True
2024-02-21
Gli ex amici di Mosca fanno la morale a Trump
Angela Merkel e Joe Biden (Ansa)
Un nuovo coro di critiche si è abbattuto su Donald Trump, accusato di non aver pronunciato parole abbastanza dure contro il Cremlino sulla morte di Alexej Navalny. «La morte improvvisa di Navalny mi fa sempre più pensare a quello che sta succedendo nel nostro Paese», ha detto il tycoon, prendendosela con «politici corrotti di estrema sinistra, procuratori e giudici», ma senza nominare Vladimir Putin. Ora, è senz’altro vero che l’ex presidente qualche cosa in più avrebbe potuto e dovuto dirla. Tuttavia è altrettanto vero che alcuni leader internazionali, che oggi si stracciano le vesti, sembrano avere la memoria corta. E ci riferiamo soprattutto ad Angela Merkel e Joe Biden. Ma andiamo con ordine.
«La notizia della morte di Alexej Navalny mi riempie di grande sgomento. È divenuto vittima del potere repressivo dello Stato russo», ha dichiarato l’ex cancelliera tedesca. «Putin è responsabile della morte di Navalny. Putin è responsabile. Ciò che è successo a Navalny è un’ulteriore prova della brutalità di Putin», ha affermato l’attuale inquilino della Casa Bianca. Insomma, sia Biden che la Merkel hanno espresso parole di condanna chiare e inequivocabili. Peccato però che non siano stati altrettanto duri verso il Cremlino nei loro atti di governo.
Eh sì, perché la questione risale almeno all’agosto 2020. All’epoca, Navalny subì un avvelenamento. E, il mese successivo, l’allora viceministro degli Esteri polacco, Pawel Jablonski, chiese di fatto alla Germania di interrompere la realizzazione del gasdotto Nord Stream 2 (anche) come reazione al tentato omicidio dell’attivista russo. Una posizione, questa, che emerse pure in una mozione di risoluzione del Parlamento europeo dedicata all’avvelenamento di Navalny. «L’Europarlamento ribadisce la sua posizione sul controverso gasdotto Nord Stream 2, che è un progetto politico concepito per rafforzare la dipendenza dell’Ue dalle forniture di gas russo e minaccia il mercato interno dell’Ue poiché non è in linea né con la politica energetica dell’Ue né con i nostri interessi strategici, e pertanto necessita essere fermato», recitava quel documento. Non solo. A febbraio 2021, anche il governo francese ventilò l’ipotesi di bloccare il Nord Stream 2 come reazione alla repressione dei dissidenti da parte del Cremlino. Lo stesso senatore repubblicano del Texas, Ted Cruz, chiese di vincolare la questione di Navalny a un atteggiamento più severo verso il Nord Stream 2.
Dal canto suo, è vero che Trump evitò, a livello personale, di accusare Mosca dell’avvelenamento di Navalny. Tuttavia, già a dicembre 2019, la sua amministrazione aveva approvato delle sanzioni al Nord Stream 2, entrando in rotta di collisione con Mosca e Berlino. Inoltre, a dicembre 2020, il dipartimento di Stato americano, allora guidato da Mike Pompeo, accusò pubblicamente i servizi russi dell’avvelenamento di Navalny. «Gli Stati Uniti ritengono che gli agenti del Servizio di sicurezza federale russo (Fsb) abbiano utilizzato l’agente nervino Novichok per avvelenare il signor Navalny. Non c’è alcuna spiegazione plausibile per l’avvelenamento di Navalny oltre al coinvolgimento e alla responsabilità del governo russo», si leggeva in una nota ufficiale di Foggy Bottom.
Eppure, la Merkel di fatto non ne volle sapere di rinunciare al controverso gasdotto. Secondo lei, il dossier del Nord Stream 2 doveva essere tenuto separato da quello di Navalny. E Biden? Entrato in carica a gennaio 2021, sembrava intenzionato a tenere una linea dura, che poi però non si è concretizzata. Impose, sì, qualche sanzione ai soggetti implicati nell’avvelenamento dell’attivista, promettendo inoltre a Vladimir Putin delle «conseguenze devastanti», qualora Navalny - messo agli arresti all’inizio del 2021 - fosse morto in carcere. Tuttavia, alla prova dei fatti, l’attuale presidente americano si è rivelato tutt’altro che duro. A maggio 2021, revocò le sanzioni al Nord Stream 2 e, a luglio di quell’anno, diede l’ok al gasdotto: una mossa che fece la felicità di Putin e della Merkel ma che mandò comprensibilmente su tutte le furie Kiev e Varsavia. Ricordiamo che all’epoca Biden aveva bisogno della Russia anche come intermediario per rilanciare il controverso accordo sul nucleare iraniano.
Certo, l’allora cancelliera, incontrando lo Zar ad agosto 2021, disse di avergli chiesto la liberazione di Navalny. Però, al di là di richieste formali e dichiarazioni di principio, si è ben guardata dal colpire il Cremlino dove avrebbe potuto fargli realmente male. E lo stesso vale per Biden. Senza dimenticare Olaf Scholz, che fu vicecancelliere della Merkel dal 2018 al 2021 e che, nel 2019, criticò le sanzioni statunitensi al Nord Stream 2, parlando di «grave interferenza». Vale la pena di ricordare che, all’epoca, c’erano già state l’uccisione di Anna Politkovskaja (2006), la crisi della Georgia (2008) e l’annessione della Crimea (2014). Quindi che la Russia fosse uno Stato repressivo e aggressivo era arcinoto. Ad avere la memoria corta è anche David Axelrod, che ha accusato Trump di non essere stato sufficientemente duro con Putin sulla morte di Navalny: parliamo dello stesso Axelrod che fu senior advisor di Barack Obama dal 2009 al 2011, quando cioè l’allora presidente americano avviò una distensione con Mosca (il cosiddetto «reset russo»).
«Alexei Navalny non ha mai voluto che Joe Biden ritirasse le sanzioni di Trump al gasdotto di Putin Nord Stream 2. Sapeva che ciò avrebbe incoraggiato Putin. E così è stato», ha twittato venerdì l’ex ambasciatore americano in Germania, Richard Grenell. Trump, va detto, dovrebbe essere talvolta meno ambiguo nelle sue dichiarazioni. Ma resta il fatto che la sua amministrazione non rese facile la vita a Putin.
Anche il fratello dell’oppositore finisce nella lista nera del Cremlino
Il governo russo si è barricato dietro un muro di opacità sulla morte di Alexej Navalny, deceduto in carcere venerdì scorso. Mosca ha infatti respinto la richiesta di un’indagine internazionale, avanzata dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell. «Non accettiamo affatto tali richieste, soprattutto da parte del signor Borrell», ha affermato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, il quale ha anche negato che Vladimir Putin abbia visto il video in cui la vedova dell’attivista, Yulia Navalnaya, diceva che avrebbe proseguito il lavoro del marito. Peskov ha inoltre bollato come «infondate e rozze» le accuse della stessa Navalnaya, che aveva a sua volta attribuito al capo del Cremlino la responsabilità della morte del consorte. Proprio in quest’ottica, la vedova ha chiesto all’Ue di non riconoscere l’esito delle elezioni presidenziali russe, che si terranno il mese prossimo. «Un presidente che ha ucciso il suo principale avversario politico non può essere legittimo per definizione», ha dichiarato.
Tutto questo, mentre la madre di Navalny, Lyudmila, ha diffuso un video in cui chiede al Cremlino la restituzione della salma del figlio. «Per il quinto giorno non lo vedo, non mi danno il suo corpo e non mi dicono nemmeno dove si trova», ha dichiarato la donna. «Mi rivolgo a lei, Vladimir Putin: la soluzione del problema dipende solo da lei. Mi faccia finalmente vedere mio figlio. Chiedo che il corpo di Alexej venga immediatamente consegnato in modo che io possa seppellirlo umanamente», ha aggiunto. La richiesta della salma è stata avanzata anche dalla Navalnaya. «Non mi importa nulla di come l’addetto stampa di un assassino commenta le mie parole. Restituite il corpo di Alexej e lasciate sia sepolto con dignità, non impedite alla gente di salutarlo. E chiedo davvero a tutti i giornalisti che potrebbero ancora fare domande: non chiedete di me, chiedete di Alexej», ha affermato la vedova dell’attivista, che ieri si è vista sospendere per circa un’ora l’account X a causa di una presunta violazione delle regole di utilizzo. La piattaforma lo ha poi reintegrato, dichiarando: «Abbiamo immediatamente ripristinato l’account appena ci siamo resi conto dell’errore».
Al di là dell’opacità, il Cremlino ha anche deciso di inasprire il proprio pugno di ferro. Il fratello di Navalny, Oleg, è stato infatti inserito nella lista dei ricercati dal ministero dell’Interno di Mosca. L’agenzia di stampa russa Tass ha riportato che non è al momento chiaro con quale accusa sia finito in questo elenco.
La comunità internazionale sta intanto esercitando pressioni diplomatiche sul governo di Mosca. La Farnesina e il ministero degli Esteri belga hanno convocato gli ambasciatori russi dei rispettivi Paesi. Altrettanto ha fatto il ministero degli Esteri di Varsavia con l’ambasciatore russo in Polonia, per chiedere «un’indagine completa e trasparente» sulla morte dell’attivista. A essere convocato è stato anche l’incaricato d’affari della missione della Federazione russa presso l’Ue. Frattanto, la Casa Bianca ha annunciato nuove sanzioni contro Mosca per venerdì, esortando inoltre i cittadini statunitensi a lasciare la Russia al più presto dopo l’arresto di una cittadina russo-americana a Yekaterinburg. Garry Kasparov, dal canto suo, ha affermato che «il regime di Putin ha ucciso Alexej Navalny», non rinunciando comunque a una stoccata ai leader occidentali. «Temo che i politici occidentali preferiscano che i dissidenti siano martiri. Possono lasciare fiori e dire belle parole mentre negoziano con l’assassino», ha detto.
Continua a leggereRiduci
Il repubblicano è accusato di non essere stato abbastanza esplicito riguardo alle responsabilità dello Zar nella morte di Navalny. Dopo il primo avvelenamento del dissidente, tuttavia, furono la Merkel e Biden a blindare il Nord Stream per non rompere coi russi.L’appello della madre di Navalny: «Ridatemi il corpo». La Farnesina convoca l’ambasciatore.Lo speciale contiene due articoli.Un nuovo coro di critiche si è abbattuto su Donald Trump, accusato di non aver pronunciato parole abbastanza dure contro il Cremlino sulla morte di Alexej Navalny. «La morte improvvisa di Navalny mi fa sempre più pensare a quello che sta succedendo nel nostro Paese», ha detto il tycoon, prendendosela con «politici corrotti di estrema sinistra, procuratori e giudici», ma senza nominare Vladimir Putin. Ora, è senz’altro vero che l’ex presidente qualche cosa in più avrebbe potuto e dovuto dirla. Tuttavia è altrettanto vero che alcuni leader internazionali, che oggi si stracciano le vesti, sembrano avere la memoria corta. E ci riferiamo soprattutto ad Angela Merkel e Joe Biden. Ma andiamo con ordine.«La notizia della morte di Alexej Navalny mi riempie di grande sgomento. È divenuto vittima del potere repressivo dello Stato russo», ha dichiarato l’ex cancelliera tedesca. «Putin è responsabile della morte di Navalny. Putin è responsabile. Ciò che è successo a Navalny è un’ulteriore prova della brutalità di Putin», ha affermato l’attuale inquilino della Casa Bianca. Insomma, sia Biden che la Merkel hanno espresso parole di condanna chiare e inequivocabili. Peccato però che non siano stati altrettanto duri verso il Cremlino nei loro atti di governo.Eh sì, perché la questione risale almeno all’agosto 2020. All’epoca, Navalny subì un avvelenamento. E, il mese successivo, l’allora viceministro degli Esteri polacco, Pawel Jablonski, chiese di fatto alla Germania di interrompere la realizzazione del gasdotto Nord Stream 2 (anche) come reazione al tentato omicidio dell’attivista russo. Una posizione, questa, che emerse pure in una mozione di risoluzione del Parlamento europeo dedicata all’avvelenamento di Navalny. «L’Europarlamento ribadisce la sua posizione sul controverso gasdotto Nord Stream 2, che è un progetto politico concepito per rafforzare la dipendenza dell’Ue dalle forniture di gas russo e minaccia il mercato interno dell’Ue poiché non è in linea né con la politica energetica dell’Ue né con i nostri interessi strategici, e pertanto necessita essere fermato», recitava quel documento. Non solo. A febbraio 2021, anche il governo francese ventilò l’ipotesi di bloccare il Nord Stream 2 come reazione alla repressione dei dissidenti da parte del Cremlino. Lo stesso senatore repubblicano del Texas, Ted Cruz, chiese di vincolare la questione di Navalny a un atteggiamento più severo verso il Nord Stream 2.Dal canto suo, è vero che Trump evitò, a livello personale, di accusare Mosca dell’avvelenamento di Navalny. Tuttavia, già a dicembre 2019, la sua amministrazione aveva approvato delle sanzioni al Nord Stream 2, entrando in rotta di collisione con Mosca e Berlino. Inoltre, a dicembre 2020, il dipartimento di Stato americano, allora guidato da Mike Pompeo, accusò pubblicamente i servizi russi dell’avvelenamento di Navalny. «Gli Stati Uniti ritengono che gli agenti del Servizio di sicurezza federale russo (Fsb) abbiano utilizzato l’agente nervino Novichok per avvelenare il signor Navalny. Non c’è alcuna spiegazione plausibile per l’avvelenamento di Navalny oltre al coinvolgimento e alla responsabilità del governo russo», si leggeva in una nota ufficiale di Foggy Bottom.Eppure, la Merkel di fatto non ne volle sapere di rinunciare al controverso gasdotto. Secondo lei, il dossier del Nord Stream 2 doveva essere tenuto separato da quello di Navalny. E Biden? Entrato in carica a gennaio 2021, sembrava intenzionato a tenere una linea dura, che poi però non si è concretizzata. Impose, sì, qualche sanzione ai soggetti implicati nell’avvelenamento dell’attivista, promettendo inoltre a Vladimir Putin delle «conseguenze devastanti», qualora Navalny - messo agli arresti all’inizio del 2021 - fosse morto in carcere. Tuttavia, alla prova dei fatti, l’attuale presidente americano si è rivelato tutt’altro che duro. A maggio 2021, revocò le sanzioni al Nord Stream 2 e, a luglio di quell’anno, diede l’ok al gasdotto: una mossa che fece la felicità di Putin e della Merkel ma che mandò comprensibilmente su tutte le furie Kiev e Varsavia. Ricordiamo che all’epoca Biden aveva bisogno della Russia anche come intermediario per rilanciare il controverso accordo sul nucleare iraniano.Certo, l’allora cancelliera, incontrando lo Zar ad agosto 2021, disse di avergli chiesto la liberazione di Navalny. Però, al di là di richieste formali e dichiarazioni di principio, si è ben guardata dal colpire il Cremlino dove avrebbe potuto fargli realmente male. E lo stesso vale per Biden. Senza dimenticare Olaf Scholz, che fu vicecancelliere della Merkel dal 2018 al 2021 e che, nel 2019, criticò le sanzioni statunitensi al Nord Stream 2, parlando di «grave interferenza». Vale la pena di ricordare che, all’epoca, c’erano già state l’uccisione di Anna Politkovskaja (2006), la crisi della Georgia (2008) e l’annessione della Crimea (2014). Quindi che la Russia fosse uno Stato repressivo e aggressivo era arcinoto. Ad avere la memoria corta è anche David Axelrod, che ha accusato Trump di non essere stato sufficientemente duro con Putin sulla morte di Navalny: parliamo dello stesso Axelrod che fu senior advisor di Barack Obama dal 2009 al 2011, quando cioè l’allora presidente americano avviò una distensione con Mosca (il cosiddetto «reset russo»).«Alexei Navalny non ha mai voluto che Joe Biden ritirasse le sanzioni di Trump al gasdotto di Putin Nord Stream 2. Sapeva che ciò avrebbe incoraggiato Putin. E così è stato», ha twittato venerdì l’ex ambasciatore americano in Germania, Richard Grenell. Trump, va detto, dovrebbe essere talvolta meno ambiguo nelle sue dichiarazioni. Ma resta il fatto che la sua amministrazione non rese facile la vita a Putin.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-navalny-2667326803.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="anche-il-fratello-delloppositore-finisce-nella-lista-nera-del-cremlino" data-post-id="2667326803" data-published-at="1708474499" data-use-pagination="False"> Anche il fratello dell’oppositore finisce nella lista nera del Cremlino Il governo russo si è barricato dietro un muro di opacità sulla morte di Alexej Navalny, deceduto in carcere venerdì scorso. Mosca ha infatti respinto la richiesta di un’indagine internazionale, avanzata dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell. «Non accettiamo affatto tali richieste, soprattutto da parte del signor Borrell», ha affermato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, il quale ha anche negato che Vladimir Putin abbia visto il video in cui la vedova dell’attivista, Yulia Navalnaya, diceva che avrebbe proseguito il lavoro del marito. Peskov ha inoltre bollato come «infondate e rozze» le accuse della stessa Navalnaya, che aveva a sua volta attribuito al capo del Cremlino la responsabilità della morte del consorte. Proprio in quest’ottica, la vedova ha chiesto all’Ue di non riconoscere l’esito delle elezioni presidenziali russe, che si terranno il mese prossimo. «Un presidente che ha ucciso il suo principale avversario politico non può essere legittimo per definizione», ha dichiarato. Tutto questo, mentre la madre di Navalny, Lyudmila, ha diffuso un video in cui chiede al Cremlino la restituzione della salma del figlio. «Per il quinto giorno non lo vedo, non mi danno il suo corpo e non mi dicono nemmeno dove si trova», ha dichiarato la donna. «Mi rivolgo a lei, Vladimir Putin: la soluzione del problema dipende solo da lei. Mi faccia finalmente vedere mio figlio. Chiedo che il corpo di Alexej venga immediatamente consegnato in modo che io possa seppellirlo umanamente», ha aggiunto. La richiesta della salma è stata avanzata anche dalla Navalnaya. «Non mi importa nulla di come l’addetto stampa di un assassino commenta le mie parole. Restituite il corpo di Alexej e lasciate sia sepolto con dignità, non impedite alla gente di salutarlo. E chiedo davvero a tutti i giornalisti che potrebbero ancora fare domande: non chiedete di me, chiedete di Alexej», ha affermato la vedova dell’attivista, che ieri si è vista sospendere per circa un’ora l’account X a causa di una presunta violazione delle regole di utilizzo. La piattaforma lo ha poi reintegrato, dichiarando: «Abbiamo immediatamente ripristinato l’account appena ci siamo resi conto dell’errore». Al di là dell’opacità, il Cremlino ha anche deciso di inasprire il proprio pugno di ferro. Il fratello di Navalny, Oleg, è stato infatti inserito nella lista dei ricercati dal ministero dell’Interno di Mosca. L’agenzia di stampa russa Tass ha riportato che non è al momento chiaro con quale accusa sia finito in questo elenco. La comunità internazionale sta intanto esercitando pressioni diplomatiche sul governo di Mosca. La Farnesina e il ministero degli Esteri belga hanno convocato gli ambasciatori russi dei rispettivi Paesi. Altrettanto ha fatto il ministero degli Esteri di Varsavia con l’ambasciatore russo in Polonia, per chiedere «un’indagine completa e trasparente» sulla morte dell’attivista. A essere convocato è stato anche l’incaricato d’affari della missione della Federazione russa presso l’Ue. Frattanto, la Casa Bianca ha annunciato nuove sanzioni contro Mosca per venerdì, esortando inoltre i cittadini statunitensi a lasciare la Russia al più presto dopo l’arresto di una cittadina russo-americana a Yekaterinburg. Garry Kasparov, dal canto suo, ha affermato che «il regime di Putin ha ucciso Alexej Navalny», non rinunciando comunque a una stoccata ai leader occidentali. «Temo che i politici occidentali preferiscano che i dissidenti siano martiri. Possono lasciare fiori e dire belle parole mentre negoziano con l’assassino», ha detto.
iStock
Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
Continua a leggereRiduci
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
Continua a leggereRiduci
iStock
Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
Continua a leggereRiduci
Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
Continua a leggereRiduci