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2019-11-25
Il nuovo social da 75 miliardi conquista Salvini
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Una musica epica, da film, la scritta «Onore alle forze dell'ordine» e Matteo Salvini che stringe le mani a un gruppo di uomini in divisa schierati davanti a lui. È iniziata con questo brevissimo video, poco più di una decina secondi, l'avventura del leader della Lega su TikTok.
Il social network più famoso tra gli utenti della generazione Z (quella che comprende i nati tra il 1995 e il 2010) tra i suoi 500 milioni di utenti attivi ogni mese è un fenomeno di massa che non coinvolge più solo i giovanissimi ma che continua a guardare alle generazioni future con particolare interesse. L'ha capito Salvini, che, con il suo profilo da quasi 50.000 seguaci, è oggi il primo politico italiano a postare attivamente sulla piattaforma. Prima di lui, solo il leader del nuovo partito democratico canadese Jagmeet Singh aveva utilizzato la piattaforma per veicolare, in modo divertente e leggero, il suo programma anche ai più giovani.
Ma che cos'è TikTok? Questa applicazione, disponibile oggi in 155 Paesi al mondo e in 75 lingue differenti, non è altro che un'evoluzione di musical.ly e Vine, due app divenute famose tra il 2013 e il 2014 in cui i teenagers postavano brevissimi sketch comici o video in cui si sfidavano con gare di lipsync. Il formato, semplice, scorrevole, ricco di effetti, era riuscito in brevissimo tempo a sconvolgere il mondo dei video sui social mettendo a dura prova piattaforme come Facebook, Instagram e Youtube. Dopo un paio di anni di fiorente attività, tuttavia, qualcosa sembrava essersi spento. Se sia per noia o per la ripetitività dei contenuti, non è dato saperlo. Quel che è certo è che, forse, il format non era ancora maturo e non era sviluppato al pieno delle sue potenzialità. I brevi video, ben presto, si erano trasformati in puntate che si susseguivano creando piccoli show sulla piattaforma che portavano migliaia di dollari nelle tasche dei giovanissimi creatori. Fiutato l'affare, l'addio alle due piattaforme fu una conseguenza quasi necessaria: serviva più tempo, più spazio, e soprattutto la possibilità di appoggiarsi a un servizio - come Youtube - noto a livello globale. Nacquero così i vlog, letteralmente dei diari-video giornalieri, in cui le star di questi social veloci si raccontavano al pubblico di giovanissimi che avevano fidelizzato via Vine o musical.ly. A far risorgere dalle ceneri questo tipo di applicazione, ci ha pensato lo stesso Youtube. Dopo il clamoroso disastro di Logan Paul, vlogger americano divenuto milionario inizialmente proprio grazie a Vine, che pubblicò sulla piattaforma un diario di viaggio in Giappone e il suo incontro ravvicinato, nella foresta dei suicidi di Aokigahara, con il cadavere di un ragazzo. Il declino della star, ma anche del diario video quotidiano, iniziò in questo modo. L'ossessione del mostrarsi sempre in contesti estremi, iniziava a non piacere più. E per questo bisognava trovare un'alternativa. Di nuovo.
Oggi TikTok è il social network più apprezzato dai teenager, ma sta pian piano conquistando anche un pubblico più adulto. I ragazzi, come spiegano i creatori della piattaforma, «trovano uno spazio in cui potersi esprimere liberamente, anche su questioni da adulti, ma lontano dagli occhi indiscreti dei genitori».
Così, tra una battaglia a colpi di coreografie semplicissime, tormentoni e sketch comici, ecco che compaiono video di politica, in cui chi si prepara a un futuro da elettore esprime il proprio punto di vista su questioni più o meno importanti. Gli hashtag politici hanno iniziato a spopolare sul social. Che siano tradotti in video ironici o no, il risultato non cambia. La politica è sbarcata anche tra i più giovani che l'hanno fatta loro e hanno dimostrato di non essere una generazione tutta «selfie e discoteche». A dimostrare come TikTok stia cambiando volto sono i numeri: video con l'hashtag #Usa2020 sono stati visualizzati oltre 18.500 volte, Donald Trump (che ancora non ha aperto un profilo ufficiale) vanta invece oltre 211 milioni di visualizzazioni. Le declinazioni di The Donald, su TikTok, sono molteplici e si dividono, come sempre, tra supporter e odiatori seriali. Con una peculiarità: tra i video vincono di gran lunga quelli con l'hashtag donaldtrumpsupporter (visualizzati oltre 290.000 volte) rispetto a quelli categorizzati con IhateDonaldTrump (fermi a 127.000).
Tornando in Italia, Matteo Salvini rimane il re indiscusso della piattaforma. Il suo hashtag ha ben 236.000 views. Con grande distacco Silvio Berlusconi, con l'hashtag #berlusconi (36.500 visualizzazioni) e il Movimento 5 Stelle, fermo a 12.500. Pressoché ininfluente, per ora, è invece Matteo Renzi che si ferma a 3.900 views.
Un discorso a parte è invece quello Giorgia Meloni che, con il suo, «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una mamma» è diventato un tormentone con oltre 136.000 video presenti sul social.
La storia di TikTok
TikTok è diventata senza dubbio una delle applicazioni più chiacchierate del web. Il suo successo è globale e così rilevante da aver fatto drizzare le orecchie persino al re dei social Mark Zuckerberg che, dopo aver tentato - fallendo - di acquistare la piattaforma dai suoi creatori in Cina, ha deciso di fare quello che fa meglio, ovvero «prendere ispirazione» e implementare le sue migliori funzionalità su una piattaforma di cui è proprietario, in questo caso Instagram.
Ma facciamo un passo indietro. Cosa differenzia TikTok da tutti gli altri social sul nostro smartphone? Mentre Instagram offre un sistema basato su immagini, Twitter su brevi pensieri che non devono superare un certo numero di caratteri e Snapchat permette di pubblicare foto e video «usa e getta», TikTok offre ai suoi utenti la possibilità di creare dei brevi video - della lunghezza massima di 15 secondi - partendo da un ampio database di effetti, canzoni e frasi ad effetto. Insomma, TikTok ha come obiettivo quello di farci divertire e sembra proprio che ci stia riuscendo. Soltanto durante lo scorso anno, l'applicazione è stata scaricata da oltre un miliardo di persone, superando il numero complessivo di utenti attivi di Twitter (336 milioni) e Snapchat (186 milioni). L'azienda cinese che l'ha creata - ByteDance - è oggi valutata più di 75 miliardi di dollari ed è stata definita la startup di maggiore successo al mondo, superando Uber.
Il successo globale di TikTok è arrivato negli ultimi anni, ma l'applicazione è nata nel 2014 con un nome differente. Musical.ly è frutto di un'idea degli imprenditori cinesi Alex Zhu e Luyu Yang, il cui obiettivo era introdurre nel mercato americano un'applicazione che potesse emulare il successo di Vine, ennesimo social dove poter pubblicare brevi sketch comici. Non è un caso che il marketing per Musical.ly fosse completamente basato sulla presenza dei maggiori nomi di Vine - da King Bach a Logan Paul - sulla nuova piattaforma. La presenza di questi ultimi non è però bastata per fare di Musical.ly un successo, portando alla sua acquisizione da parte di ByteDance nel novembre 2017.
Ci vuole comunque un anno prima che TikTok si faccia davvero notare. È solo nell'agosto scorso, infatti, che alcune star americane hanno deciso di sbarcare sul nuovo social, portando con se migliaia di nuovi fan. Parliamo del conduttore Jimmy Fallon - che ogni settimana lancia nuovi «challenge» per i suoi followers - o della comica Amy Schumer. La ByteDance ha inoltre intrapreso una massiccia campagna pubblicitaria, culminata in una «rap battle» con la cantante del momento, Cardi B. Ma, nonostante la presenza di centinaia di personaggi famosi, la vera forza di TikTok è l'essere un'app per la gente comune. Sono specialmente i giovani della Generazione Z a trovare in questo social un luogo dove si possono divertire e conoscere. Ogni post può ottenere milioni e milioni di visualizzazioni - anche se questo dato rimane visibile solo a chi carica il video - e l'homepage permette di scoprire gente sempre nuova. TikTok ha poi dalla sua un elemento fondamentale, forse il più importante: è completamente privo di pubblicità.
Mariella Baroli
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Matteo Salvini è il primo politico italiano a sbarcare sul social network cinese. Il video in cui «balla» ha addirittura superato il milione di visualizzazioni. Una seconda vita per la piattaforma più amata dai teenager che si apre alla politica, senza censura. A utilizzarlo, oltre al leader leghista, solo il democratico canadese Jagmeet Singh.La storia di TikTok. Da Musical.ly a Vine fino al fenomeno Snapchat. Come i mini video sono diventati virali più delle foto.Lo speciale comprende due articoli.Una musica epica, da film, la scritta «Onore alle forze dell'ordine» e Matteo Salvini che stringe le mani a un gruppo di uomini in divisa schierati davanti a lui. È iniziata con questo brevissimo video, poco più di una decina secondi, l'avventura del leader della Lega su TikTok. Il social network più famoso tra gli utenti della generazione Z (quella che comprende i nati tra il 1995 e il 2010) tra i suoi 500 milioni di utenti attivi ogni mese è un fenomeno di massa che non coinvolge più solo i giovanissimi ma che continua a guardare alle generazioni future con particolare interesse. L'ha capito Salvini, che, con il suo profilo da quasi 50.000 seguaci, è oggi il primo politico italiano a postare attivamente sulla piattaforma. Prima di lui, solo il leader del nuovo partito democratico canadese Jagmeet Singh aveva utilizzato la piattaforma per veicolare, in modo divertente e leggero, il suo programma anche ai più giovani. Ma che cos'è TikTok? Questa applicazione, disponibile oggi in 155 Paesi al mondo e in 75 lingue differenti, non è altro che un'evoluzione di musical.ly e Vine, due app divenute famose tra il 2013 e il 2014 in cui i teenagers postavano brevissimi sketch comici o video in cui si sfidavano con gare di lipsync. Il formato, semplice, scorrevole, ricco di effetti, era riuscito in brevissimo tempo a sconvolgere il mondo dei video sui social mettendo a dura prova piattaforme come Facebook, Instagram e Youtube. Dopo un paio di anni di fiorente attività, tuttavia, qualcosa sembrava essersi spento. Se sia per noia o per la ripetitività dei contenuti, non è dato saperlo. Quel che è certo è che, forse, il format non era ancora maturo e non era sviluppato al pieno delle sue potenzialità. I brevi video, ben presto, si erano trasformati in puntate che si susseguivano creando piccoli show sulla piattaforma che portavano migliaia di dollari nelle tasche dei giovanissimi creatori. Fiutato l'affare, l'addio alle due piattaforme fu una conseguenza quasi necessaria: serviva più tempo, più spazio, e soprattutto la possibilità di appoggiarsi a un servizio - come Youtube - noto a livello globale. Nacquero così i vlog, letteralmente dei diari-video giornalieri, in cui le star di questi social veloci si raccontavano al pubblico di giovanissimi che avevano fidelizzato via Vine o musical.ly. A far risorgere dalle ceneri questo tipo di applicazione, ci ha pensato lo stesso Youtube. Dopo il clamoroso disastro di Logan Paul, vlogger americano divenuto milionario inizialmente proprio grazie a Vine, che pubblicò sulla piattaforma un diario di viaggio in Giappone e il suo incontro ravvicinato, nella foresta dei suicidi di Aokigahara, con il cadavere di un ragazzo. Il declino della star, ma anche del diario video quotidiano, iniziò in questo modo. L'ossessione del mostrarsi sempre in contesti estremi, iniziava a non piacere più. E per questo bisognava trovare un'alternativa. Di nuovo.Oggi TikTok è il social network più apprezzato dai teenager, ma sta pian piano conquistando anche un pubblico più adulto. I ragazzi, come spiegano i creatori della piattaforma, «trovano uno spazio in cui potersi esprimere liberamente, anche su questioni da adulti, ma lontano dagli occhi indiscreti dei genitori». Così, tra una battaglia a colpi di coreografie semplicissime, tormentoni e sketch comici, ecco che compaiono video di politica, in cui chi si prepara a un futuro da elettore esprime il proprio punto di vista su questioni più o meno importanti. Gli hashtag politici hanno iniziato a spopolare sul social. Che siano tradotti in video ironici o no, il risultato non cambia. La politica è sbarcata anche tra i più giovani che l'hanno fatta loro e hanno dimostrato di non essere una generazione tutta «selfie e discoteche». A dimostrare come TikTok stia cambiando volto sono i numeri: video con l'hashtag #Usa2020 sono stati visualizzati oltre 18.500 volte, Donald Trump (che ancora non ha aperto un profilo ufficiale) vanta invece oltre 211 milioni di visualizzazioni. Le declinazioni di The Donald, su TikTok, sono molteplici e si dividono, come sempre, tra supporter e odiatori seriali. Con una peculiarità: tra i video vincono di gran lunga quelli con l'hashtag donaldtrumpsupporter (visualizzati oltre 290.000 volte) rispetto a quelli categorizzati con IhateDonaldTrump (fermi a 127.000). Tornando in Italia, Matteo Salvini rimane il re indiscusso della piattaforma. Il suo hashtag ha ben 236.000 views. Con grande distacco Silvio Berlusconi, con l'hashtag #berlusconi (36.500 visualizzazioni) e il Movimento 5 Stelle, fermo a 12.500. Pressoché ininfluente, per ora, è invece Matteo Renzi che si ferma a 3.900 views.Un discorso a parte è invece quello Giorgia Meloni che, con il suo, «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una mamma» è diventato un tormentone con oltre 136.000 video presenti sul social. !function(e,i,n,s){var t="InfogramEmbeds",d=e.getElementsByTagName("script")[0];if(window[t]&&window[t].initialized)window[t].process&&window[t].process();else if(!e.getElementById(n)){var o=e.createElement("script");o.async=1,o.id=n,o.src="https://e.infogram.com/js/dist/embed-loader-min.js",d.parentNode.insertBefore(o,d)}}(document,0,"infogram-async");<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tiktok-salvini-2641409446.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-storia-di-tiktok" data-post-id="2641409446" data-published-at="1766870339" data-use-pagination="False"> La storia di TikTok TikTok è diventata senza dubbio una delle applicazioni più chiacchierate del web. Il suo successo è globale e così rilevante da aver fatto drizzare le orecchie persino al re dei social Mark Zuckerberg che, dopo aver tentato - fallendo - di acquistare la piattaforma dai suoi creatori in Cina, ha deciso di fare quello che fa meglio, ovvero «prendere ispirazione» e implementare le sue migliori funzionalità su una piattaforma di cui è proprietario, in questo caso Instagram. Ma facciamo un passo indietro. Cosa differenzia TikTok da tutti gli altri social sul nostro smartphone? Mentre Instagram offre un sistema basato su immagini, Twitter su brevi pensieri che non devono superare un certo numero di caratteri e Snapchat permette di pubblicare foto e video «usa e getta», TikTok offre ai suoi utenti la possibilità di creare dei brevi video - della lunghezza massima di 15 secondi - partendo da un ampio database di effetti, canzoni e frasi ad effetto. Insomma, TikTok ha come obiettivo quello di farci divertire e sembra proprio che ci stia riuscendo. Soltanto durante lo scorso anno, l'applicazione è stata scaricata da oltre un miliardo di persone, superando il numero complessivo di utenti attivi di Twitter (336 milioni) e Snapchat (186 milioni). L'azienda cinese che l'ha creata - ByteDance - è oggi valutata più di 75 miliardi di dollari ed è stata definita la startup di maggiore successo al mondo, superando Uber. Il successo globale di TikTok è arrivato negli ultimi anni, ma l'applicazione è nata nel 2014 con un nome differente. Musical.ly è frutto di un'idea degli imprenditori cinesi Alex Zhu e Luyu Yang, il cui obiettivo era introdurre nel mercato americano un'applicazione che potesse emulare il successo di Vine, ennesimo social dove poter pubblicare brevi sketch comici. Non è un caso che il marketing per Musical.ly fosse completamente basato sulla presenza dei maggiori nomi di Vine - da King Bach a Logan Paul - sulla nuova piattaforma. La presenza di questi ultimi non è però bastata per fare di Musical.ly un successo, portando alla sua acquisizione da parte di ByteDance nel novembre 2017. Ci vuole comunque un anno prima che TikTok si faccia davvero notare. È solo nell'agosto scorso, infatti, che alcune star americane hanno deciso di sbarcare sul nuovo social, portando con se migliaia di nuovi fan. Parliamo del conduttore Jimmy Fallon - che ogni settimana lancia nuovi «challenge» per i suoi followers - o della comica Amy Schumer. La ByteDance ha inoltre intrapreso una massiccia campagna pubblicitaria, culminata in una «rap battle» con la cantante del momento, Cardi B. Ma, nonostante la presenza di centinaia di personaggi famosi, la vera forza di TikTok è l'essere un'app per la gente comune. Sono specialmente i giovani della Generazione Z a trovare in questo social un luogo dove si possono divertire e conoscere. Ogni post può ottenere milioni e milioni di visualizzazioni - anche se questo dato rimane visibile solo a chi carica il video - e l'homepage permette di scoprire gente sempre nuova. TikTok ha poi dalla sua un elemento fondamentale, forse il più importante: è completamente privo di pubblicità.Mariella Baroli
iStock
Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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