2019-04-22
L'Italia patria dell'aperitivo ora si abbuffa di happy hour
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Da Ippocrate al conte Negroni passando per il palazzo di Cnosso e la bottega di un tal signor Carpano. L'aperitivo non è cosa banale, né modaiola: è un pezzo di storia mediterranea e sicuramente un segno dell'italianità. Che ha pure precisissime e rigide regole di galateo.Italia che vai brindisi che trovi. Nel Nord Est è il trionfo del Prosecco e dello Spritz. In Emilia vincono i cocktail con il rum e i liquori. Al Sud imperdibili i rosati. Identikit del bicchiere dei millennials. Se non si condivide sui social non esiste. Fotografarlo e pubblicarlo su Instagram è diventato più importante del bere in compagnia. Ogni bevuta è differente. Come scegliere tra alcolici e analcolici e non perdersi nella «giungla» delle liste dei bar.Il bon ton a tavola. Per il pre cena perfetto servono due regole: cibi piccoli che si possano gustare in un boccone e i cocktail devono essere preparati dal padrone di casa. Ecco la guida dedicata alla Sicilia: dove andare per godersi il vero cibo.Lo speciale contiene sei articoli e una gallery fotografica.Da Ippocrate al conte Negroni passando per il palazzo di Cnosso e la bottega di un tal signor Carpano. L'aperitivo non è cosa banale, né modaiola: è un pezzo di storia mediterranea e sicuramente un segno dell'italianità. Che ha pure precisissime e rigide regole di Galateo. Ma ovviamente la volgarità del tempo presente lo ha svuotato di ogni contenuto culturale, degradandolo a semplice moda. Come al solito a fregarci è stata la contaminazione con pratiche consumistiche che poco o nulla hanno a che vedere con lo stile di vita italiano e con un rapporto del tutto meditato e colto con il cibo. Hanno coniato anche un lemma vomitevole come apericena: una bestialità linguistica e un contro senso gastronomico. Perché semmai l'aperitivo nel suo valore più autentico è un apri cena. Guardando alla contemporaneità l'aperitivo si può dire morto e sepolto se non in alcune esclusive enclaves. Tutto il resto è happy hour cioè volgarizzazione di un rito che talvolta sfocia nel mito, ma che ha originato un business assai notevole. Non è affatto esagerato parlare di cocktail economy in Italia. Due considerazioni al volo per capirci. Il mercato degli spiriti in Italia vale all'incirca 3 miliardi e l'export del nostro Paese è in crescita. Se ci mettiamo anche il vino arriviamo a oltre 7 miliardi di export per un mercato che vale complessivamente 20 miliardi, aggiungendo la birra arriviamo a 22. Ma se questo è il business all'origine ci vanno aggiunti i valori del mercato dei bar che secondo la Fipe è pari a18 miliardi e dà lavoro a 360.000 persone. Messi tutti insieme quelli che ce la danno a bere - da chi produce vino a chi miscela i cocktail - fanno un esercito di 2,2 milioni di persone. Senza contare che alcuni dei colossi della nostra economia da Campari (controlla il 45% dei marchi globali, ha un fatturato che sfonda il miliardo e 700 milioni) a Branca fanno i soldi proprio con i liquori e che l'Italia continua ad essere uno dei competitor più forti a livello mondiale tant'è che i maggiori gruppi da American Spirits a Constellation a Bacardi a Pernod Ricard continuano a venire nel Bel Paese a fare shopping. L'ultima acquisizione importate è quella proprio di Pernod che si è comprata Malfy il gin italiano di maggior peso. E Sandro Boscaini – mister Amarone – presidente di Federvini al recentissimo Vinitaly ha messo in luce che se «indubbiamente il vino italiano ha avuto una buona performance sui mercati esteri con un valore di export attorno ai sei miliardi, a fare notizia è il boom di vendite degli alcolici che all'estero hanno fatto un più 16 per cento e dei superalcolici che hanno aumentato di un quarto il loro export». Dunque sull'aperitivo che sta rinascendo sotto forma di impulso consumistico non c'è da scherzare. Anche perché il 2018 ha visto una ripresa dei consumi di alcol abbastanza rilevante trainata dal vino, ma con una ripresa anche dei superalcolici. E tra questi dati ve ne sono anche di preoccupanti: il cosiddetto bringe drinking – bere smodatamente fuori pasto – che riguarda quasi l'11 per cento di maschi il 32 per cento di donne sopra gli 11 anni con una platea di bringe drinker stimata in oltre 4 milione di persone di cui almeno un 30 per cento adolescenti. Questa è al faccia cattiva dell'aperitivo o se si preferisce del consumo di alcol lontano dai pasti. Che purtroppo riguarda i ragazzini. Circa il 10 per cento degli adolescenti italiani dichiara di aver preso la prima sborni a 13 anni. È la faccia importata dall'estero perché l'aperitivo per gli italiani è sempre stato, da tempo immemore un'altra cosa. Per paradosso tornare al classico aperitivo è il solo modo per fermare questa pericolosissima deriva. Anche perché l'happy hour è ormai diventato fenomeno di socializzazione, forse l'unico contatto relazionale reale che è rimasto ai giorni nostri. Non a caso secondo una statistica condotta da Google le fascia di età tra 18 e 45 anni l'app più cliccata è quella per trovare amici con i quali fare un aperitivo. Ci si dà appuntamento via social e poi si va a frequentare un determinato locale con i bar tender che sono diventati quasi più famosi dei disk jockey. Quella di barman è oggi una delle professioni più appetite dai giovani. Desiderosi di emulare personaggi come Bruno Vanzan, romano trentenne ma che lavora a Milano, Salvatore Calabrese, napoletano che ha scritto il primo ricettario al mondo per cocktail, Fabio Raffaelli pavese che ha fatto grandi i bar della famiglia Bastaniach, Mattia Pastori anche lui di Pavia che è stato eletto miglior bartender d'Italia, Giancarlo Mancino il mixologist giramondo che partito dalla Basilicata ha aperto un bar ad Hong Kong ed è diventato il riferimento del jet set della finanza oltre a produrre un suo vermouth.E nelle biografie di questi maestri del mixer c'è tutta la storia del vero aperitivo italiano che è cosa assai diversa dall'happy hour. Perché l'ora felice è un abbuffata a prezzo fisso dove si mangia e si beve qualsiasi cosa, l'aperitivo invece è un rito. Che ha una sua definizione anche territoriale. A raccontarcelo è la storia.Tutto comincia più o meno con Ippocrate che scopre come dare qualcosa di amaro agli inappetenti aiuta ad aprire lo stomaco e ad invogliarli al pasto. Siamo le V secolo a.c. e Ippocrate prepara una bevanda a base di vino dolce con messi a macerare fiori di dittimo, foglie di ruta e assenzio. Un successo che però pare fosse già in voga a Creta durante la civiltà micenea se è vero com'è vero che nel palazzo di Cnosso sono state trovate tracce del più antico aperitivo della storia: noccioli di olive in salamoia, resti di cagliata, gaette di farro e vino resinato. Una pratica che piaceva tanto ai romani che s'inventano il mulsum, vino mescolato al miele, che si consumava con datteri, olive, gallette, formaggi acidi. E anche i romani conoscevano il vinum hippocraticum a cui avevano dato proprio il nome di aperitivo, appunto per aprire gli stomaci al pasto principale. E invece noi oggi con l'happy hour tendiamo a sostituire il pasto con quello che un tempo fu l'aperitivo. Così esclusivo da generare l'interesse degli aristocratici. Basti dire che i caffè storici di Venezia, di Firenze di Genova fin dai primi del Settecento facevano a gara a imbandire gli aperitivi che si consacrano quando il signor Carpano a Torino, siamo nel 1786, apre la sua bottega dove vendere il vermouth, il vino aromatizzato. Che piace tanto ai nobili da far entrare con i Gancia il vermouth a corte Savoia i quali battezzano anche con il Garibaldi – bitter, succo d'arancia ghiaccio – l'aperitivo dell'unità d'Italia. L'aperitivo diventa così importante che nasce una vera e proprio industria attorno agli amari, ai bitter in una disputa continua tra Torino e Milano. Ma la notorietà internazionale dell'aperitivo italiano viene con un conte fiorentino che solitamente pigliava il suo Americano ( bitter, vermouth, soda e un po' di frutta) al Caffè Casoni (poi diventato Giacosa) nella Firenze della belle Epoque. Un giorno chiese al barman Angelo Tesauro – o forse era Fosco Scarselli – di sostituire la soda con il gin come usava a Londra dove il conte aveva i suoi affari. Nacque così il cocktail più famoso al mondo il (Vallo) Negroni. Ma la storia italiana è piena di cocktail inventati per gli aperitivi diventati delle attrazioni mondiali. Basti pensare alle invenzioni di Cipriani come il Bellini o il Mimosa, o addirittura al Martini cocktail intorno al quale sono nate leggende. Certo è che l'Italia è la patria dell'aperitivo inteso come incontro prima di cena, come frequentazione del caffè come salotto, come quotidiano evento mondano. Nulla a che vedere con le abbuffate di alcol e stuzzichini che vano di moda oggi. Anche se come ogni fenomeno di costume anche l'aperitivo o happy hour che sia si sta evolvendo. Ad esempio sta tornando di moda il vino che anche grazie al boom del Prosecco è diventato sinonimo di aperitivo, si torna alla formula veneziana del cicchetto e dell'ombra che ha reso famosi i bacari, recupera terreno il tramezzino che fu battezzato niente meno che da Gabriele d'Annunzio, forse il primo copy della storia, non perde quota lo spritz, anzi, e in Italia che ora cominciato a produrre tra i miglior gin al mondo è tornato di gran moda il vermouth. La tradizione come antidoto alla modernità.
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)
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