricotta su una foglia di basilico. Un drink dedicato alla nonna e al territorio che rappresenterà la Sicilia e tutto il sud Italia al contest Mt magazine come migliore cocktail bar d'Italia. A papà Filippo invece il compito di occuparsi delle proposte gastronomiche: ottimi i suoi hamburger preparati ad hoc con sola carne scelta. In perfetto stile Irish pub non si smentisce sull'ottima scelta delle birre, all'ambientazione chiaroscuro e ovviamente sulla scelta della musica dal vivo.
Sunset, Ortigia
Lungomare Alfeo - Siracusa
Si può essere d'accordo o meno con Cicerone, quando descriveva Siracusa come la più bella delle città della Magna Grecia; di sicuro Ortigia, l'isolotto che costituisce la sua parte più antica è una perla che offre tramonti spettacolari sul mare. Un ottimo posto dove gustarsene uno, sorseggiando un moscow mule o un mojito è il Sunset, direttamente sulla terrazza della Marina a pochi passi da castello Maniace. Il menù è semplice ma di qualità: taglieri di salumi e formaggi locali accompagnati da conserve e pane carasau e le sfiziose patatine "sunset" con scaglie di parmigiano e limone. Ma la posizione vince su tutto: lo spettacolo impagabile, con lo sguardo perso sui colori del tramonto di Ortigia e l'udito che si fa viziare dall'ottima selezione musicale.
E in questo tripudio di cocktail, leccornie, e stupende location, cos'altro aggiungere se non una citazione del premio Nobel Anatole France: «Ah, la Virtù: potessi un dì raggiungerla… Intanto, versatemi da bere!»
Alessandra Giussani








































