2020-02-05
Trump gongola, la Waterloo del voto mostra il fallimento dei Democratici
Il caucus dell'Iowa, l'appuntamento con cui si avvia il processo delle primarie, è stato una figuraccia per il partito dell'Asinello. Caos, ritardi, schede contate a mano. Colpa di una app e delle nuove regole. Non gli bastava aver avuto la campagna elettorale più affollata e confusa della sua storia. Non gli bastavano le frequenti lotte intestine tra centristi e radicali. Non gli bastava neppure una certa scarsità di idee, alla quale ha cercato (invero poco efficacemente) di far fronte con un anti trumpismo ossessivo, degno del capitano Achab. No. Questa volta il Partito democratico americano ha voluto superare sé stesso. E lo ha fatto lunedì scorso, paralizzando il caucus dell'Iowa: l'appuntamento con cui tradizionalmente si avvia il lungo processo delle primarie. Anziché la consueta manciata di ore, la diffusione dei risultati ha richiesto stavolta una giornata intera, lasciando i candidati con il fiato sospeso e gli elettori non poco frustrati (oltre che furenti). Un disastro organizzativo, sulle cui cause ancora non è stata fatta completamente luce. Svariati presidenti di seggio hanno sostenuto che non avrebbe funzionato l'app, con cui si sarebbero dovuti trasmettere i risultati al comitato statale del partito: in particolare, alcuni non sarebbero riusciti a scaricarla, mentre altri avrebbero riscontrato difficoltà di accesso telematico.Pur avendo escluso sabotaggi, la sezione locale dell'asinello ha ammesso dopo ore un «problema di codifica» dell'app, che avrebbe determinato «incongruenze» nel riportare le varie tipologie di risultati. Sì, perché quest'anno vigono nuove regole per la diffusione dei dati elettorali del caucus democratico: se fino al 2016 veniva resa nota soltanto la distribuzione finale dei delegati, stavolta l'asinello vuole rivelare anche i risultati delle due fasi intermedie di voto. Ricordiamo infatti che il caucus è un'assemblea ristretta degli attivisti di partito, in cui il candidato viene selezionato attraverso una progressiva scrematura con voto palese (e non segreto). La scelta di divulgare le varie tipologie di risultati è stata giustificata con la volontà di rendere il processo più trasparente, soprattutto dopo le polemiche che sorsero nel 2016 ai tempi del duello tra Hillary Clinton e Bernie Sanders. Il punto è che, anziché chiarezza, questa linea ha prodotto non poca confusione, contribuendo a far esplodere il caos di lunedì scorso.Il putiferio scatenato dallo stallo in effetti è stato notevole. Sui social network, i sostenitori di Sanders hanno iniziato a gridare al complotto, mentre numerose critiche sono piovute addosso al presidente locale del partito, Troy Price. A complicare la situazione, ci si sono poi messi quei candidati che hanno iniziato a dichiarare vittoria senza lo straccio di un riscontro ufficiale. Il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg, ha affermato che sarebbe andato in New Hampshire (dove si voterà l'11 febbraio) «vittorioso». Il comitato elettorale di Sanders ha invece diffuso una serie di dati ufficiosi e parziali, che davano il senatore del Vermont nettamente in testa. Insomma, un delirio che avrà almeno due conseguenze. In primo luogo, si tratta di un ulteriore colpo alla credibilità dell'apparato del Partito democratico: un apparato già caduto in profondo discredito quattro anni fa e che - dopo questa Waterloo - continuerà a seminare disamoramento e polemiche. In secondo luogo, non va trascurato il dato politico. Come accennato, il caos esploso in Iowa non ha fatto che acuire il già notevole grado di litigiosità in seno all'asinello. Non certo un bello spettacolo, soprattutto per gli elettori indipendenti che - tendenzialmente pragmatici e meno ideologicamente motivati - si trovano davanti a un partito in frantumi e preda del più totale disordine organizzativo. Quegli indipendenti che - solitamente fondamentali nella corsa per la Casa Bianca - potrebbero quindi guardare adesso con sempre maggior favore ai repubblicani: repubblicani che avranno, sì, i loro dissidi interni. Ma nulla di paragonabile alla frastornata confusione che regna nel campo democratico.Del resto, il fronte repubblicano ne ha approfittato per mettere il dito nella piaga. Il manager della campagna di Donald Trump, Brad Parscale, si è lasciato andare a un commento lapidario, twittando: «I democratici non sono neppure in grado di gestire un caucus e vogliono guidare il Paese. No grazie». Lo stesso presidente americano - che ha intanto stravinto il caucus repubblicano dell'Iowa con oltre il 97% dei voti - ha definito la situazione in casa democratica «un disastro totale». Riferendosi poi alle passate accuse sul caso Russiagate, Trump ha voluto togliersi qualche sassolino dalla scarpa, chiedendosi: «Quand'è che i democratici inizieranno a incolpare la Russia, la Russia, la Russia, invece della loro incompetenza per il disastro del voto che si è appena verificato nel Grande Stato dell'Iowa?» La battaglia per la Casa Bianca, insomma, è cominciata. E l'asinello rischia già il destino che fu del Pequod: l'affondamento.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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