
Uscito dalla matita del belga Georges Prosper Remi, in arte Hergé, è stato un modello di eroe virtuoso e positivo, che incarnava i valori cristiani Il suo comportamento limpido e coerente, pronto a combattere il male, è l'esempio di cosa vuol dire vivere secondo certi principi.Dieci gennaio 1929: su Le petit Vingtième, supplemento settimanale per ragazzi del quotidiano belga cattolico-conservatore Le Vingtième Siècle, appare per la prima volta un fumetto destinato ad avere un enorme successo: Tintin. Tra i personaggi del mondo dei fumetti, Tintin, uscito novant'anni fa dalla matita geniale del disegnatore belga Georges Prosper Remi, in arte Hergé , è indubbiamente uno dei più solari e simpatici. Coraggioso, leale, sorridente, magari a volte buffo, a volte fragile, fallibile. Umano, molto umano. Un umano però sempre limpido, integerrimo moralmente, privo di ambiguità o lati oscuri.Tintin è un giovane reporter belga, protagonista di avventure in ogni parte del globo insieme all'inseparabile cagnolino Milù. A partire dal 9° albo della serie, Il granchio d'oro, è affiancato dal collerico capitano Haddock, e a partire dal 12° albo, Il tesoro di Rackam il Rosso, dallo scienziato Trifone Girasole. Di Tintin non si conosce nulla, né la famiglia, né l'età, né la nazionalità, anche se non è difficile intuire che sia belga (presumibilmente vallone) e molto giovane. Tintin non è sposato, né ha fidanzate, né sembra essere coinvolto in vicende affettive. Per molti versi questa sorta di «asessualità» lo avvicina a un celebre personaggio della letteratura fantasy, l'hobbit Frodo Baggins, che critici malevoli dell'opera di J.R.R. Tolkien attaccarono in quanto «ignaro del sesso». Sarà, ma Frodo, così come Tintin, sono personaggi niente affatto ignari di altri fondamentali aspetti della vita: sono saggi, coraggiosi, intelligenti, determinati, e sono capaci di affrontare le prove più ardue senza tirarsi indietro.A differenza di Frodo, Tintin è un eroe contemporaneo: vive nel suo tempo, con una professione — il giornalista — che lo coinvolge direttamente nelle vicende del suo tempo. Percorrendo le storie di Tintin si ottiene una panoramica della realtà del secolo scorso: la prima delle sue avventure lo vede nell'Unione Sovietica del 1929, quindi successivamente passerà in Germania, nella repubblica di Weimar, per poi recarsi nel 1930 in Congo, allora colonia belga. L'anno dopo lo ritroviamo in America, in difesa dei nativi americani. Le sue avventure lo porteranno in seguito in tutti i continenti, in Cina come in Tibet, in Egitto come in Australia, per tornare nella vecchia Europa, e nell'albo del 1937 L'isola nera, uno sicuramente dei più belli, arrivare in Scozia, dove sostituisce i celebri pantaloni alla zuava (o da golf) con il kilt. Nella geografia di Tintin troviamo anche uno Stato immaginario, che compare in un'avventura del 1940, mentre era scoppiata la seconda guerra mondiale. Si trattava della Syldavia, una piccola monarchia collocata in modo abbastanza riconoscibile nell'area mitteleuropea, probabilmente balcanica. Tintin prende le parti della monarchia e della sua libertà. In questa, come in tutte le sue avventure, Tintin appare un autentico paladino della giustizia, della libertà, e i personaggi cattivi di turno con cui il giovane reporter si deve confrontare sono in genere spie, falsari, trafficanti di droga e schiavisti. Se ufficialmente la sua professione è quella del giornalista, e ciò rappresenta spesso il punto di partenza delle avventure, di fatto il ruolo che Tintin assume nelle storie è invariabilmente quello di chi deve affrontare delle situazioni di male e di ingiustizia.Tintin è un eroe, e la sua missione, la sua stessa ragion d'essere, è combattere il male, riportare ordine nel caos, restaurare una giustizia violata, soccorrere, difendere, rialzare coloro che hanno subito torti. Un eroe solare, dicevamo, a tutto tondo, descritto anche con una grafica adeguata. Il tratto pulito, inconfondibile di Hergé è quello di uno stile grafico chiamato «linea chiara», uno stile ispirato al movimento Liberty di inizio Novecento e agli autori giapponesi di inizio Novecento. Un disegno luminoso, privo di sfumature, di chiaro-scuri e di tratteggi, con figure dai contorni netti e precisi. Un'ulteriore ispirazione a Hergé era giunta dall'America, da un autore di nome George McManus, figlio di emigranti irlandesi, che proprio ispirandosi ai personaggi venuti in America dall'isola di Smeraldo aveva creato le prime strisce di fumetto con il protagonista Jigs e sua moglie Maggie, che in Italia diventarono Arcibaldo & Petronilla, uno dei fumetti più popolari tra le due guerre, prima dell'esplosione dell'universo-Disney.La storia di Tintin si intreccia profondamente con quella del suo creatore, Hergé. A poco più di 20 anni, giovanissimo, aveva cominciato a lavorare come illustratore grazie ad un religioso, l'abate Norbert Wallez, che vede in lui un ragazzo dotato, in grado di coinvolgere i più giovani col suo segno. Padre Wallez era fortemente impegnato a rendere il cristianesimo cultura, senza trascurare affatto la cultura giovanile e popolare. Aveva fondato un giornale, Le Vingtième Siècle, che rappresentava la voce più importante del cattolicesimo belga, un cattolicesimo robusto, appassionato, impegnato a difendere le ragioni della fede contro gli assalti delle ideologie atee e materialistiche, nonché da quel «nemico interno» della Chiesa che era il modernismo, l'ideologia che era stata combattuta con forza da papa Pio X ma che sarebbe sopravvissuta nel corso del Novecento ai provvedimenti disciplinari e sarebbe diventata il progressismo cattolico. Hergé era un cattolico convinto, solidamente formato, che aveva frequentato il movimento scoutistico, e sicuramente questa esperienza si travasò nel suo Tintin, che ha indubbiamente uno spirito da esploratore, intrepido e determinato, tipico dello scoutismo delle origini. Accettò quindi molto volentieri l'invito di padre Wallez a combattere la buona battaglia in campo culturale, e fu quindi sulle pagine del Petit Vingtième, supplemento del quotidiano cattolico, che partì la grande avventura di Tintin, che non fu l'unico personaggio di Hergé ma sicuramente il più noto. Padre Wallez aveva chiesto a Hergé che attraverso Tintin si proponesse ai ragazzi un modello di eroe positivo, virtuoso, che incarnasse i valori cristiani. Hergé eseguì, interpretando tuttavia questa indicazione in un modo originale, assolutamente priva di clericalismo o di moralismo. Curiosamente, non ci sono mai ostentazioni di fede da parte di Tintin. Così come nel già citato Tolkien, i valori cattolici sono impliciti nel modo di essere, di comportarsi, di agire del suo eroe. Non serve un'apologetica teorica, non serve fare filosofie: Tintin è virtù in azione. Con il suo comportamento sempre limpido e coerente mostra nei fatti cosa voglia dire vivere secondo certi principi. Wallez fu assolutamente soddisfatto dell'esito, e Hergé poté continuare per anni a dare vita alle avventure del suo personaggio.Alla fine della guerra, Hergè conobbe il momento più difficile: il fatto di essere un cattolico conservatore, di aver conosciuto e frequentato un personaggio come Leon Degrelle, fondatore del rexismo, un movimento cattolico di destra, portò ad accuse di collaborazionismo, nonostante avesse solo pubblicato avventure a fumetti per bambini, e conseguentemente rischiò il carcere, se non la vita. Ma in suo aiuto arrivò inaspettatamente Raymond Leblanc, un ben noto partigiano che voleva fondare un settimanale per ragazzi dandogli proprio il nome di Tintin, che testimoniò in suo favore. Hergé potè così continuare a lavorare, e a creare le storie del suo eroe solare, il ragazzo dall'inconfondibile ciuffo all'indietro. La rivista Tintin diventò una fucina di talenti, da cui uscirono i migliori fumetti di produzione europea degli anni Cinquanta e Sessanta: l'asso dell'aviazione Dan Cooper, il detective Ric Roland, il campione automobilistico Michel Vaillant, Blake e Mortimer e tanti altri, sempre sotto la supervisione artistica di Hergé. Alla sua morte- avvenuta nel 1983- Tintin non ebbe più un seguito, pur continuando a vendere ininterrottamente le ristampe delle sue avventure, che devono ormai essere considerate un autentico classico.
Gennaro Varone
Il pubblico ministero Gennaro Varone sulla separazione delle carriere: «Le correnti sono orientate proprio come un partito politico».
«Non è vero che la separazione delle carriere porrà il pubblico ministero sotto il controllo del potere esecutivo». Da questa frase comincia l’analisi di Gennaro Varone, pubblico ministero di recente tornato a Pescara dopo una parentesi romana durante la quale si è occupato di delicate indagini sulla pubblica amministrazione (comprese quella sulle mascherine intermediate dal giornalista Mario Benotti, che ora è al centro delle attenzioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, quella sull’ex socio dello studio di Giuseppe Conte, l’avvocato Luca Di Donna, e quella sulla mensa di Rebibbia).
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Il testo del prof Raoul Pupo, storico italiano già professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste, è stato scritto per il Circolo della Storia, la nuova comunità nazionale che si è costituita un mese fa per la direzione scientifica dello storico Tommaso Piffer, e raggruppa circa duemila appassionati di tutta Italia. I contenuti sono aperti alla libera fruizione, info e adesioni circolodellastoria.it
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Il 10 novembre 1975: ad Osimo venne firmato il Trattato italo-jugoslavo che definiva il confine tra i due Stati ed offriva nuovi spunti per la già buona collaborazione economica fra i due Paesi. Nel 1977 l’entrata in vigore del Trattato fu comunicata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ne prese atto e depose la pietra tombale su ogni ipotesi di costituzione del Territorio Libero di Trieste, così come previsto dal Trattato di pace del 1947.
Ce n’era bisogno, dal momento che il Memorandum di Londra del 1954 aveva già di fatto realizzato la spartizione del mai costituito TLT? Certo che no, secondo i rappresentanti dei profughi italiani dalla zona B, cui la simulazione di provvisorietà contenuta nel Memorandum aveva alimentato l’illusione di poter, prima o poi, chissà in quale modo, recuperare la propria terra. Altroché, era invece il giudizio comune delle cancellerie occidentali, perché la provvisorietà formale del Memorandum era stata concepita soltanto per acquietare le rispettive opinioni pubbliche ed ormai, trascorsi vent’anni, l’effetto era stato raggiunto. Gli sloveni si erano rassegnati alla perdita di Trieste, divenuta nel frattempo un ottimo mercato per tutti gli acquirenti jugoslavi, mentre a diventare la tanto desiderata Novi Trst era stata Capodistria. In Italia molti pensavano che Trieste si trovasse dall’altra parte del ponte rispetto a Trento e la zona B non avevano proprio idea di che cosa fosse.
I rapporti bilaterali negli anni Sessanta nel complesso erano buoni. L’interscambio economico era ottimo, anche perché la Germania federale aveva interrotto i rapporti commerciali con la Jugoslavia dopo che il governo di Belgrado aveva riconosciuto la repubblica democratica tedesca. Fatto ancor più importante, la Jugoslavia costituiva un ottimo cuscinetto strategico per l’Italia che aveva così visto allontanarsi il fronte caldo della guerra fredda, mentre l’Italia e per suo tramite la NATO coprivano le spalle alla Jugoslavia.
Le incognite riguardavano il futuro e cioè il “dopo Tito”, perché erano in molti a chiedersi se la Repubblica Federativa sarebbe sopravvissuta alla morte del suo carismatico fondatore e leader. Alcuni scenari possibili erano davvero molto allarmanti.
Uno di questi era il riallineamento della Jugoslavia all’Unione Sovietica, paventato sia da una parte della stessa dirigenza politica jugoslava che dalla NATO ed in particolare dall’Italia, che si sarebbe ritrovata l’armata rossa alle porte di Monfalcone. Un altro ed ancor più inquietante scenario prevedeva il collasso della compagine federale, con la secessione delle repubbliche del nord ed il successivo intervento militare sovietico in difesa del socialismo ed occidentale a tutela dell’indipedenza slovena e croata: una situazione questa ad altissimo rischio, perché avrebbe potuto innescare un conflitto europeo. Ma anche se non si fosse arrivati alle armi, la frammentazione jugoslava avrebbe danneggiato gli interessi italiani, perché Slovenia e Croazia sarebbero state troppo deboli per fungere da efficace barriera contro le forze del patto di Varsavia.
In ogni caso, se la crisi fosse esplosa con un confine italo-jugoslavo ancora giuridicamente incerto, questo avrebbe concesso una formidabile leva al Cremlino nei confronti dell’Italia. Infatti, se la condizione della zona B era incerta, allora lo era anche quella della zona A e sul destino di Trieste i russi avrebbero avuto probabilmente non poco da dire.
Insomma, tutto consigliava di chiudere anche formalmente la partita, sia per contribuire alla stabilizzazione della Jugoslavia, sia per mettere definitivamente in sicurezza il confine orientale italiano. La spinta decisiva venne nel 1968 dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che suscitò grandissimo allarme anche in Jugoslava e venne seguita dalla proclamazione della “dottrina Breznev, che gettava ombre lunghe sul futuro dello Stato balcanico. In quella circostanza il ministro degli esteri italiano, Medici, oltre a rassicurare il governo di Belgrado che quello italiano non intendeva sollevare rivendicazioni territoriali approfittando della necessità di quello jugoslavo di concentrare le sue forze ai confini con i Paesi del Patto di Varsavia, prese l’iniziativa di proporre colloqui esplorativi sulla possibilità di superare il Memorandum. Partì così un negoziato, affidato all’ambasciatore Milesi Ferretti ed al plenipotenziario Perišić: nonostante il comune intento delle parti a giungere ad una soluzione formale che riproducesse sostanzialmente quella di fatto, l’iter negoziale si rivelò lungo e complesso fino a generare momenti di acuta tensione.
Le questioni da risolvere erano in effetti parecchie, dalle sacche territoriali occupate dagli jugoslavi lungo il confine dell’Isonzo, ai problemi delle viabilità nell’Isontino, alla delimitazione delle acque territoriali nel golfo di Trieste. I nodi politici fondamentali però due.
L’Italia riteneva di detenere ancora formalmente la sovranità su tutti territori che avrebbero dovuto dar vita al mai costituto Territorio Libero di Trieste in nome della “dottrina Cammarata”, in applicazione della quale, dopo l’estensione dell’amministrazione italiana alla zona A , aveva fatto di Trieste il capoluogo della regione autonoma Friuli -Venezia Giulia. Pertanto, intendeva ottenere quale contropartita alla sua rinuncia formale alla zona B la concessione da parte jugoslava di una piccola striscia della zona B medesima. Si trattava di una compensazione prevalentemente simbolica, dal momento che l’area era deserta, ma tornava utile per ampliare l’asfittico distretto industriale di Trieste. Per contro, gli jugoslavi non solo negavano la sussistenza della sovranità italiana sulla zona B in linea con la maggior parte della giurisprudenza internazionale, ma si consideravano essi stessi detentori della sovranità sulla zona fin dal 1954 e di conseguenza non erano affatto disposti a concessioni seppur solo simboliche.
Invece, il governo di Belgrado desiderava estendere le norme di tutela della minoranza slovena previste dall’Allegato al Memorandum anche alle altre province italiane, compresa quella di Udine in riferimento alla ex “Slavia veneta” e chiedeva gli venisse riconosciuto un droit de regard sull’applicazione di tale normativa. Roma invece non ne voleva sentir parlare, vuoi perché secondo il governo italiano in provincia di Udine di sloveni non ce n’erano proprio, neanche nelle valli del Natisone, del Torre e Resia, vuoi perché il “droit de regard” a favore dell’Austria stava procurando infiniti problemi all’Italia nella questione dell’Alto Adige.
Inoltre Aldo Moro, vero protagonista dell’interlocuzione con il governo jugoslavo, amava notoriamente le pazienti tessiture, capaci di assorbire senza troppe scosse novità altrimenti difficili da far accettare sia alle forze politiche che al corpo elettorale. Viceversa Belgrado aveva fretta di concludere, anche perché pressata dagli ambienti sloveni, mentre i ritmi blandi imposti dall’Italia venivano interpretati come sintomi di scarsa convinzione o, peggio, come segnali di una volontà di elusione – in linea con il tradizionale machiavellismo italico – celante il segreto desiderio di non condurre in porto le trattative
Ne seguirono alcuni tentativi di forzatura da parte jugoslava. Il primo avvenne alla fine del 1970, nell’imminenza della visita di Tito in Italia. Al rifiuto italiano di mettere ufficialmente in agenda la questione dei confini, che provocò il malumore jugoslavo, seguì un’indiscrezione stampa, d’incerta provenienza, che rendeva nota l’esistenza dei colloqui riservati. Ne venne un polverone politico-mediatico, che il governo italiano concluse con una dichiarazione ufficiale di Moro nella sua qualità di Ministro degli esteri, secondo la quale l’Italia non era disponibile a rinunciare ai “propri legittimi interessi nazionali”, intendendo la zona B; tale espressione dal governo di Belgrado venne considerata “a carattere specificatamente irredentista” e la visita di Tito fu rimandata di alcuni mesi.
La seconda e ben più grave forzatura arrivò nel 1974, quando il governo jugoslavo fece apporre lungo la linea di demarcazione fra le zone A e B alcuni cartelli stradali con la scritta “confine di stato” a sottolineare la piena sovranità jugoslava sulla zona B. Il governo italiano reagì con una nota durissima che evocava la perdurante sovranità italiana sulla zona B e ne nacque un putiferio, perché il governo di Belgrado decise di alzare l’asticella della crisi, passando dal livello diplomatico a quello delle campagne di stampa e, addirittura, delle dimostrazioni militari simboliche.
A quel punto, divenne evidente che il negoziato andava concluso per evitare un collasso generale dei rapporti italo-jugoslavi che nessuno voleva. Di fronte ai tradizionali incagli, la soluzione sul piano del metodo venne dall’attivazione di un canale negoziale alternativo, che era già stato preparato segretamente nel 1973 dai ministri degli esteri Medici e Minić, affidandolo al Direttore Generale del Ministero dell’industria Italiano, Eugenio Carbone, ed al Sottosegretario presso il Ministero del Commercio Jugoslavo, lo Sloveno Boris Šnuderl. Una scelta del genere già lasciava intuire la preferenza dei due governi per uno spostamento dell’asse del negoziato verso il terreno delle intese economiche, decisamente più praticabile rispetto ai vicoli ciechi dei contenziosi politico-territoriali, anche se ovviamente i due negoziatori vennero assistiti da rappresentanti dei rispettivi Ministeri degli esteri.
Il canale in effetti funzionò, anche perché i due grandi nodi vennero rimossi con una scelta politica dall’alto. In coerenza con l’opinione prevalente all’interno della carriera diplomatica, il governo italiano decise di rinunciare alla compensazione simbolica in zona B, puntando invece a più concrete compensazioni di natura politica – ad esempio, sulla questione delle minoranze – ed economica. A quest’ultimo riguardo, il negoziatore italiano riprese la richiesta di ampliamento della zona industriale di Trieste in territorio jugoslavo, spostando però la ricerca dei terreni necessari dalla zona B al Carso triestino, dove il confine era già definito e dove le aree disponibili erano assai più vaste. Prese corpo in tal modo, su richiesta italiana, l’ipotesi di creare un nuovo distretto industriale alle spalle della città, destinato a risolvere il problema del mancato sviluppo di Trieste vuoi in maniera diretta – generando cioè occupazione – vuoi indiretta, mediante l’incremento dei traffici portuali. A cavaliere del confine quindi sarebbe stata ricavata una zona franca, capace di attrarre investimenti per prodotti diretti all’esportazione facendo convergere le energie imprenditoriali delle aree più dinamiche dei due Paesi, il nord Italia e quella Slovenia che non vedeva l’ora di evadere dalle gabbie del sistema comunista. Da parte sua il governo di Belgrado rinunciò sia all’estensione delle norme di tutela della minoranza slovena alla provincia di Udine, sia al droit de regard, accontentandosi di due dichiarazioni d’intenti unilaterali simmetriche.
Alla fine del 1974 l’accordo era quindi raggiunto, ma dapprima la caduta del quinto governo Rumor e poi la richiesta italiana di attendere le elezioni amministrative del giugno1975, fecero slittare la ratifica parlamentare appena all’autunno. Di conseguenza, la firma giunse il 10 novembre in quel di Osimo.
Le cancellerie occidentali applaudirono, i due governi s’industriarono a presentare l’accordo come il primo raggiunto nello “spirito di Helsinki”, anche se un legame diretto fra il negoziato italo-jugoslavo e quello per la CSCE non c’era mai stato; l’URSS abbozzò; l’opinione pubblica italiana quasi non si accorse dell’accaduto, mentre quella locale triestina protestò, com’era largamente previsto, ma in una misura ed in forme che sorpresero un po’ tutti.
Piero Amara (Ansa)
L’ex avvocato svela l’ascesa del manager di Gioia Tauro già accusato in Iran e imputato a Roma «Diventò fornitore di Eni grazie a me, ma si tenne le quote. In Calabria aveva relazioni pericolose».
The italian job è diventato un intrigo internazionale. L’agenzia di stampa Bloomberg, da alcune settimane, si sta dedicando agli affari petroliferi del manager calabrese Francesco Mazzagatti, il più pagato in Gran Bretagna (oltre 30 milioni di euro di stipendio nel 2024). Il suo tentativo di acquisire da Shell ed Exxon mobile, con la sua società Viaro Energy Ltd (controllata da Viaro investment Ltd), l’impianto di gas di Bacton, a nord-est di Londra, considerato la «spina dorsale» della struttura energetica inglese, ha attirato l’attenzione dell’agenzia governativa britannica Nsta (l’Autorità di transizione del Mare del Nord che regola l’attività delle industrie di petrolio e gas offshore). Ma anche l’acquisto della Rockerose energy ha portato all’apertura un’inchiesta.
Johann Chapoutot (Wikimedia)
Col saggio «Gli irresponsabili», Johann Chapoutot rilegge l’ascesa del nazismo senza gli occhiali dell’ideologia. E mostra tra l’altro come socialdemocratici e comunisti appoggiarono il futuro Führer per mettere in crisi la Repubblica di Weimar.
«Quella di Weimar è una storia così viva che resuscita i morti e continua a porre interrogativi alla Germania e, al di là della Germania, a tutte le democrazie che, di fronte al periodo 1932-1933, a von Papen e Hitler, ma anche a Schleicher, Hindenburg, Hugenberg e Thyssen, si sono trovate a misurare la propria finitudine. Se la Grande Guerra ha insegnato alle civiltà che sono mortali, la fine della Repubblica di Weimar ha dimostrato che la democrazia è caduca».






