2023-05-08
Giovanni Tria: «Nuovo patto di Stabilità? Non mi fido»
Giovanni Tria (Imagoeconomica)
Per l’ex ministro dell’Economia, «la graduatoria di rischiosità del debito ci danneggia, ha riflessi negativi sulle banche. Incomprensibile la polemica sulla ratifica del Mes: perché non lo ha fatto il Conte 2 o Draghi?».Professor Giovanni Tria, da ex ministro dell’Economia del governo giallo-verde ci spiega facile la proposta di riforma del patto di Stabilità e crescita avanzata dalla Commissione Ue?«Dopo una prima bozza informale oggetto di discussione, è arrivato uno schema di regolamento della proposta; una versione legislativa che di fatto recepisce i contenuti essenziali della prima versione ad eccezione dell’idea di suddividere “formalmente in tre fasce” i diversi debiti pubblici degli Stati in base alla loro rischiosità. I famosi indicatori di deficit e debito rispettivamente pari al 3% ed al 60% del Pil rimangono. Le regole sembrano più flessibili. E più giuste. Ma in teoria…».Perché non le piace?«Il processo si basa comunque su un’analisi della sostenibilità del debito (Debt sustainibility analysis o Dsa ndr) condotta dalla Commissione. È la base di partenza per la successiva definizione del percorso di aggiustamento. Bruxelles lo chiama technical path, percorso tecnico. È la Commissione che in finale propone un sentiero di riduzione del debito cui il singolo Paese deve attenersi. A quest’ultimo è lasciato semplicemente il potere di attuare scelte che concretizzino il sentiero indicato dalla Commissione e che alla fine si sostanziano nella riduzione della spesa pubblica primaria (quella al netto degli interessi sul debito, ndr). Il punto è che la flessibilità, anzi la discrezionalità, è nelle mani della Commissione che comunque basa gli obiettivi sulla base di una sua analisi di sostenibilità che diviene pubblica. E questo finirà per avere un impatto sui mercati finanziari e sulla reputazione del singolo Paese».La semplice pubblicazione di questa analisi finirebbe comunque per metterci in croce, sta dicendo?«Ci tengo a precisare che dobbiamo porci l’obiettivo di riduzione del debito. Non sono affatto per la spesa facile. Ma tutto parte da un’analisi che si basa su modelli statistici che hanno senz’altro una loro validità ma lasciano il tempo che trovano a seconda delle variabili e delle condizioni prese in considerazione. Ma gli indicatori, le variabili e le previsioni alla base del piano sono per definizione mutevoli. Resta il fatto che rimane comunque una graduatoria di rischiosità del debito. E questo per l’Italia è sempre stata una linea rossa. C’è un rischio evidente…»Ovvero?«Differenziare i titoli del debito pubblico in base alla loro rischiosità ha riflessi negativi sui bilanci delle nostre banche che in quegli strumenti investono. Questo determina ricadute negative sulla loro capacità patrimoniale e comunque sulla loro reputazione, rendendo più onerosa la loro raccolta. Ricordo che ho strenuamente difeso questo principio durante le fasi più accese della negoziazione della riforma del Mes da me condotte in quanto ministro. Riuscimmo ad evitare che fosse definita e pubblicata una metodologia di analisi della sostenibilità del debito da parte del Mes che sarebbe poi stata messa a disposizione di tutti gli operatori finanziari. Questo avrebbe inevitabilmente finito per creare un’instabilità indotta nei mercati finanziari. Avevamo pure la Banca d’Italia apertamente schierata con noi su questo punto come evidenziato in numerose audizioni in Parlamento». Le critiche sono finite?«Si continua a guardare ai bilanci dei singoli Stati senza porci il problema di avere una politica fiscale comune a livello europeo. Solo piccoli accenni agli effetti delle singole politiche fiscali sul resto dell’Europa. La criticità rimane sempre la stessa. Abbiamo un’unica politica monetaria ma non altrettanto può dirsi per la politica fiscale. Non c’è una politica di bilancio europea - spesa e tasse - ma solo il controllo di quella dei singoli Stati aderenti. E la riforma del Patto di fatto ricalca l’impostazione del Pnrr. Viene definito un orizzonte di quattro o sette anni e dal piano presentato non puoi più muoverti». Lei ha addirittura sostenuto che la proposta di riforma avanzata dalla Germania fosse preferibile…«La Germania contestava la centralità della Dsa e ipotizzava un ancoraggio quantitativo semplice e chiaro. Un percorso di riduzione del debito dell’1% all’anno. E peraltro si sarebbe potuto discuterne. Non mi sarebbe sembrato chissà cosa. Equivale a dire che in quarant’anni si sarebbe dovuto ridurre il debito pubblico dal 140% al 100%. Non una cosa sconvolgente. Ma la grancassa mediatica ci ha messo del suo nel criticare la proposta tedesca, per definizione cattiva».Come va l’economia italiana?«Meglio di quanto ci si potesse aspettare ma dobbiamo guardare all’inflazione che è un tema centrale del dibattito».Guardiamoci.«L’inflazione si misura anno su anno ed è anche plausibile che si riduca il tasso. Questa è iniziata a crescere sul finire del 2021. Ma abbiamo comunque accumulato una perdita di potere di acquisto di circa il 15% a oggi. Anche se i prezzi smettessero di crescere non tutti i redditi sono in grado di reggere una tale riduzione del potere di acquisto. Quelli che già stavano a malapena al livello di sussistenza non possono certamente tenere. Occorre quindi adeguare i salari reali delle fasce più deboli senza che questo alimenti la pericolosa spirale di salari che rincorrono i prezzi che a loro volta finiscono per aumentare».Ciò che sta provando a fare questo governo con maggiori soldi in busta?«L’inflazione è un costo per l’economia nel suo complesso perché di fatto, essendo importata dai maggiori costi di materie e prime ed energia, si traduce per l’Italia in un trasferimento di reddito ad altri Paesi fornitori. Se tutti gli operatori accettassero, questa situazione finirebbe lì. Ma qualcuno trasferisce a valle l’aumento dei prezzi scaricandolo in finale sui consumatori e si creano i disagi ed i conflitti di cui parlavo prima con riferimento alle fasce più deboli. Lo strumento principe per combattere l’inflazione, ovvero l’aumento dei tassi di interesse, è per definizione indiscriminato. Ma qui c’è un problema di mutamento dei prezzi relativi. Alcuni aumentano più di altri. Alcune persone soffrono più di altre. E tocca alla politica fiscale mitigare questi conflitti aiutando i più deboli senza aumentare la domanda nel suo complesso perché questo produrrebbe un ulteriore aumento dei prezzi».Più facile a dirsi che a farsi…«Servono politiche redistributive facendo pagare chi ha di più e ridare a chi ha di meno. Oppure tagliare nel bilancio ciò che può essere rimosso. Ma anche questo ha un costo politico enorme». Ogni spesa nel bilancio pubblico è comunque il reddito di qualcuno.«L’altra strada maestra per far aumentare i salari reali è aumentare la produttività, ma si dovrebbe aumentare di almeno il 15%. E l’aumento dei salari diventa più che fattibile. Ma è più facile a dirsi che a farsi. I meni abbienti non hanno il tempo per aspettare questo aumento. Lo si può fare comprandolo questo tempo. Ovvero facendo debito. È il cosiddetto debito buono. Ma la produttività deve aumentare».Ci saranno spazi nella prossima legge di bilancio?«Come dicevo la politica di bilancio può essere più selettiva della politica monetaria di per sé indiscriminata. Bisogna tenere conto che il rallentamento di economie come quella della Germania potrebbero avere ricadute sulla nostra economia».Il Pnrr va bene così com’è o va cambiato?«Dico la verità. Non lo so. O meglio, risponderei alla Catalano: meglio spendere tutto e bene piuttosto che poco e male».Allora riformulo la domanda. Meglio spendere poco e bene o tutto e male perché comunque qualcuno dice che «tutto fa Pil»?«Spendere ciò che si è sicuri di spendere bene. E sul bene ci sarebbe da discutere. Il Pnrr, più che un piano, è una sfilza di progetti. E comunque le risorse per questi progetti spesso già c’erano. L’Italia è spesso incapace di spendere non solo i fondi europei ma pure le risorse stanziate nel suo bilancio in autonomia. Il problema è che il fallimento del Pnrr non sarebbe semplicemente nazionale ma pure europeo. Perché la cosa veramente buona di questa iniziativa è che per la prima volta si è accettato di fare un debito comune europeo. Siamo stati però di fatto l’unico Paese europeo ad aver attinto a tutti i fondi. E un fallimento europeo sarebbe il successo dei nemici dell’integrazione».Tipo di chi la sta intervistando. Ma secondo lei è stato giusto attingere tutto il debito?«Scelta incauta anche perché c’era tutto il tempo di rivedere in aumento l’importo prendendo eventualmente in tutto o in parte la quota a debito».La scadenza infatti è il 31 agosto 2023.«Ma il governo voleva sbandierare un successo politico, mentre quei soldi messi a disposizione erano dovuti alla nostra precaria situazione».Lei è stato protagonista delle negoziazioni sulla riforma del Mes. Argomento che ha diviso nel governo gialloverde la Lega dal premier Conte…«Il governo Conte 2 ha di fatto recepito il risultato di quel negoziato. Ricordo soprattutto le estenuanti trattative notturne con gli olandesi. Siamo riusciti ad espungere moltissime cose negative come dicevo prima. Soprattutto in materia di valutazione pubblica di sostenibilità del debito. La vera confusione in Parlamento è iniziata con il governo Conte 2. Dal mio punto di vista, avendo vissuto quelle negoziazioni in prima persona, si sarebbe potuto ratificare subito. Ho chiamato Conte alla fine del negoziato. E da giurista non ha potuto che accettare le mie rassicurazioni da economista. Ma trovo incomprensibile la polemica su questo governo che non ratifica. Perché non lo ha fatto il Conte 2 o Draghi?».Pentito di aver fatto il ministro?«No, perché dal punto di vista professionale e intellettuale è stata un’esperienza formativa. Anche se alla mia età è un po’ strano parlare di formazione».La chiamò Giuseppe Conte per chiederle di accettare l’incarico? Dopo il rifiuto del Quirinale su Savona?«No. Fu lo stesso Savona a chiamarmi. Mia moglie mi rassicurò: “non ti chiameranno mai. Non sei legato a nessun partito”».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.