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2021-02-01
Pd e grillini paralizzano l'Italia sulla transizione energetica
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Ansa
Il Conte bis passerà alla storia come uno dei governi che ha cercato di evitare in ogni modo di affrontare tematiche spinose come la transizione energetica, lo sviluppo dell'idrogeno, ma soprattutto un piano definito dove poter individuare le aree dove si sarebbe potuto cercare idrocarburi. Sul sito del ministero dello Sviluppo Economico ci sono ancora i riferimenti a quel decreto del febbraio 2019, dove «entro 18 mesi» si leggeva «[…» è approvato il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (PiTESAI), al fine di individuare un quadro definito di riferimento delle aree ove è consentito lo svolgimento delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi sul territorio nazionale, volto a valorizzare la sostenibilità ambientale, sociale ed economica delle stesse».
Non se n'è fatto nulla. Anzi, il ministro Stefano Patuanelli, ora in corsa anche per una poltrona da presidente del Consiglio, aveva provato a bloccare ogni tipo di trivellazione, mettendo ancora di più alle strette un settore industriale già in seria difficoltà per la pandemia e la crisi economcai. I 5 Stelle continuano a temere che l'elettorato affezionato alla green economy possa scappare. Così non decidono, trascinando l'Italia in un ritardo ormai sistemico, in ritardo rispetto agli altri paesi europei. A dimostrazione di come il sistema rischia di incepparsi c'è anche l'ultima inchiesta della procura di Pavia di questa settimana. Si indaga su una presunta truffa nel settore delle biomasse, metodo di produzione di energie alternative che negli ultimi anni è stato molto sovvenzionato dallo Stato, nello specifico dal Gse, il gestore servizi energetici con una fatturato da 30 miliardi di euro. In pratica gli 11 indagati avrebbero fatto risultare il legname bruciato per produrre energia, come raccolto più vicino di quanto invece fosse. Per ottenere incentivi dal garante, infatti, il materiale deve provenire da una distanza inferiore ai 70 chilometri. La centrale di biomasse di Biolevano nel pavese avrebbe così truffato 143 milioni di euro allo Stato.
Di mezzo c'è la società Maire Tecnimont, ' azionista di minoranza di Biolevano Srl tramite Neosia Renewables. Agli arresti domiciliari è finito anche Pietro Tali, ex amministratore delegato di Saipem. Maire Tecnimont è diventata in questi anni di fatto una filiale dell'azienda di San Donato, specializzata in progetti di infrastrutturali in più di 60 paesi nel mondo. Molti ex manager di Saipem sono infatti oggi in Maire Tecnimont, come Franco Ghiringhelli attuale capo del personale o Alessandro Bernini ex cfo Saipem ora dirigente preposto in Maire e infine Mariano Avanzi. Si era anche parlato di una possibile acquisizione da parte dell'azienda controllata da Cdp e Eni, ma dopo l'inchiesta i rapporti si sono raffreddati. Per di più Saipem quest'anno dovrà rinnovare il consiglio di amministrazione, è una delle partecipate statali in scadenza: Stefano Cao è in uscita ma potrebbe avere una riconferma. Di sicuro il governo in questi 2 anni avrebbe potuto sfruttare il know how dell'azienda, non solo dal punto di vista infrastrutturale, ma anche di trasformazione energetica. Negli ultimi 5 anni Saipem, che viene spesso ancora descritta come una società petrolifera, ha trasformato il suo portafoglio ordini. Per oltre il 70% non è più legato al petrolio ma alle energie pulite come il gas e soprattutto le rinnovabili. In quest'ultimo settore, Saipem si è specializzata nell'eolico offshore, un segmento nel quale dal 2016 a oggi ha acquisito in totale oltre 1 miliardo di euro di ordini.
L'azienda è attiva anche nel solare flottante: di recente è stato siglato un accordo di cooperazione con Equinor per sviluppare una soluzione tecnologica per un parco di pannelli galleggianti adatti ad essere installati vicini alla costa. Sulla scia della transizione energetica ha presentato progetti per il recovery plan indirizzati alla decarbonizzazione (di recente l'azienda ha acquisito una tecnologia proprietaria per la cattura di Co2) e progetti per sistemi integrati di energia: nell'offshore di Ravenna Saipem realizzerà il primo hub energetico rinnovabile italiano, e il primo in Sud Europa, che integra solare, eolico e idrogeno verde e che produrrà oltre 500 Mw di energia. Del resto l'idrogeno è un segmento in cui l'azienda è attiva da 60 anni in impianti di purificazione per hydrotreating, in complessi di hydrocracking e nell'industria basata sul syngas (gas di sintesi, è una miscela di gas contente, fra gli altri, idrogeno). Vanta ben 65 impianti di produzione. Ha anche presentato un progetto per la realizzazione di un ponte galleggiante per lo Stretto di Messina. E' un azienda che ha un fatturato da 9 miliardi di euro, realizzato per il 95% all'estero, in più di 60 paesi nel mondo, talvolta decisivo dal punto di vista diplomatico per l'Italia. Tanto che da qualche anno circola una battuta a San Donato. L'ex premier Massimo D'Alema aveva detto che avrebbe voluto diventare presidente di Eni, ma forse avrebbe avuto più vantaggi sulla politica internazionale diventando quello di Saipem.
I progetti di decarbonizzazione presentati nel Recovery plan
Saipem ha presentato due progetti sulla decarbonizzazione all'interno del recovery plan italiano. L''obiettivo è sempre quello di trasformare la Co2 prodotta dalle attività umane, da problema climatico a risorsa per lo sviluppo sostenibile. Sono due progetti in linea con le tecnologie Cccus, acronimo delle parole inglesi Carbon, Capture, Utilisation and Storage.
Il primo progetto riguarda lo sviluppo della value chain innovativa proprio del Ccsu, per accelerare la decarbonizzazione nel nostro Paese. Il progetto prevede la cattura della CO2 dall'industria dell'Oil&Gas (sia onshore che offshore) e dalle industrie energivore quali ad esempio, le centrali elettriche, i cementifici, le acciaierie. Parte della Co2 catturata potrà essere riutilizzata negli stessi settori, mentre la porzione rimanente sarà trasportata attraverso una dorsale e stoccata in riserve esaurite sia in mare che a terra.
È un modello di business che si basa sul concetto di distretto industriale in cui la cattura e l'immagazzinamento della Co2 avvengono in un perimetro che include sia gli emettitori che gli stoccaggi, tuttavia prevede anche la possibilità di trasporto della Co2 via nave presso hub di stoccaggio a distanze più grandi. Questo perché gli emettitori della CO2 sono distribuiti sul territorio italiano, mentre le aree idonee allo stoccaggio sono limitate. Un potenziale hub di stoccaggio individuato è Ravenna. Nei distretti industriali di Taranto e Brindisi la potenziale riduzione di Co2 è di circa 20 milioni di ton/anno (circa il 5,6% delle emissioni di CO2 in Italia).
Il secondo progetto di Saipem prevede la creazione di sistemi di integrazione dell'energia che nascono dalla combinazione di più tecnologie creando un valore green e favorendo quindi anch'esso alla decarbonizzazione del paese.
Saipem ha individuato due poli energetici: uno nell'Adriatico a Ravenna e l'altro in Sardegna. Il polo energetico nell'Adriatico sarà costituito da un impianto per la produzione di energia da fonti rinnovabili in mare con una capacità superiore a 500MW. In particolare: un impianto eolico, un impianto solare fotovoltaico su fondazioni galleggianti, un sistema di stoccaggio energetico a batterie e la generazione di idrogeno verde in mare e in prossimità del porto, alimentato dalle stesse fonti rinnovabili. La previsione è di evitare più di 550 mila tonnellate l'anno di emissioni di Co2.
Il polo energetico in Sardegna avrà anch'esso una capacità superiore a 500MW evitando più di 500 mila ton/anno d emissioni di Co2. Oltre alle tecnologie impiegate per il polo di Ravenna, sarà prevista anche la produzione di energia sfruttando il moto ondoso, considerato la più grande fonte di energia rinnovabile inutilizzata del Pianeta.
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Dalla nascita del primo governo di Giuseppe Conte il nostro Paese attende un piano nazionale per l'energia. Se l'esecutivo gialloblu, Lega e 5 Stelle aveva almeno provato a gettare le basi di un progetto per il futuro, quello giallorosso appena caduto aveva deciso ormai da tempo di non occuparsene. E' tutto fermo. Saipem ha presentato due progetti nel Recovery plan sulla trasformazione dell'anidride carbonicaLo speciale contiene due articoliIl Conte bis passerà alla storia come uno dei governi che ha cercato di evitare in ogni modo di affrontare tematiche spinose come la transizione energetica, lo sviluppo dell'idrogeno, ma soprattutto un piano definito dove poter individuare le aree dove si sarebbe potuto cercare idrocarburi. Sul sito del ministero dello Sviluppo Economico ci sono ancora i riferimenti a quel decreto del febbraio 2019, dove «entro 18 mesi» si leggeva «[…» è approvato il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (PiTESAI), al fine di individuare un quadro definito di riferimento delle aree ove è consentito lo svolgimento delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi sul territorio nazionale, volto a valorizzare la sostenibilità ambientale, sociale ed economica delle stesse». Non se n'è fatto nulla. Anzi, il ministro Stefano Patuanelli, ora in corsa anche per una poltrona da presidente del Consiglio, aveva provato a bloccare ogni tipo di trivellazione, mettendo ancora di più alle strette un settore industriale già in seria difficoltà per la pandemia e la crisi economcai. I 5 Stelle continuano a temere che l'elettorato affezionato alla green economy possa scappare. Così non decidono, trascinando l'Italia in un ritardo ormai sistemico, in ritardo rispetto agli altri paesi europei. A dimostrazione di come il sistema rischia di incepparsi c'è anche l'ultima inchiesta della procura di Pavia di questa settimana. Si indaga su una presunta truffa nel settore delle biomasse, metodo di produzione di energie alternative che negli ultimi anni è stato molto sovvenzionato dallo Stato, nello specifico dal Gse, il gestore servizi energetici con una fatturato da 30 miliardi di euro. In pratica gli 11 indagati avrebbero fatto risultare il legname bruciato per produrre energia, come raccolto più vicino di quanto invece fosse. Per ottenere incentivi dal garante, infatti, il materiale deve provenire da una distanza inferiore ai 70 chilometri. La centrale di biomasse di Biolevano nel pavese avrebbe così truffato 143 milioni di euro allo Stato. Di mezzo c'è la società Maire Tecnimont, ' azionista di minoranza di Biolevano Srl tramite Neosia Renewables. Agli arresti domiciliari è finito anche Pietro Tali, ex amministratore delegato di Saipem. Maire Tecnimont è diventata in questi anni di fatto una filiale dell'azienda di San Donato, specializzata in progetti di infrastrutturali in più di 60 paesi nel mondo. Molti ex manager di Saipem sono infatti oggi in Maire Tecnimont, come Franco Ghiringhelli attuale capo del personale o Alessandro Bernini ex cfo Saipem ora dirigente preposto in Maire e infine Mariano Avanzi. Si era anche parlato di una possibile acquisizione da parte dell'azienda controllata da Cdp e Eni, ma dopo l'inchiesta i rapporti si sono raffreddati. Per di più Saipem quest'anno dovrà rinnovare il consiglio di amministrazione, è una delle partecipate statali in scadenza: Stefano Cao è in uscita ma potrebbe avere una riconferma. Di sicuro il governo in questi 2 anni avrebbe potuto sfruttare il know how dell'azienda, non solo dal punto di vista infrastrutturale, ma anche di trasformazione energetica. Negli ultimi 5 anni Saipem, che viene spesso ancora descritta come una società petrolifera, ha trasformato il suo portafoglio ordini. Per oltre il 70% non è più legato al petrolio ma alle energie pulite come il gas e soprattutto le rinnovabili. In quest'ultimo settore, Saipem si è specializzata nell'eolico offshore, un segmento nel quale dal 2016 a oggi ha acquisito in totale oltre 1 miliardo di euro di ordini. L'azienda è attiva anche nel solare flottante: di recente è stato siglato un accordo di cooperazione con Equinor per sviluppare una soluzione tecnologica per un parco di pannelli galleggianti adatti ad essere installati vicini alla costa. Sulla scia della transizione energetica ha presentato progetti per il recovery plan indirizzati alla decarbonizzazione (di recente l'azienda ha acquisito una tecnologia proprietaria per la cattura di Co2) e progetti per sistemi integrati di energia: nell'offshore di Ravenna Saipem realizzerà il primo hub energetico rinnovabile italiano, e il primo in Sud Europa, che integra solare, eolico e idrogeno verde e che produrrà oltre 500 Mw di energia. Del resto l'idrogeno è un segmento in cui l'azienda è attiva da 60 anni in impianti di purificazione per hydrotreating, in complessi di hydrocracking e nell'industria basata sul syngas (gas di sintesi, è una miscela di gas contente, fra gli altri, idrogeno). Vanta ben 65 impianti di produzione. Ha anche presentato un progetto per la realizzazione di un ponte galleggiante per lo Stretto di Messina. E' un azienda che ha un fatturato da 9 miliardi di euro, realizzato per il 95% all'estero, in più di 60 paesi nel mondo, talvolta decisivo dal punto di vista diplomatico per l'Italia. Tanto che da qualche anno circola una battuta a San Donato. L'ex premier Massimo D'Alema aveva detto che avrebbe voluto diventare presidente di Eni, ma forse avrebbe avuto più vantaggi sulla politica internazionale diventando quello di Saipem.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/transizione-energetica-2650234723.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-progetti-di-decarbonizzazione-presentati-nel-recovery-plan" data-post-id="2650234723" data-published-at="1612196852" data-use-pagination="False"> I progetti di decarbonizzazione presentati nel Recovery plan Saipem ha presentato due progetti sulla decarbonizzazione all'interno del recovery plan italiano. L''obiettivo è sempre quello di trasformare la Co2 prodotta dalle attività umane, da problema climatico a risorsa per lo sviluppo sostenibile. Sono due progetti in linea con le tecnologie Cccus, acronimo delle parole inglesi Carbon, Capture, Utilisation and Storage. Il primo progetto riguarda lo sviluppo della value chain innovativa proprio del Ccsu, per accelerare la decarbonizzazione nel nostro Paese. Il progetto prevede la cattura della CO2 dall'industria dell'Oil&Gas (sia onshore che offshore) e dalle industrie energivore quali ad esempio, le centrali elettriche, i cementifici, le acciaierie. Parte della Co2 catturata potrà essere riutilizzata negli stessi settori, mentre la porzione rimanente sarà trasportata attraverso una dorsale e stoccata in riserve esaurite sia in mare che a terra. È un modello di business che si basa sul concetto di distretto industriale in cui la cattura e l'immagazzinamento della Co2 avvengono in un perimetro che include sia gli emettitori che gli stoccaggi, tuttavia prevede anche la possibilità di trasporto della Co2 via nave presso hub di stoccaggio a distanze più grandi. Questo perché gli emettitori della CO2 sono distribuiti sul territorio italiano, mentre le aree idonee allo stoccaggio sono limitate. Un potenziale hub di stoccaggio individuato è Ravenna. Nei distretti industriali di Taranto e Brindisi la potenziale riduzione di Co2 è di circa 20 milioni di ton/anno (circa il 5,6% delle emissioni di CO2 in Italia).Il secondo progetto di Saipem prevede la creazione di sistemi di integrazione dell'energia che nascono dalla combinazione di più tecnologie creando un valore green e favorendo quindi anch'esso alla decarbonizzazione del paese.Saipem ha individuato due poli energetici: uno nell'Adriatico a Ravenna e l'altro in Sardegna. Il polo energetico nell'Adriatico sarà costituito da un impianto per la produzione di energia da fonti rinnovabili in mare con una capacità superiore a 500MW. In particolare: un impianto eolico, un impianto solare fotovoltaico su fondazioni galleggianti, un sistema di stoccaggio energetico a batterie e la generazione di idrogeno verde in mare e in prossimità del porto, alimentato dalle stesse fonti rinnovabili. La previsione è di evitare più di 550 mila tonnellate l'anno di emissioni di Co2.Il polo energetico in Sardegna avrà anch'esso una capacità superiore a 500MW evitando più di 500 mila ton/anno d emissioni di Co2. Oltre alle tecnologie impiegate per il polo di Ravenna, sarà prevista anche la produzione di energia sfruttando il moto ondoso, considerato la più grande fonte di energia rinnovabile inutilizzata del Pianeta.
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Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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